Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/254

248 la divina commedia

     prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
66come fu al peccar, pone al tormento.
     E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e piú, pur mo sentii
69libera volontá di miglior soglia:
     però sentisti il tremoto, e li pii
spiriti per lo monte render lode
72a quel Signor che tosto su li ’nvii».
     Cosí ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
75non saprei dir quant’el mi fece prode.
     E ’l savio duca: «Omai veggio la rete
che qui v’impiglia e come si scalappia,
78perché ci trema, e perché congaudete.
     Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
81qui se’, ne le parole tue mi cappia».
     «Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
84ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto,
     col nome che piú dura e piú onora
er’io di lá» rispose quello spirto
87«famoso assai, ma non con fede ancora.
     Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
90dove mertai le tempie ornar di mirto.
     Stazio la gente ancor di lá mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
93ma caddi in via con la seconda soma.
     Al mio ardor fur seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
96onde sono allumati piú di mille;
     de l’Eneida dico, la qual mamma
fummi e fummi nutrice poetando:
99senz’essa non fermai peso di dramma.