Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/III
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III
PRIME IMPRESSIONI - PAESAGGIO - I PRIMI INDIANI
iamo rimasti all’imboccatura del Vermiglio.
L’animo si sente preoccupato a sapersi in mezzo dei selvaggi, su territorio sconosciuto e vergine dell’azione artificiosa dell’uomo, e all’idea di avere così a percorrere centinaia di leghe, ignorando ciò che lo aspetti a ogni passo; e l’occhio indaga ansioso ad ogni svolta, a ogni momento, se gli si presenti qualche rivelazione della vita nuova e fantastica.
Ed ora è un canneto di canne tacuray alte 8 e 10 metri con 10 e 15 centimetri di diametro; ora è un palmeto con le piante di 15 e 20 metri di lunghezza, dal pennacchio di foglie a ventaglio, dallo stelo lungo, dritto, pulito, con le cicatrici delle foglie cadute disposte in circoli, testimonio col loro numero della età della pianta, dai grappoli di cocchi ingrati al palato dell’uomo; rado, nemico di ogni altra vegetazione arborea e arbustina, monotono, sepolcrale. Ora invece è una palma solitaria, che tra mezzo il cupo fogliame di spesso bosco ostenta la maestosa chioma verde-chiara delle sue grandi foglie ricurve. Ora è una folta selva di svariate essenze, che corona l’orlo dell’alta ripa tagliata a picco con a volte ai piedi in breve margine una stretta fila di scontorti ceibos con i ciuffi dei penzolanti fiori dalle corolle incarnate ed eleganti; talamo procace di amori silenziosi. Di contro vedesi una sponda erbosa, che par tracciata dal compasso dell’artista, sormontata da verde prateria, recinta in lontananza dalle foreste, che ben paiono monti1 a giustificazione del nome castigliano. Intanto dalla tana scavata nell’alto della nuda ripa schizza nella corrente sottostante il lupo d’acqua, dal manto scuro-verde picchettato di giallo, le gambe brevi coi piedi muniti di membrane natatorie e la coda terminata a remo, il quale alza sovente e rituffa la intelligente testa non ignaro del pericolo; a cui sfuggire pur si affretta, sommergendosi, il pigro carpincho, sorpreso in agguato sullo spaldo praticato a fior di acqua. L’occhio inesperto lo scambierebbe con un suino con bianche setole fitte, cornee, pungenti; un guardiano attento lo può ridurre a mansueta servitù; durissimo è il suo cuoio, e le sue carni, come quelle del suo vicino menzionato, offrono grato alimento al navigante sazio di cibi secchi e salati. Altra volta è una lunga albereta di salci, che adombra la riva per chilometri, o una fittissima distesa di bobos, arbusto ricco di potassa, che ricuopre frettoloso il suolo or ora lasciato scoperto dalle acque, rimaste vicine. Improvvisamente, a una svolta, è un tigre, che, per mole e per bellezza e per valore non invido dei suoi fratelli d’Africa, all’insolita apparizione guata, e lento rifà i suoi passi, o animoso si lancia al fiume sfidando i colpi dei nemici resi inabili dalla fretta. In altro punto è il mostruoso yacaré, che, soleggiandosi sul greto, non cura il piombo delle carabine da guerra, inefficace sulla sua squamosa armatura, se occhio sicuro non lo insinua nelle orbite prominenti, finchè noiato si striscia a seppellirsi nell’onda. In una piaggia amena la gamma, sorpresa alla nuova vista, celere s’invola nel campo, mentre il cervo ammirando nel cristallo dell’onda le molte rame delle sue corna, fornisce, vittima del pericolo sprezzato, banchetto lauto ai naviganti; ai quali giunge pur boccone gradito e sano la lontra di manto prezioso, dai quattro denti anteriori smaltati di corallo ed atti per la loro lunghezza di un pollice ad assicurare la preda, di passo impacciato sull’arena, dove in numerosa compagnia pratica le sue cove sotterranee; è vispa e svelta nell’acqua, dove con ripetute capriole dimostra il suo contento.
Presso un palmeto, che dà cibo abbondante, si fa distinguere in lontananza il tapiro, pesante e tardo pachiderma, non molto dissimile dal cavallo, a cui gli Indiani nel loro idioma lo paragonano, come già i Greci l’ippopotamo, che spia la visita inaspettata alzando all’aria il grifo, che forma una breve proboscide, e chiama con un sibilo la compagna inseparabile, con cui poc’anzi s’immerse nel fiume a fare il bagno consueto e necessario più volte al giorno a smorzare il calore che è loro proprio per natura. Ben lungi dall’imitarlo sono il cignale e il porco salvatico, che pur parrebbero suoi simili, inganno dei sensi, i quali in frotte numerose attraversano il più folto delle selve con corsa sfrenata, presentandosi terribili al viaggiatore e all’indigena, che s’incontrino nel bel mezzo del loro passo.
E se siamo nella vaga stagione dei fiori, allieta l’animo e inebria i sensi la vista e la fragranza dei mille fiori aranciati del gaggìo, che, prima ancora delle foglie, ne ricoprono la chioma, e le spighe gialle dell’arome, e il manto di bianchi gelsomini, che riveste il palo-santo e il guayacan, e gli amenti dell’algarrobo, e i fiori svariati delle mille specie di cactus, quale di forma e di colore che vincono la camelia candida e la carminia, quale di un giallo canario, quale in forma di curvo calice, che involge e sorregge molteplice corolla protettrice di popoloso gineceo, in cui si fecondano i grani che poi riempiono il succulento fico.
E non manca l’ananasso silvestre, il chaguar, che copre sovente vasto suolo protetto da piante annose; dal centro del ceppo di tante foglie verdi, che si slanciano tutte all’intorno ricurvandosi e strisciandosi, lunghe lunghe, strette, grosse, dentate, con la punta e i denti forniti di spine, si alza uno stelo corto e tozzo, sormontato da una pina bianca, sorretta da più ordini di spade orizzontali rosse ceree, e che cadono compiuta la fecondazione. Il frutto è cibo grato agli indigeni e la foglia fornisce l’unica, ma ricca materia tessile, che essi impiegano per funicelle, di cui compongono reti, borse, amacche o letti pensili e perfino camicie.
Quello però che soprattutto vi occupa è il desiderio di veder gl’Indiani. Dapprima tenzonate tra la curiosità di scorgere in lontananza dei punti neri che il mozzo di guardia ve li denunzii per Indiani e la pauretta di trovarvi, quando meno ve l’aspettate, imbroccati da una serqua di frecce scagliate dalla prossima selva, e meno male se fossero sole frecce! Poi vi succede la delusione dell’aspettativa e la confidenza,.... quando a un tratto un grido «gli Indiani» vi fa trabalzare il cuore di cento sensazioni.
I primi che vedemmo erano in parte vestiti, e avevano alcuni il cappello, che prosaicamente se lo levarono al nostro appressarci. Ci seguitarono un pezzo chiedendo tabacco e oggetti, sparendo e ricomparendo improvvisamente al capo delle scorciatoie all’altro lato delle giravolte del fiume; offrivano cuoi e piume, e quando ci fermammo in un luogo sicuro, si avventarono sul bastimento che pareva ci volessero ingoiare; ma eran pochi. Tra loro vi era una donna giovane e bellina.... sì bellina... che portava un cuoio di cervo a vendere; aveva la faccia disegnata, con qualche eleganza, di turchino; e vi era un Indiano con i capelli ripresi di dietro a coda di cavallo e con un’espressione d’occhi e di faccia proprio selvaggia, nudo e d’azione energica e cupida. Mentre andavamo gettammo tabacco, e quelli giù a ruzzoloni per la ripa, a nuoto per l’acqua a raccoglierlo. Erano Indiani bastardi.
Due giorni dopo trovammo altri gruppi di Indiani, che stavano pescando con una specie di nasse, che consistono in una steccata lunga due o tre metri, che dalla ripa s’inoltra nel fiume; contro di essa sono collocati dei rami artificiosamente così, che il pesce che v’intoppa vi resta preso senza poterne uscire; i posti sono scelti a proposito. La presenza di queste chiuse ci avvisava di quella degli Indiani o della loro prossimità, con molto vantaggio della nostra sicurezza personale.
Essi pure ci seguitarono, ma noi non ci fermammo perchè già principiavamo a diffidare. Qualcuno di loro articolava qualche parola spagnuola e guarany, e interrogati nei due idiomi suddetti dove erano i loro compagni, ci gridavano: «Peleànno, peleànno.... mucho.... allà;» e c’indicavano per in su.
Questi Indiani qua, oltre ad essere mancanti di alcune lettere non sanno nemmeno pronunziare certe combinazioni come una n con una d insieme, e siccome usano quasi sempre il gerundio dei verbi, perciò dicevano peleànno per peleando (combattendo). Sorse questione fra noi che cosa volessero veramente dire, se cioè vi fossero più in su molti per batter noi, o invece per battersi tra loro, ma rimanemmo tutti d’accordo che gente riunita, armata e molta doveva esserci, e che dovevamo aspettarci facilmente un qualche brutto scherzo, perchè lì e per altre più di 100 leghe stavamo in mezzo dei Toba, nemici dichiarati dei Cristiani, indomiti, numerosi, coraggiosi e, peggio di tutto, ben armati. Badiamo, quando si dice Cristiani, s’intende i conquistatori, perchè gl’Indiani non si preoccupano nè di Cristo, nè di Maometto, ma di chi li va a scacciare dalle loro terre; nè essi hanno adottato un tal nome per distinguer noi dagli altri loro nemici, ma sibbene noi lo usiamo per distinguerci con un nome più generale e che sa ancora di uno spirito che, bene o male, non è più di questi tempi. Abbiamo spesso parlato dei Toba, ma di dove viene questa parola? L’ho domandato ai Mattacchi, ai Ciulupi, ai Ciriguani, ai Mocoviti, ai Toba stessi e nessuno di loro li chiama Toba; come dunque è loro venuto tal nome? mi domandavo spesso io.
Finalmente credo di poter dire che lo so e d’essere io il primo a saperlo dire. Tobai in guarany vuol dire in fronte, ed è composto di Toba nome ed i posposizione (in guarany non vi sono preposizioni). I Guarany vivono e vissero sulla sinistra del Rio Paraguay e del Rio Paranà, e i Toba sulla destra, cioè in fronte di quelli, i quali li avranno designati con il nome di Toba o frontisti agli Spagnuoli, che conquistarono i Guarany, rimanendo tale specificazione geografica per nome proprio. Mi pare che calzi.
Note
- ↑ Nella Repubblica si chiamano montes i boschi. D’onde montonera, banda che vive o si occulta tra i boschi.