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172 Giovanni Boccacci

     Perciò ch’ognora si fanno più belle10
     E a me manca forza ad aspettare.
     Dunque farò com’uom quando disia
     Quel di che mai non de’ udir novelle,
     Ma sostentat’è pur col van sperare1.


Cadute son degli arbori le foglie,
     Taccion gli uccelli e fumman le fontane;
     Le dimestiche fere e le selvane2
     Giuso ànno poste l’amorose voglie.
     E l’umido vapor, che si raccoglie5
     Nell’aria3, attrista il cielo, e dalle sane
     Menti son fatte le feste lontane
     Per la stagion acerba, ch’or le toglie4.
Né altrove che ’n me si trova amore,
     Il qual così mi tene e strugge forte,10
     Come suol far nel tempo lieto e verde5,Fonte/commento: editio maior
     E tra ’l ghiaccio e la neve m’arde il core,
     Il qual per crudeltà6 non teme morte,
     Né per girar di ciel7 lagrima perde.


  1. «Quando desidera una notizia che non gli perverrà mai, ma si sostiene solo con la speranza, per quanto vana.»
  2. «Gli animali domestici ed i selvatici.»
  3. Il ricordo di due emistichi del Purg., V, 109-110, si combina qui con quello del v. 22 della canzone, pure dantesca, Io son venuto al punto della rota, della quale tutto il presente sonetto, che arieggia assai da vicino al XXXVII degli autentici (cfr. p. 77, n. 1), è una buona imitazione.
  4. «Impedisce.»
  5. Di primavera.
  6. «Per quanto si sia crudele con lui.»
  7. «Per quanto passi il tempo.»