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anelito. — Ma poi scoppiammo in esclamazioni, in imprecazioni violente, tirando giù tutti i personaggi del Calendario, passandoci intorno al collo il fazzoletto inzuppato, furibondi contro Carlo Emanuele III e tutti i suoi ingegneri. Espressi però al Giacosa la mia meraviglia di vederlo uscir dai gangheri anche lui, appassionato alpinista. — Ma che storie! — rispose, — chi sale, sagra; ho sempre visto così. — Oramai le piante dei piedi s’inchiodavano nella pietra, le gambe ci rientravano in corpo, e le braccia ci spenzolavano come due cenci: chi ci avesse visti dal basso, ci avrebbe presi per due malati di spina che si trascinassero ad un santuario di montagna a domandare la grazia. L’aria soffiava sempre più viva, e portava delle buone fragranze di piante resinose; il paese che si vedeva dalle feritoie, doveva essere stupendo; ma noi non badavamo più a nulla. Eravamo pervenuti a quel periodo stupido della fatica, nel quale, anche a sentirsi mettere sulle spalle tutto il vocabolario della Crusca, non si avrebbe più fiato in corpo da protestare. E andavamo su, per forza d’inerzia, col mento sul petto, con la lentezza funebre degli incappati di Dante, quando il sergente, che era d’un lungo tratto più avanti di noi, ci gridò: — Ancora un quarto d’ora. — Io capii tre quarti, e voltandomi verso il Giacosa che era molto più in giù, gli domandai con voce lamentevole: — Ha detto tre quarti? — E il Giacosa mi rispose con voce tonante:

Uno ei gridò, e d’un angelo
Mi parve la sua voce!