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SOPRA DANTE 179

ch’io, supple dissi, Maestro, Virgilio. E ben fa qui a chiamarlo maestro, perciocchè a’ maestri si vogliono muovere i dubbii e da loro aspettare le chiarigioni: il senso lor, cioè quello che dir vogliono, m’è duro, cioè malagevole ad intendere. E quelli, cioè Virgilio, a me, supple rispose, come persona accorta, cioè intendente, Qui, cioè in questa entrata, si convien lasciare ogni sospetto, acciocchè sicuro si vada: Qui si convien ch’ogni viltà, d’animo, sia morta, cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua entro. E son queste parole prese del sesto dell’Eneida, dove la Sibilla dice ad Enea:

Nunc animis opus est Ænea, nunc pectore forti.
Noi siam venuti al luogo, ov’io t’ho detto,

cioè all’inferno, del quale vicino alla fine del primo canto gli disse,

Che vederai le genti dolorose,

C’hanno perduto, per li lor peccati, il ben dell’intelletto, cioè Iddio, il quale è via, verità e vita: e il ben dell’intelletto è la verità, per la quale tutti per diverse vie ci fatichiamo, e pochi alla notìzia di quella pervengono.

E poichè la sua mano alla mia pose,
Con lieto viso, ond’io mi confortai.

Qui assai manifestamente n’ammaestra l’autore, con che viso noi dobbiamo mettere chi ne segue nelle dubbiose cose: e dice che dee esser con lieto; perciocchè dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtà chi segue: dove non avendolo lieto, coloro che a lui riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili, come noi leggiamo le legioni romane,