Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/358

352 nota

il libro «titolato Decameron», senz’altro1. Tutto ciò fu giá avvertito dall’Hauvette, il quale, in una breve memoria scartò giudiziosamente l’ipotesi preliminare che il Bocc. abbia escogitato quel sottotitolo all’atto della composizione dell’opera2: cosí, egli venne esplicitamente a riconoscerne il carattere interpolativo, il che, se anche a lui non parve poi di dover percorrere sino in fondo la strada3, basta a costituire un fondato consenso di massima al mio avviso, che quell’aggiunta non abbia il minimo diritto di figurare nel testo.

Gli altri luoghi nei quali ho creduto che si debbano riscontrare interpolazioni nella lezione di B sono i seguenti:

  1. Cfr. p. 355, n. 3.
  2. Principe Galeotto, nei Mélanges offerts à M. E. Picot, 1913, I, p. 505 sgg.; cfr. anche Boccace, p. 211.
  3. L’Hauvette ammise che l’aggiunta fosse scritta sull’esemplare autografo del Bocc., e per conseguenza da lui stesso, ma alcuni anni piú tardi: ossia dopo il 1360, quand’egli s’era fatto grave, moralista e devoto. La ragione addotta è questa: «l’exemplaire sur lequel fut faite l’addition doit être nécessairement considéré comme l’archetype d’où dérivent toutes les copies que nous possédons», e ciò equivale a dire che si fatto esemplare «doit avoir été l’exemplaire de Boccace» (p. 508). Ma perché? Che cosa vieta di credere (ed io per vari indizi lo credo) che l’archetipo comune di tutte le copie sin qui conosciute sia non giá lo stesso x cioè l’autografo, ma y cioè una sua copia immediata? In y possono essere state aggiunte primamente quelle parole, da un lettore che avesse famigliare il celebre verso di Dante (Inf., V, 137) conoscenza che non s’ha davvero motivo di supporre, nella seconda metá del Trecento, monopolio esclusivo del Nostro. Non mi fermo poi sulle ragioni intrinseche, di decoro e d’amor proprio, che a me sembra intuitivo non dovessero consentire al Bocc. quel basso screditamento dell’opera propria, qualunque fosse il giudizio morale ch’egli ne portava da vecchio e che solo in occasioni eccezionali (come nella lettera al Cavalcanti) poté essere confidato ad estranei. Non mi sfugge finalmente che pochi anni fa H. Morf in una memoria densa e notevole che s’intitola dal verso dantesco (può vedersene un lucido riassunto nel Giorn. stor., LXX [1917], pp. 196-8) patrocinò una riabilitazione di Galeotto, il cui tipo morale presso l’Alighieri, ed anche presso il Bocc. nell’Amorosa visione (XI, 28-30) e nel Comento, sarebbe non quello d’un turpe mezzano ma d’un cavalleresco messo d’amore. Ebbene, se pure si deve ammettere ciò, io nego che il nome di Galeotto possa essere stato dato dallo scrittore stesso all’opera sua, perché un Galeotto simbolo dell’amore cortese sarebbe in fondamentale contrasto col carattere d’un libro quale il Dec., dove si esalta ben altro amore; dal punto di vista strettamente e rigorosamente morale, all’autore stesso non parve di potersi considerare altro che «spurgidum lenonem»! Dove va a finire il gentil messo d’amore? Qualunque fosse pertanto l’opinione che nel Trecento si aveva del cavaliere Galahot, converrá pur sempre ravvisare nelle parole «cognominato prencipe Galeotto» un apprezzamento di sostanza non cavalleresca ma morale, ed attribuirle, per conseguenza, ad un lettore.