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Per uscire da questa nova Babilonia, ci voleva uno sforzo supremo, una specie di miracolo. Ci voleva un uomo, il quale, servendosi di uno degl’idiomi centrali della penisola, e perciò meglio accetto agli altri Italiani, fondesse insieme, con mirabile armonia, in una grand’opera d’arte, tutti gli svariati elementi, che cozzavano, confusi, tra loro: la gentilezza cavalleresca de’ Francesi e de’ cortigiani di Sicilia; i sospiri d’amore e le invettive anticlericali de’ Provenzali; il misticismo di san Francesco e di Iacopone; la naturalezza e la verità del sentimento popolare; la speculazione teologica e scientifica.

Quest’uomo venne, nè c’è bisogno ch’io lo nomini; ed a ragione potè dire che, col suo poema, avrebbe cacciato di nido i suoi predecessori, togliendo loro “la gloria della lingua.„1 E con la solita fierezza, egli si sdegnava contro i “malvagi uomini d’Italia, che commendano lo Volgare altrui, e lo propio dispregiano;„ e profetizzava che il Volgare sarebbe stato “luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà ove l’usato,„ cioè il latino, “tramonterà.„2

Ma il latino, anzichè tramontare, non pago [p. 84 modifica] di averci, con Guittone, col Boccaccio e co’ loro seguaci, snaturato una parte non piccola del lessico e della sintassi, risorse, come la fenice della favola, dalle sue ceneri, e per tutto il Quattrocento tenne in iscacco la lingua gloriosa con cui Dante aveva potuto

Descriver fondo a tutto l’Universo.

Ciò che san Gregorio Magno, otto secoli innanzi, aveva temuto e voleva scongiurare, avvenne di fatto: l’Italia cólta e il Papato stesso ridiventaron pagani nella forma e nel pensiero, e il latinismo, risuscitato per opera nostra, invase una seconda volta anche la lingua e la letteratura francese.

Fu un bene? Fu un male?

C’è di certo chi sarebbe disposto a lapidarmi, se io osassi solamente dubitare che il Risorgimento, in tutte le sue cause e in tutti i suoi effetti, non fosse addirittura un gran bene. Io quindi sono lietissimo, che il mio assunto mi dispensi dall’entrare in così pericolosa questione.

Per il mio assunto, basta l’aver notato il fatto in quanto concerne la lingua; e basta che inviti il lettore a rifletterci sopra un momento.

Il linguaggio de’ barbari invasori d’Italia lascia appena, come abbiamo veduto, meschinissime tracce nella lingua de’ vinti, la quale anzi s’impone ai vincitori. Il latino invece, dopo aver sradicato cento idiomi, allora già in gran parte così diversi tra loro, che i popoli che li parlavano avevano perfino dimenticato la comune origine; [p. 85 modifica] dopo aver generato nuove lingue e nuove e fiorenti letterature; dopo che la sua gloriosa culla era stata messa e rimessa a soqquadro; dopo tanti secoli che più non si parlava e solo lo si scriveva scorretto e imbarbarito, torna durante il Risorgimento a risonare nelle opere del Petrarca, del Poliziano, del Pontano, del Fracastoro e di tanti altri, come già aveva risonato sulle labbra di Virgilio e di Orazio; corre di nuovo trionfalmente tutto il mondo civile, mettendo persino in forse l’esistenza letteraria della sua stessa primogenita.

Da questo fatto, meglio assai che dalle strepitose vittorie, si può avere un’idea del miracolo di forza, d’arte e di sapienza, che dovette essere il popolo che parlò una tal lingua.



Note

  1. Purgat., XI, 97-99.
  2. Convito, Tratt. I, cap. XI e XIII, ediz. Barbèra (1857), curata dal Fraticelli.