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elegia decimaquinta. 243

     L’esserne privo causa maggior lutti,
Poi ch’io n’ho fatto il saggio, che non fôra
99Se avuto ognor n’avessi i denti asciutti.
     D’ingrata e di crudel dar nota allora
Io vi potea: d’ingrata e di crudele,
102Ma di più, dar di perfida posso ora.
     Or queste sieno l’ultime querele
Ch’io ne faccia ad altrui: non men secreto
105Vi sarò, ch’io vi sia stato fedele.
     Voi, colli e rivi e Ninfe, e ciò che a drieto
Ho nominato, per Dio, quanto io dico
108Qui con voi resti. Così sempre lieto
     Stato vi serbi ogni elemento amico.




ELEGIA DECIMASESTA.




     1Lasso, come potrò chiudere in versi
L’alta beltade, e quel vago disio,
3Ove sì ingordi gli occhi e il côre apersi?
     Che se ben lor valor misuro e ’l mio,
Essendo debil questo e quello immenso,
6Ben debbo esser nel dir lento e restio.
     Ma se ben ugualmente i’ non dispenso
Alla man quei concetti adorni ed alti
9Che per gli occhi nel cuor mi formo e penso;
     Pur suolsi dir che ’n gli amorosi assalti,
Passione occulta e virtù non intesa
12Rado avvien che s’alleggi e che si esalti.
     Però, a rimedio della mente accesa,
Ed a gloria di quella alma beltade,
15La debil penna nella mano ho presa.
     O singolar virtù, vera onestade,
Che mi sospingi là dove, se manca
18Tuo ajuto, la virtù mia morta cade;


  1. Questa Elegia, da chi ci ebbe preceduti, fu tolta dalle antiche edizioni dell’Erbolato, fatte in Venezia e in Ferrara, al fine delle quali si trova. Sembra, per lo stile, da annoverarsi tra le cose del nostro più giovanili.