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un Dante con quel peregrino suo poema, nel quale imprese a descrivere fondo, siccome egli dice, a tutto l’universo. Oltre all’esser egli stato secondo i suoi tempi in ogni genere di dottrina versatissimo, sicché avea fatto in mente grandissimo tesoro di cose, e oltre all’aver sortito per vestirle di belle immagini una fantasia oltre ogni credere vivace e gagliarda, ebbe una discrezione somma nell’accattare e scegliere da tutte parti d’Italia i più accomodati modi da esprimerle. Onde meritamente di nostra lingua è chiamato padre e re; come quegli che non avendo predilezione più per una provincia che per un’altra, ne ridusse le varie favelle come in un corpo solo, e le particolari ricchezze di quelle volle rendere a tutta Italia comuni. E nel medesimo secolo apparirono dipoi, per non parlar del Villani, del Passavanti e di parecchi altri pulitissimi scrittori, il Boccaccio e il Petrarca, i quali col trattare argomenti più gentili e piani, al corpo di questa nostra lingua vennero a dare il suo compimento; quasi come Raffaello, che venne a perfezionar la pittura dando morbidezza e grazia alla grandiosità e alla fortezza di Michelagnolo. E però mediante la eccellenza di quei primi scrittori, e singolarmente di quei tre, Dante, Boccaccio e Petrarca, che sono quasi i triumviri del bel parlare, e lo studio che fu posto in essi, la lingua italiana di volgare e mutabile divenne ben presto grammaticale e perpetua.

All’incontro la lingua francese, assai più antica della nostra, sino al regno di Francesco