Se la tortura sia un tormento atroce

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VII IX



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§. VIII.

Se la Tortura sia un tormento atroce.

Non può mettersi in dubbio, che nell’epoca delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente atrocissima. Ma si potrebbe anche dire che i tempi sono mutati, e che fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de’ mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno d’oggi la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel 1630, e, appoggiato su questi, parmi facile cosa il conoscere che veramente la tortura è un infernale supplizio.

Col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti. Quaestio est veritatis [p. 38 modifica]indagatio per tormentum, seu per torturam; et potest tortura appellari quaestio quaerendo, quod judex per tormenta inquirit veritatem1.

I fautori della tortura cercano calmare il ribrezzo, che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il male, dicono essi, che ne soffre il torturato: si tratta di un dolore passaggiero, per cui non accade mai l’opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento col quale si cerca di soffocare il raccapriccio che alla umanità sveglia la idea della tortura. Pure dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a caratteri di sangue l’orrore di questi tormenti: le leggi, le pratiche sotto le quali viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse crudeltà, se non che ritornassero de’ giudici simili a quelli d’allora. Si adopera attualmente per tortura la lussazione dell’osso dell’omero; si adopera talvolta il fuoco a’ piedi, crudeli operazioni per sè stesse, ma nessuna legge limita la crudeltà a questi due modi: i dottori, che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per regola e norma de’ giudizj criminali, non prescrivono certamente molta moderazione. Il Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. de Tortura, num. 2, dice: «Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la tortura debb’essere più grave, che se si tagliassero ambe le mani; e soffrir la tortura, egli è patire le estreme angosce dello spasimo... E basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per conoscerlo: niente è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò spesse volte si dà la tortura col fuoco, e quel che dice l’uomo tormentato col fuoco si reputa la verità istessa.» Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis dicitur quaestio: hinc est quod gravior est tortura, quam utriusque manus abscissio; et pati torturam est supremas angustias sustinere, ut vidimus et audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulus de quaestionibus: sic etiam loquuntur doctores, quod maxime patet dum congerunt instrumenta et modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo crudelissimum, et ideo etiam igne saepe rei torquentur: igne defatigati, quae dicunt ipsa videtur esse veritas. Dopo ciò non saprei mai come possa dirsi che la tortura per sé sia un male da poco. Non nego che un giudice umano potrà temperare la ferocia di questa pratica; ma la legge non è certamente mite, nè i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il Zigler2 descrive questa inumanissima pratica: «Oltre lo stiramento, con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo; ovvero alle estremità delle dita si conficcano sotto l’unghie de’ pezzetti di legno resinoso, indi si appiccica [p. 39 modifica]il fuoco a que’ pezzetti; ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui si gettano carboni ardenti, e coll’infuocarsi del metallo acerbamente e con incredibili dolori si cruciano.» Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco le parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem inquisiti cadentibus luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt; vel partes digitorum extimas immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque postmodum accensis per adustionem inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel asino ex metallis formato, ut incalescenti paullatim per ignes injectos, tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes urgeant, delinquentes imponunt. Farinaccio istesso3, parlando de’ suoi tempi asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti: eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species. Tale è la natura dell’uomo che, superato il ribrezzo de’ mali altrui, e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce e giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di che ne serve d’esempio anche il furore de’ Romani per i gladiatori. Veggasi lo stesso Farinaccio4, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed astenersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un pretore, che prendeva il carcerato pe’ capelli e gli orecchi, e fortemente lo faceva cozzare contro di una colonna, dicendogli: Ribaldo, confessa; cosi egli: abstineat etiam judex se ab eo quod aliqui judices facere solent, videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert Paris de Puteo se vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per aures, dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas veritatem, ribalde. Il celebre Bartolo5 di sè stesso ci significa come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi illum et statim fere mortuus est: e con tale indifferenza racconta il fatto atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e sull’esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de’ maestri della tortura, ch’ella è crudele e crudelissima e che se al giorno d’oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per sè medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori legalmente [p. 40 modifica]autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita.

Nè gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel tormento più d’un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla. Il citato Bossi6 asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene. Il Tabor7 dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la tortura, purchè non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam mulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat, quam declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura a un testimonio, basta che egli sia di estrazione vile perchè sia autorizzato il tormento: Vilitas personae est justa causa torquendi testem8, e il Claro9 asserisce che basta vi sieno alcuni indizj contro un uomo, e si può metterlo alla tortura: e, in materia di tortura e di indizj, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all’arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc, ut torqueri possit... In hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire debes, quod in materia judiciorum et torturae propter varietatem negotiorum et personarum, non potest dari certa doctrina, sed remittitur arbitrio judicis. La sola fama basta perchè, se il giudice lo vuole, sia un uomo posto alla tortura10. Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro Milanese, che è il sommo maestro di questa pratica. «Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla, accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà a fine d’indurla ad accusarsi del delitto, e con tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi di un omicidio, e la condusse a perdere la testa.» Acciocchè non si sospetti che quest’orrore contro la religione, la virtú e tutti i più sacri principj dell’uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro11: Paris dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, [p. 41 modifica]et eidem dicere quod vult eam habere in suam, et fingere velle illam deosculari et ei pollicere liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad consfitendum homicidium, quae postea decapitata fuit.

Non credo di essere acceso da molto entusiasmo se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere orribile la facilità colla quale può farsi soffrire ad arbitrio di un solo giudice nella solitudine del carcere, ed essere veramente degna della ferocia de’ tempi delle passate tenebre la insidiosa morale, alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de’ più classici autori. Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di tutta l’attenzione, e non regge quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l’importanza.

  1. Ab. Parnomit. in cap- cum in cotemplat., X, de R. J.
  2. Tema 47, de Torturis, 5 12
  3. Theor. et Prax. Criminal, tom. II, Quaest. 38, num. 56.
  4. Loc. cit., num. 59.
  5. Comment. ad ff. nov., lib. XLVIII, leg 7.
  6. Tit. de confessis per torturam, num. 11.
  7. De tortur. et indiciis delictor., § 30.
  8. Vid. Bald. Butrio, Farinac., Quaest. 79, n.33.
  9. Sententiar. lib. V, § fin. Quaest 64, n.12.
  10. Gaud. de malef. in tit. de quaest., num. 39, Aug. ad Angel. de malef. in verbo: fama publica, num. 41, Caravita de ritu magnae Curiae, num. 8, et Brun., de indiciis, fol. 41, num. 32.
  11. Pag. 760. num. 80.