Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/II
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II
HUMAITÀ - IL VERMIGLIO - I GUAICURÙ
ontinuiamo i nostri passi.
Non siamo ancora al Vermiglio, ma su pel fiume Paraguay alla destra del quale una striscia rossiccia ne fa la vicinanza a venti leghe di distanza. Ci avanziamo e passiamo dinanzi a Curupaity, la barranca storica per la resistenza formidabile nell’ultima guerra, e tocchiamo Humaità, villaggio; città per la poverissima Repubblica del Paraguay, con la chiesa, un tempo solido edifizio, ora in brani per le bombe degli alleati.
Qui vi sorprende una turba di donne dal bianco tipoy, scialletto, le quali vi incalzano offrendovi sigari e chipa (chifelli di mandioca ottimi) e vi apostrofano col tu. Non vi nego che è gradevole sentirsi dar del tu da coteste donne, specialmente se sono sgherroccie. È una costruzione che hanno trapiantato nel castigliano dal guarany, che è il loro idioma nativo. Questa costruzione ha un sapore classico e poetico, che arieggia a popolo sovrano e ad amore, riportando la mente ai tempi arcadici e ai repubblicani dei Greci e dei Romani; tra i quali, per chi non lo sapesse dei nostri lettori, si usava il tu tra tutte le classi, come lo usano ancora gli Arabi e i Turchi e altra gente sulla scala della civiltà, e gli Indiani in tutto il mondo. E a proposito del guarany, anticipandomi su quanto ho intenzione di dirvene in altra occasione, con altri idiomi indiani, a sentirlo pronunziare sul principio pare una musica, tanto è cadenzato, e pare quasi una scanditura di versi latini, ma poi vi riesce monotono e perciò vi stanca. E non solamente lo pronunziano così nel Paraguay, ma ancora nelle Missioni argentine, come l’ho udito anche io là, e tal cadenza o ritmo è interamente proprio alla lingua, che per raggiungerla soffre una infinità di variazioni, che ce la rendono difficilissima ad apprendere.
Se vi tratteneste la notte in Humaità, rimarreste attratti da un chiaror di luci, che abbarbaglia in mezzo della profonda oscurità universale, e da uno strimpellar di suoni, che contrasta coll’abbaiar dei tanti cani che sbucano minacciosi da tutte le parti al vostro appressarvi. Il chiarore e lo strimpellio scaturiscono da un capannone che porta in lettere cubitali l’iscrizione permanente: Baile, almacen, restaurant de la marina, sala de billar y cafè; e invitano il pubblico nazionale e straniero a profittare tutte le notti del programma dalla lunga diceria.
E li trovate: di fuori donne del Paraguay imbacuccate nel loro tipoy, armata la bocca dell’indispensabile sigaraccio sfogliato, accoccolate intorno alle ceste rischiarate da un lanternino a mano, vendendo caña, tabacco, chipas, aranci, dolci di mani con miele, sigari e che so io. Nel di dentro trovate una filza di señoras e di caballeros di tutte le gradazioni di colore e di costumi; dal bianco scandinavo all’indigeno color di rame e al negro africano; dal soprabito nero al poncho; dal criotto alla camiciola del marinaro; dalle gambe con stivaloni, ai piedi scalzi. In questo luogo assistete alla quadriglia francese, al valzer con lo scoscio milanese, al gato e alla zamba nazionali, e vedete i ballerini, sempre col cappello in testa, ora stretti stretti correre la sala dimenandosi, sciancandosi, grondando sudore da tutte le parti; ora, tutti composti, agitarsi reciprocamente il fazzoletto sulla faccia, girare sui talloni, ballettare e sgambettare sulle punte dei piedi, simulando preghiera, rifiuto, sdegno e pace. Dopo li vedete saltare spropositatamente all’uso dei forti figli del nord; infine complimentosi e carezzevoli fare il changez main e il saluez la dame, che in benemerenza del servizio prestato è invitata a una copita di acqua bollente e a un puro, che formano gli incerti del generoso Anfitrione. Questi dà gratis lo stanzone allato del suo spaccio di bibite, dopo averlo pregevolmente imbiancato, e averne istoriato le pareti con un garibaldino con la spada sguainata e in atto d’inseguire; con un’arme di Savoia con due bandiere; con un uffiziale e un soldato italiani pure con bandiera; con un’amazzone variopinta su cavallo che caracolla; con una donna del Paraguay con la sua cesta, il suo tipoy e i suoi piedi scalzi, e infine con quadri pensili di scene del cancan.
Non vi venga voglia di far le meraviglie e molto meno paragoni con animo sfavorevole per questo stadio di divertimenti; perchè sono ora sei anni che là nella nostra Terra, in Valle Tiberina, presso San Sepolcro, al piè degli Appennini, si ballò proprio così, cambiata la zamba nel trescone, meno la varietà dei tipi di qua e più lo scotto di un soldo per ogni ballo, col suo bravo bicchierino di zozza pagato per rinfresco alla donna. E là come qua tutti si divertivano, e tutti facevano il rispettivo tornaconto, alla barba di chi vorrebbe in ogni cantuccio della terra una Parigi o una Buenos Ayres.
Ma siamo all’imboccatura del Vermiglio, pieghiamo a ponente, ed eccoci sul territorio indiano.
Il Vermiglio è un fiume che ha in piano un corso di circa 2000 chilometri su una distanza geografica di circa 700; è perciò tortuisissimo; ai piedi delle montagne riceve gli affluenti che vengono da distanze di 500 a 1000 chilometri, e scendono da altezze di 4000 a 5000 metri le massime; nella parte piana attraversa il centro del Gran Ciacco obliquamente da sud-est a nord-ovest; corre profondamente incassato e le sue ripe sono alte fino 15 metri sul pelo delle magre nella porzione inferiore, e 10 a 8 nella centrale e nella superiore, sempre però quando il fiume non corra attraverso i proprii sedimenti, come è in gran parte nella porzione centrale. È ricco di acque, è formidabile nelle piene, scarso nelle magre, in cui porta da 50 a 60 metri cubi d’acqua il secondo; è navigabile una parte dell’anno, e lo sarebbe tutto l’anno con vapori a proposito, facendo nel fiume alcuni lavori, che impediscano la suddivisione delle acque.
Il terreno di emersione è rivestito di boschi di legnami duri, che coronano le sponde, folti, grossi ed alti nel tronco inferiore, e si distinguono in lontananza; nel tronco centrale, nella cui zona che è la maggiore, sono radi e rachitici.
Vicino alle montagne i boschi acquistano tutto lo splendore di una zona quasi tropicale.
Per un 500 chilometri lungo il fiume, risalendolo dal Paraguay, abitano il territorio gl’indiani Toba e Guaicurù con poche tribù di Ciulupi e Villella; dopo seguono per quasi mille chilometri gli indiani Mattacchi fino alla frontiera, oltre la quale anche si spingono con piccole tolderie appoggiate a qualche estancias,1 fattoria che cura soprattutto l’allevamento del bestiame; più al nord fra la Bolivia, i Mattacchi e i Toba, vi sono i Ciriguani ed i Cirionossi; ed al sud, tra S. Fè e Santiago, i Mocoviti.
A proposito dei Guaicurù, voi saprete la storia che ne fa, mi pare, Azara, ripetuta da Arenales e bandita fin dalle cattedre; cioè che essi si sono andati estinguendo per l’uso di ammazzare le loro creature, lasciando l’ultima solamente, sicchè or fanno alcuni anni non ne sarebbe esistito che un solo maschio, rappresentante e campione ultimo della loro stirpe, descritta come bellissima di forme. Ma in verità questa storia è per me da ritenersi per una storiella o per un equivoco. Infatti gli Indiani amano le loro famiglie e soprattutto le creature, che risparmiano anche prigioniere, senza perciò condannarle a schiavitù, mentre ammazzano in guerra gli adulti e fin le donne che prendono.
E poi perchè estinguersi così? Per sottrarsi a perdere la loro indipendenza? Ma allora era più semplice ammazzar tutti i figliuoli, e non ridursi a una impotenza sempre maggiore e condannare i pochi discendenti a un servaggio sempre più triste quanto essi più deboli per il numero sempre minore. Ma poi notate, che tra questi Indiani qua non si usa la schiavitù, nè niente che le si assomigli; sono liberi come l’aria, e i Guaicurù anche soverchiati potevano allearsi o andare a vivere tra i nuovi amici, come hanno fatto qua i Ciulupi, che si sono ritirati dalla frontiera e si sono cacciati all’estremo opposto tra i Toba.
Ma deve essere un equivoco, quella data storia, perchè i Guaicurù sono i Toba. I Toba sono bellissima gente; alti, complessi, svelti, valorosi. Li ho visti e li ho esperimentati io.
Una volta, dopo due mesi di navigazione stentata, giungemmo dove stava riunita una numerosa indiada2.
Un ladino (interprete), disertore dell’esercito, per nome Faustino, ci venne incontro accolto con immenso cuore da noi. Ei ci disse che quegli Indiani erano di diverse nazioni lì riunite per celebrare la pace, essendosi battute pochi giorni avanti nello stesso punto. Domandato di che nazioni erano, rispose che una parte erano Toba o Guaicurù e Ciulupi, l’altra Mattacchi, tra i quali egli viveva.
In cotesta occasione vidi un donnone enorme Toba. Facemmo porre in linea gli amici di Faustino per regalarli di tabacco, tra costoro si collocò anche la donna. Essa era coperta di un manto di pelle di lontra, ed era tutta tatuata a ricamo con color turchiniccio; l’effetto del tatuaggio così fitto appare alla vista come la tarmatura del vaiuolo. Doveva essere alta da m. 1,70 a 1,80. Stava muta e immobile, ma pure non sdegnava atteggiarsi a quasi sorridente quando riceveva un’attenzione; agguantava poi con una furia ingorda, da non si ridire, gli oggetti che le demmo.
Gli Indiani non amici di Faustino rimasero all’altro lato del Rio senza volere appressarsi.
Tornando a bomba, i Guaicurù dunque devono essere stati una parzialità,3 come si dice qua, della stessa famiglia dei Toba, coi quali avranno avuto comune il linguaggio, e forse più immediati al Paraguay dettero il nome alle indiade. Per essersi poi o mescolati o trasferiti saranno stati creduti estinti, e per ispiegarne la causa si sarà forse presa per regola generale il caso eccezionale di ammazzare alcune creature, che nascono senza che le riconosca un padre, come accade anche tra i Mattacchi, quando la madre non ha, nè un parente, nè un amico, nè la stessa tribù che voglia farsene carico.
Nel modo stesso i Ciulupi e i Villella, che parlano lo stesso idioma, ora non si distinguono più; e al contrario i Mattacchi a contatto coi Toba, che ne sono il terrore, sono nemici dei Mattacchi presso la frontiera cristiana, nè vogliono esser chiamati Mattacchi, benchè ne parlino lo stesso linguaggio con piccolissime variazioni di dialetto nella pronunzia.
Non vi spiacciano queste poche parole per tentare di rettificare un fatto, che, per la sua stranezza, è facilmente accolto e ripetuto; e continuiamo le nostre chiacchiere.