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54 | rime varie |
Molle udirete il flauticello mio
11L’aure agitare armoniosamente
Per lusingar l’eterno vostro obblio.
Poi, per scolparmi, alla straniera gente
14Dirò: l’Itala son Melpomen’io.
XXXVIII [liii].1
A Dante Alighieri.
O gran padre Alighier, se dal ciel miri
Me tuo discepol non indegno starmi,
Dal cor traendo profondi sospiri,
4Prostrato innanzi a’ tuoi funerei marmi;
Piacciati, deh! propizio ai be’ desiri,
D’un raggio di tua luce illuminarmi.
Uom, che a primiera eterna gloria aspiri,
8Contro invidia e viltà de’ stringer l’armi?2
- Vo rifar mie tragedie in manto Greco:
- Strofe, Antistrofe, ed Epodo, e Anapesti
- Tutto accattando dall’Ellenio speco.
- Trissineggianti poi versi modesti,
- E moltissimi, molto appianeranno
- Lo stil, sí che il lettor non ci si arresti...
- ↑ Allontanatosi da Roma nel 1783, dopo tre settimane di soggiorno in Siena, avvicinandosi la festa dell’Ascenza, l’A. si avviò alla volta di Venezia; ma giunto a Bologna, fece una digressione per visitare il sepolcro di Dante a Ravenna, e un giorno intero vi passò «fantasticando, pregando e piangendo». (Aut., IV, 10°). Il 31 maggio, tra Imola e Faenza, come rilevasi dal ms., compose, a sfogo dell’ira che gli bolliva nel cuore per le molte e aspre critiche fatte alle su tragedie, il presente sonetto, ispirato, non v’è dubbio, dal dialogo fra Dante e Cacciaguida su, nella sfera di Marte (Par., XVII, 108 e segg.).
- ↑ 7-8. Dante, nel cit. passo:
Giú per lo mondo senza fine amaro,
E per lo monte dal cui bel cacume
Gli occhi della mia donna mi levaro,
E poscia per lo ciel di lume in lume
Ho io appreso quel che s’io ridico
A molti fia savor di forte agrume;
piú che l’orecchio; perché se un buon attore glieli avesse recitati bene a senso, staccati, rotti, vibrati, invasandosi dell’azione, ella avrebbe forse sentito un parlare non sdolcinato mai, ma forte, breve, caldo, e tragico, se io non m’inganno. Cosí è succeduto all’Antigone in Roma, che alla recita fu trovata chiara ed energica dai piú; alla lettura poi, da molti oscura e disarmonica. Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all’occhio, come lo divenivano elle all’orecchio? Io le spiegherò quest’enimma. I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai piú idioti; letti poi non cosí a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, e non cantato; letti da gente avvezza a sonetti e a ottave, non vi trovando da intonare la tiri tera, li tacciarono di duri; pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza biasimata». — Il flauticello mio: «Il flauto era proprio di Euterpe, la musa del canto lirico; ma il poeta finge che Melpomene imbocchi il flauto anche lei per meglio cullar il lungo sonno oblioso degli Italiani» (De Benedetti, op. cit., 44). — Per lusingar etc., per addormentarvi in quel sonno che vi è tanto gradito. Nella satira I pedanti, in un immaginario dialogo con Don Buratto cruscante, cosí scrive l’A.: