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88 Giovanni Boccacci

     Di quella donna1, a cui diede il mio core
     Amor, della mia fede eterno pegno;
     Et anchora l’angoscia ch’io sostegno5
     O per lo suo o per lo mio errore,
     Veggendo me della sua gratia fore
     Esser sospinto da crudele sdegno:
Io mostrerrei assai chiaro et aperto
     Che ’l pianger mio et mio essere smorto10
     Maraviglia non sia, ma ch’io sia vivo.
     Ma, poi2 non posso, ciaschedun sia certo
     Che gli è assai maggiore il duol ch’io porto,
     Che ’l mio viso non monstra et ch’io non scrivo.


LIII.


Dentro dal cerchio, a cui intorno si gira3
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .


  1. È da costruire: «Se l’ingegno mi bastasse allo scrivere la mirabil bellezza ecc.».
  2. «Poiché.»
  3. Questo miserrimo frammento è riferito nella trascrizione, lasciataci dallo stesso Boccacci in un suo celebre zibaldone autografo, della lettera ch’egli diresse, in data del 3 aprile 1339, a Carlo d’Angiò duca di Durazzo. Il sonetto (è da intendere che tale fosse il componimento, cui l’autore chiama ‘parvus et exoticus sermo caliopeo moderamine constitutus’, ‘caliopeus sermo’) lamentava dolori amorosi, da riconnettere probabilmente allo sdegno della Fiammetta, onde si parla in altri sonetti (cfr. qui, p. 81, n. 2); questo noi ricaviamo dalle parole della epistola, in cui sono rammentate l’avversità della dea Ramnusia (la fortuna) e la crudeltà di un’importuna passione erotica. È poi da osservare che la data, certa, della poesia di cui trattiamo è la medesima che per altra via abbiamo potuto determinare occupandoci del son. XLVII.