Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XI

Parte prima - XI

../X ../XII IncludiIntestazione 24 febbraio 2024 75% Da definire

Parte prima - X Parte prima - XII

[p. 83 modifica]

XI

IL SOCCORSO — 85 LEGHE A CAVALLO


AA
h! fu una scena toccante e bella!… Spuntano da un gomito del fiume cinque Indiani, che si avanzano frettolosi… «Capitano, grido, notizie, notizie! ci sono Indiani che vengono lesti.» Infatti non è loro costume andar lesti, benchè sieno grandi camminatori. Si avanzano dritto lungo il greto, giungono davanti il vaporino incagliato, fanno un mezzo giro militaresco a sinistra, e con mille atti ci avvisano che oltre il nostro punto v’hanno vacche, cavalli e soldati che vengono apposta a… soccorrerci. Diamo nel fischio della macchina, e al potente sibilo prolungato rispondono spari di fucile prossimi… ancora pochi momenti ed ecco sbucare di tramezzo gli alberi e arbusti che rivestono la ripa tre, dieci, venti Indiani seminudi e nudi, con lancia, con pennacchio, con incesso impettito, svelto, soldatesco, che si dispongono in linea sull’arena, e poi il messaggiero col suo guardamonte su mula, e poi due soldati e poi tre vacche e cavalli e Indiani, che formano sul greto un quadro quale può apparire sulle scene di un teatro. Sono otto giorni che non mangiamo più carne e per due mesi l’avevamo mangiata salata; si sono già esauriti i ceci e i fa[p. 84 modifica]giuoli e il nostro vitto è raccomandato alla semplicità dei pesci e di qualche gallina di bosco caduti nei nostri lacci, e siamo nel deserto, tra i selvaggi ora miti, ora feroci, ora perfidi… figuratevi dunque con quanto cuore accogliamo il soccorso preparato, ma aspettato per più tardi… Ancora un poco e sopraggiunge un alfiere con due sott’ufficiali ed altri. Mandiamo il canotto, e si approssimano a salire nel bastimento… Ma che è? sento uno stringimento forte, ma forte, al cuore; vedo al lato dell’alfiere il ladino, che già soldato, ha disertato due volte, ed ora per la terza si trova nelle mani di chi domani può fucilarlo. Son quaranta giorni che fa quasi vita con noi; disertore, si cacciò tra gl’Indiani, ne apprese la lingua in tre anni di dimora tra loro e ci ha servito fedelmente tutto questo tempo. Fu in grazia sua che, impediti di proseguire dopo una navigazione di quaranta giorni, potemmo ottenere dagli Indiani suoi amici come mandare un espresso alla frontiera cristiana, distante per terra cento leghe, per chiedere soccorso, che ci è giunto dopo altri trentasei giorni… E poi egli mi è stato maestro di lingua indiana per tutto questo tempo!… ah! potessimo salvarlo!...................

Povero Faustino! ti nocque la nostra pietà! per essa ti sottraesti al gastigo, che tu dovevi alla disciplina militare, ma che pure ti avrebbe restituito alla società a cui anelavi appartenere, e per essa fosti serbato a cadere vittima della gelosia feroce dei tuoi compagni non battezzati! Invidi dell’affetto che noi tutti ti tributavamo, e dei doni che ti regalavamo, benchè tu generoso e seguace di lor costume, ne facessi partecipi loro e la tua compagna, figlia di loro stirpe. Timorosi che tu perdessi l’uguaglianza, che è lor si cara, vollero spengerti; e dapprima ti trafissero con dardi; poi, quali fiere, ti sgozzarono, già inabile a resistere, ma pur consapevole del supplizio e sofferente. Non sazi ancora, incrudelirono empii sul tuo cadavere, che appesero pei piedi, dopo recisa dal busto la testa, desti[p. 85 modifica]nata a fornire della cotenna intonsa la coppa, da cui, ricolma, la già tua compagna sorbirà durante l’orgia la bevanda fermentata stillante giù per quei capelli coi quali tante volte scherzarono le sue mani, sollecitante i tuoi amplessi!…

Ma se chi lascia eredità d’affetti trae gioia dall’urna, e se le lacrime dei superstiti, come stille della rugiada sulla corolla del fiore riarso, son di refrigerio al trapassato, secondo cantarono i nostri Vati, tu vanne pur lieto! perchè tre volte sette tuoi amici formatisi nelle angustie, piansero di te il fato atroce e di te conservano cara e santa la memoria; di te, reietto dalla società dei battezzati, perchè insofferente del rigore spietato delle sue leggi… Oh! La civiltà pure ha le sue ferocie!… ed io accompagno con un gemito questo tributo alla memoria di te due volte straziato e contaminato dal flagello vibrato sul tuo corpo in nome della legge civile! Di te Faustino Diaz, che fosti tromba del dodicesimo reggimento dragoni, sempre orfano, due volte flagellato, paria sempre nella società in cui nascesti, vittima in quella che avevi eletta, amico dei bisognosi viandanti tra i tuoi carnefici!...........

Erano trascorsi 72 giorni di navigazione pel Vermiglio, quando giunse l’invocato soccorso. Dopo tre giorni principiammo la marcia per terra, a traverso il territorio indiano, con scarsissime provvisioni a motivo di essere state ben poche quelle portateci, ed averle dovute lasciare anche agli uomini che restavano sul vaporino.

Eravamo dieci od undici. Dopo un 110 leghe di marcia forzata, giungemmo a una gran tolderia detta del Ciaguarál, di cui era cacicche generale il tal Peiló e vi erano altri undici cacicchi. Sette leghe avanti avevamo pure attraversato altra tolderia di minor conto detta della Cruz Chica.

Li sorprendemmo mentre stavano nell’acqua pescando.

Erano Mattacchi; cotesta tolderia ha una bella laguna sulle cui rive stavano disposti i toldi, che occupavano la esten[p. 86 modifica]sione di circa un chilometro di fronte con due o tre file di fondo.

Stavano pescando in molti, tutti in riga lanciando alte grida, scuotendo l’acqua e avanzando; poi di tanto in tanto quasi tuffandosi, dopo rialzandosi, agitando le reti e dandovi colpi sopra per stordire il pesce raccolto.

Questi Indiani hanno diversi modi di pescare; hanno quello delle steccate, che già menzionai, e che fanno l’ufficio delle nostre nasse; hanno quello con una rete per uomo, infilata pel lungo in due bastoni tenuti ciascuno con una mano, lunga la rete da due o tre metri e larga circa un metro; questa l’aprono, la immergono, la rialzano stretti i bastoni, e ne tolgono la preda dopo storditala a furia di colpi, tal rete la chiamano hút-tanác; hanno l’altro, pure con rete, ma lunga da 8 a 15 metri portata da diversi individui; sarebbe il nostro giacchio, ed essi la chiamano huéc-lú.

Usano inoltre la freccia e la lancia corta, questa è armata di una punta metallica a uso della nostra lancia; la freccia la scagliano con l’arco, la lancia pure la proiettano, e così in guerra molte volte. L’arco lo chiamano letzég, la freccia lutéc, la lancia hen. Finalmente usano l’amo che essi chiamano timéc. Ma l’amo è importazione straniera, benchè il nome sia mattacco.

La pesca è la base del loro alimento, perchè vi è pochissima caccia e le frutta silvestri durano pochi mesi dell’anno e a volte sono molto scarse; bestiame non ne tengono che pochissimo perchè se lo rubano e macellano scambievolmente quel poco che lor consentirebbe la vita nomade che menano, e seminati non ne fanno per questa stessa ragione, fuorchè qualche zuccaio, cocomeraio e qualche campo di granturco, cose che vengono presto; ma pochissimo anche di questi.

Presso cotesta tolderia, alla distanza di circa un chilometro passammo la notte; sulla sera convitammo i cacicchi, furono messi a rango, e il signor Natale li regalò e li arringò. Disse [p. 87 modifica]loro per mezzo dell’interprete che noi eravamo amici, che non molestassero dunque il vaporino rimasto, che anzi lo aiutassero quando si fosse avvicinato alla loro tolderia, che gli dessero pecore ed altre cose, che il capitano avrebbe dato tabacco, pezzuole e camicie; che presto avrebbe mandato indietro Peppe, un suo uomo che presentò lì, a portare tabacco e vacche al vaporino, e che allora ne avrebbe macellato due per loro. E accompagnando con l’atto e la parola il detto del ladino ripeteva per fare impressione stendendo il braccio e alzando due dita: «Dos guassettas, .... y tambien giuqquás.... giuqquás.... guassettas.... dos!» cioè, carne e tabacco, detti un po’ alla cristiana, poichè alla mattacca si direbbe chiu-uassetác e júc-quis.

In quel mentre sento uno che brontola: domando al ladino che dice: «Dice che son tutte belle promesse, ma che poi non gliele hanno a mantenere.» Davvero che non sono stolti questi figli delle selve!

Un compagno regalò di assai gingilli una bella giovanetta, che aveva il musetto, le braccia e parte del petto dipinti di turchino, e disse al babbo che gliela serbasse per noccéqua o nocehiéqua, (noccéqua vuol dire mia sposa) pel suo ritorno tra qualche mese.

A buio fummo in quattro alla tolderia, e visitammo Peilo, al quale furon fatti altri regali unitamente che alla sua moglie e alla figlia. Volemmo poi passare a visitare la noccéqua, ma questa e la famiglia si erano bravamente nascosti! Temevano il compimento del voto e pensarono, come s’usa tra noi, che ormai avuta la grazia potevano gabbare il santo.

Passammo la notte nei nostri letti, gli arnesi della sella con coperte da campo, sotto la protezione dell’ampia chioma di un annoso algarrobo.

Era bello intanto sulle prime ore della notte, vedere in distanza tutte quelle luci dei toldi, e udire quel rumorìo confuso delle voci delle cine e dei ragazzi che andavano via via [p. 88 modifica]estinguendosi, finchè fu quiete profonda e solenne, stranamente turbata dall’all’erta! gridata ogni cinque minuti dalle nostre guardie. Ed era bello allo spirito il contrasto di questo pugno di uomini armati della forza della civiltà, che stavano accampati tra cotesta numerosa turba selvaggia, che pur volendolo e potendolo non si animava a schiacciarlo!

Il giorno dopo, fatte poche leghe, ci trovammo presso una antica missione, ora distrutta. Un Indiano che ci aveva per ciò accompagnati, ci guidò sul luogo.

Attraversammo un basso, una volta letto di fiume distante adesso 4 o 5 leghe, salimmo una ripa e ci mettemmo nel bosco a piedi. Le piante si erano riprodotte sulle già dimore degli uomini, e col loro maggior numero compensavano la minore grossezza. Trovammo mucchi di terra, alcuni ancora in forma di pareti formate di mattoni crudi. Vi scorgemmo qualche stipite di porta. I luogo ove abitava la colonia degl’Indiani convertiti sembra fosse tutto contornato di un piccolo bastione.

Interrogammo l’Indiano, il quale ci disse che suo padre aveva saputo dal nonno, che una volta li vissero uomini di lunga veste; che ne pareva capo uno grande e molto grosso. Questi uomini disse seminavano e avevano già molte vacche, quando dopo pochi anni i Toba un bel giorno assaltarono il posto e distrussero tutto; raccontò ancora che lo stesso era accaduto a un’altra colonia d’Indiani convertiti là presso la Cruz-Chica. Disse anche che erano buoni cotesti uomini, che tenevano con sè molti Indiani, e che li regalavano di carne e di altro.

Già prima di marciare per terra, ci era stata portata a bordo una campana (tó-tá-téc in mattacco) di bronzo, alta un 40 centimetri e larga in basso un 25, o 30. Non se ne potè distinguere il millesimo. Era stata esposta al fuoco e ne era stato tolto un pezzo in quadro. Non aveva più nè battaglio nè orecchie. Ora deve trovarsi nel museo di Buenos Ayres.

Sic transit gloria mundi!

[p. 89 modifica]

Riprendemmo il cammino, guidati dal sole e dalla bussola, per sentieri praticati dagl’Indiani. Ed ora attraversavamo spaziose praterie, ora ci introducevamo in fitte boscaglie spinose, che ci laceravano i panni e le carni e ci obbligavano a un continuo esercizio di ginnastica equestre, per la strettezza, la bassezza, la sinuosità e l’ingombro, per tronchi e rami, di cotesti viottoli, frequentati solamente da uomini a piedi. Ora ci s’ingolfava in un pantano; tal volta ci cacciavamo nel folto di un’albereta di bobos e di salci, lunghi, fitti fitti, aprendoci a testa china, le gambe strette al cavallo, un passo non difficile, ma molesto, per raggiungere la sponda del fiume o di un madrechone, di cui coteste piante sono l’immediato prenunzio.

Nostra meta era sempre una massa d’acqua, per pescarvi il vitto e per bere noi e le bestie. A volte passavamo la giornata intera per trovarne, e se giungevamo tardi ci falliva il successo della pesca.

I meglio montati ci avvantaggiavamo per approfittarne, a beneficio comune, perchè le pochissime provviste si esaurirono dopo due o tre giorni.

Sorpresi dalla notte prima di arrivare all’acqua, era una cosa seria! una volta essendo molto buio ci smarrimmo, ed eravamo divisi! Accendemmo dei fuochi, perchè i compagni sapessero almeno dove seguirci; a notte avanzata giungemmo a un madrechone. La ineffabile stanchezza ci fece precipitare a terra non curanti di cibo.

Incontravamo spesso varie città di formicolai; dove si presentasse campo opportuno si vedevano centinaia e migliaia di cotesti pani di zucchero, alti in generale assai più d’un metro, del diametro alla base di circa un par di metri, distanti tra loro la grossezza di uno di essi quando molto. Di giorno non si vedeva nessuna formica fuori, ma un andirivieni di strade battute, d’un mezzo palmo di larghezza. Nei boschi invece si vedevano formicolai a tronco di cono, bassi un, di metro, del diametro di 4 e 6 metri, con spalti, este[p. 90 modifica]riormente a ciascun ingresso, come una fortificazione. E sugli alberi si scorgevano spesso nelle biforcazioni del tronco altri formicolai voluminosi come sacchi. Son davvero un flagello alle culture le formiche in questi campi. La presenza di miriadi di milioni di esse ben ne spiega la esistenza dell’orso mangia-formiche.

Venne il giorno 20 settembre. Quali idee e quanti sentimenti non risveglia in un Italiano! Io mi trovavo là in cotesto deserto e la mente e il cuore ai trasportavano in Italia e a Buenos Ayres, presso i miei concittadini. Dapprima pensavo al contrasto della vita lieta celebrata in cotesto giorno nelle piazze e nei focolari dai miei compatriotti e quella selvaggia e grama passata li da me. Poi mi sprofondavo nelle considerazioni politiche e sociali e religiose che si collegano al fatto compiuto in cotesta data.

E la mano, secondando il desiderio, correva alla matita per tracciare le impressioni e le riflessioni mie e tranıandarle come la voce di un clamante dal deserto, ma.... cotesto giorno era sedia e desco il suolo, era colazione un poco di pesce arrostito con sale e acchiappato dopo due ore di pesca, era desinare e cena una sola tazza di tè senza zucchero, era distrazione una giornata di marcia strapazzosa a cavallo sotto un sole, che dava 40 gradi centigradi all’ombra, benchè fossimo ancora nell’inverno!

Per carità, quando viaggiate confidate solo in quello che portate nelle vostre bisaccie. Lasciatela agli augelli dell’aere e ai quadrupedi del campo la fiducia nelle risorse provvidenziali della natura.

Dopo ottantacinque leghe e dieci giorni di marcia fatta in questa maniera, arrivammo alla frontiera cristiana e facemmo il nostro ingresso trionfale nel Fuerte Gorriti.