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di vittorio alfieri 77


Amor che l’intelletto a’ suoi disserra,
Veggio turbato invidïoso starsi
Del non aver fatt’ei di vanni armarsi
8Uom, che dal nostro carcere si sferra.1
Desío di prisca libertade, è fama,
Ch’ali impennasse2 al volator primiero;
11Gloria i due, ch’or qui veggio, al volo chiama.
Duolmene, Amor; ch’era da te il sentiero:
Tu dovevi inspirar sí audace brama;
14Tu Leandro guidar per l’aure ad Ero.3


LXVIII [lxxix].4

Lingua umana non può adeguatamente lodar la Contessa.

Chi vuol laudare la mia donna, tace;5
Tanta lo prende nuova6 maraviglia,
Ché impresa ei7 troppo stimerebbe audace,
4Parlar di cosa, cui nulla somiglia.8
L’invidia pur, che in suo livor si sface,9


    tica, in Giorn. st. d. lett. it., XXX, 414 e segg.»). Anche la Musa dell’A., il quale essendo a Parigi, «vide due delle prime e piú felici esperienze delle due sorti [di globi areostastici], l’uno di aria rarefatta ripieno, l’altro d’aria infiammabile, e a cui pareva che a quella scoperta, per meritare il titolo di sublime, altro non mancasse che la possibilità o verisimiglianza di essere adattata ad una qualche utilità» (Aut., IV, 12°), anche la Musa dell’A., dico, non tacque, ma, bisogna pur confessarlo, la sua parola non fu questa volta né profonda né forte. Il nostro Poeta non intravvede, come il Monti, l’importanza della nuova scoperta, non si esalta dinanzi a ciò che l’uomo è stato capace di compiere, arra di quanto, forse potrà fare nel tempo avvenire, non è agitato, come il Parini, dal dubbio che essa possa accrescere l’infelicità, anzi che la felicità degli uomini; il suo sonetto, che meglio si direbbe un madrigale, si chiude con un gelido richiamo ad Ero e a Leandro. Il son. dell’A. fu scritto il 3 nov. 1783.

  1. 5-8. Veggo, dice l’A., Amore, che apre a’ suoi l’intelligenza, starsene tutto turbato e invidioso perché non forní di ale l’uomo, che, mercé sua, si libera dal nostro carcere mondano.
  2. 10. Impennasse, preparasse, fornisse, allusione alla favola di Dedalo (Ovidio, Metam. VIII, Dante, XVII, 109 e segg.) che fabbricò a sé e al proprio figlio Icaro le ale per uscire dal laberinto. Questo verbo ricorda lo spennare usato nel cit. luogo da Dante.
  3. 14. Leandro era un giovane greco di Abido il quale, per visitare la sua amante Ero, che abitava a Sesto, sull’altra riva dello Stretto, passava ogni notte a nuoto l’Ellesponto, e si annegò (vegg. su questo soggetto la bellissima eroide diciassettesima di Ovidio, e Dante, Purg., XXVIII, 73 e segg.)
  4. È uno di quei due sonetti senza data a cui ho accennato di sopra.
  5. 1. Il Petrarca, di Laura (Rime, CLXXXVII):
    ... forse scemo sue lode parlando.
  6. 2. Nuova, inusitata.
  7. 3. Ei, si riferisce al chi del 1° verso.
  8. 4. Il Petrarca (Rime, CLX):
    Che sol se stessa, e nulla altra simiglia.
  9. 5. Espressione che ricorda quella del Libro de’ Proverbi (XIV, 30): «Putredo ossium, invidia».