Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità

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§. IX.

Se la Tortura sia un mezzo per conoscere la verità.

Se la inquisizione della verità fra i tormenti è per sè medesima feroce, se ella naturalmente funesta la immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio, e contrapponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questo debb’essere il sentimento di ciascuno, che nel distribuire i sensi di umanità, non faccia l’ingiusto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti, e niente per il maggior numero de’ cittadini innocenti. — Questa è la seconda ragione, alla quale si cerca di appoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d’oggi l’usanza come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla salvezza dello stato.

Ma i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità, il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti proposizioni: I. Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità; II. Che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità; III. Che quand’anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.

Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la [p. 42 modifica]verità comincerò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade, che de’ rei robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo, piuttosto che accusare sè medesimi. In questi casi, che non sono nè rari nè immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori che ho di sopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più d’un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiararono rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono sè stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo stesso Claro1, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si confessarono rei dell’omicidio d’un nobile, e furono condannati a morte, sebbene poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso, che attestò non essere mai stato insultato da’ condannati2. Veggasi il Muratori ne’ suoi Annali d'Italia3, ove, parlando della morte del Delfino, così dice: «Ne fu imputato il conte Sebastiano Montecuccoli, suo coppiere, onorato gentiluomo di Modena, a cui di complessione dilicatissima... colla forza d’incredibili tormenti fu estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe ad istigazione di Antonio de Leva e dell’Imperatore stesso, perlochè venne poi condannato l’innocente cavaliere ad una orribil morte.» Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.

Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Quale è il sentimento che nasce nell’uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più sarà violento il desiderio e l’impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo? Coll’asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto egualmente come il reo ad accusare sè stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l’uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia [p. 43 modifica]egli, ovvero non lo abbia, commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione.

Sulla faccia di un uomo abbandonato allo stato suo naturale delle sensazioni si può facilmente conoscere la serenità della innocenza, ovvero il turbamento del rimorso. La placida sicurezza, la voce tranquilla, la facilità di sciogliere le obbiezioni nell’esame possono far ravvisare talvolta l’uomo innocente; e così il cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza, l’inviluppo delle risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un reo e un innocente fra gli spasimi, fra le estreme convulsioni della tortura; queste dilicate differenze si eclissano; la smania, la disperazione, l’orrore si dipingono egualmente su di ambi i volti, gemono egualmente, e in vece di distinguere la verità, se ne confondono crudelmente tutte le apparenze.

Un assassino di strada, avvezzo a una vita dura e selvaggia, robusto di corpo, e incallito agli orrori, resta sospeso alla tortura, e con animo deciso sempre rivolge in mente l’estremo supplizio che si procura cedendo al dolore attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita, e che cedendo all’impazienza va ad un patibolo: dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino avvezzo a una vita più molle, che non si è addomesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibile tutta si scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente: questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore: questo è quello che gli suggerisce l’angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo che l’innocente: onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla.

  1. Lib. V, § fin. Quaest. 64, num. 46.
  2. Vid. Gotofred. Bav., de Reat.
  3. Tom. X, pag. 273.