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A PROPOSITO DEI SONETTI DI CESARE PASCARELLA




Se non posso vantarmi di aver sempre voluto bene al Pascarella, perchè conoscerlo e volergli bene è un punto solo: e se è naturale che, avendolo io conosciuto una ventina d’anni fa, da una ventina d’anni mi compiaccia dirlo amico mio, perchè, oltre tutto il resto, egli è un fior di galantuomo; una qualche lode mi spetta, e me l’attribuisco anche da me stesso, per essere stato un de’ primi a dire pubblicamente di lui, e per aver così, in qualche modo, giovato a diffondere la conoscenza e l’ammirazione de’ sonetti suoi, quando ancora non erano, come ora sono, noti e ammirati universalmente.

Doppio piacere ho avuto, per ciò, nel vedermi tornare innanzi, in un elegante volume, i suoi Sonetti, che il tempo non ha avvizziti; anzi sembrano, così raccolti, più vivaci e più freschi che mai; vedermi tornare innanzi quelle figurine pascarelliane, disegnate con spirito e bravura da rammentare spesso il Callot, ma che hanno non di rado un’anima e un’intenzione che il Callot non diede a’ minuscoli eroi delle sue fiere e de’ suoi balli. Dopo averle riudite, a mio gran diletto, ne’ monologhi e ne’ dialoghi del loro efficace romanesco, vorrei oggi spiegare a me stesso perchè l’arte del Pascarella ci vinca a questo modo, e ci tenga suoi sempre più; vorrei tentare di persuadere qualche altro lettore ad ammirare quell’arte, di un vivente, come si ammirano, per esempio, la Prineide del Grossi, e le Desgrazi de Giovannin Bongee del Porta, ormai consacrate dalla fama; senza ricorrere al perpetuo raffronto col Belli, sebbene questi sia, senza dubbio, il diretto progenitore del Pascarella, e, ne’ primordii, il maestro suo.