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54 rime varie


Molle udirete il flauticello mio
11L’aure agitare armoniosamente
Per lusingar l’eterno vostro obblio.
Poi, per scolparmi, alla straniera gente
14Dirò: l’Itala son Melpomen’io.


XXXVIII [liii].1

A Dante Alighieri.

O gran padre Alighier, se dal ciel miri
Me tuo discepol non indegno starmi,
Dal cor traendo profondi sospiri,
4Prostrato innanzi a’ tuoi funerei marmi;
Piacciati, deh! propizio ai be’ desiri,
D’un raggio di tua luce illuminarmi.
Uom, che a primiera eterna gloria aspiri,
8Contro invidia e viltà de’ stringer l’armi?2


    piú che l’orecchio; perché se un buon attore glieli avesse recitati bene a senso, staccati, rotti, vibrati, invasandosi dell’azione, ella avrebbe forse sentito un parlare non sdolcinato mai, ma forte, breve, caldo, e tragico, se io non m’inganno. Cosí è succeduto all’Antigone in Roma, che alla recita fu trovata chiara ed energica dai piú; alla lettura poi, da molti oscura e disarmonica. Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all’occhio, come lo divenivano elle all’orecchio? Io le spiegherò quest’enimma. I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai piú idioti; letti poi non cosí a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, e non cantato; letti da gente avvezza a sonetti e a ottave, non vi trovando da intonare la tiri tera, li tacciarono di duri; pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza biasimata». — Il flauticello mio: «Il flauto era proprio di Euterpe, la musa del canto lirico; ma il poeta finge che Melpomene imbocchi il flauto anche lei per meglio cullar il lungo sonno oblioso degli Italiani» (De Benedetti, op. cit., 44). — Per lusingar etc., per addormentarvi in quel sonno che vi è tanto gradito. Nella satira I pedanti, in un immaginario dialogo con Don Buratto cruscante, cosí scrive l’A.:

    Vo rifar mie tragedie in manto Greco:
    Strofe, Antistrofe, ed Epodo, e Anapesti
    Tutto accattando dall’Ellenio speco.
    Trissineggianti poi versi modesti,
    E moltissimi, molto appianeranno
    Lo stil, sí che il lettor non ci si arresti...

  1. Allontanatosi da Roma nel 1783, dopo tre settimane di soggiorno in Siena, avvicinandosi la festa dell’Ascenza, l’A. si avviò alla volta di Venezia; ma giunto a Bologna, fece una digressione per visitare il sepolcro di Dante a Ravenna, e un giorno intero vi passò «fantasticando, pregando e piangendo». (Aut., IV, 10°). Il 31 maggio, tra Imola e Faenza, come rilevasi dal ms., compose, a sfogo dell’ira che gli bolliva nel cuore per le molte e aspre critiche fatte alle su tragedie, il presente sonetto, ispirato, non v’è dubbio, dal dialogo fra Dante e Cacciaguida su, nella sfera di Marte (Par., XVII, 108 e segg.).
  2. 7-8. Dante, nel cit. passo:
    Giú per lo mondo senza fine amaro,
    E per lo monte dal cui bel cacume
    Gli occhi della mia donna mi levaro,
    E poscia per lo ciel di lume in lume
    Ho io appreso quel che s’io ridico
    A molti fia savor di forte agrume;