Operette morali/Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello/Per la novella Senofonte e Machiavello
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Per la novella Senofonte e Machiavello
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Dirà Machiavello. Moltissimi e prima e dopo di me, antichi, come sei tu, Senofonte, e moderni, come son io, hanno o dato precetti espressamente, così di governare, e di viver sul trono o nelle corti ec. come di viver nella società e di governar se stesso rispettivamente agli altri uomini; ovvero hanno trattato in mille maniere di questa materia, senza prender l’assunto di ridurle ad arte (come abbiam fatto tu ed io): e ciò ne’ loro libri di morale, di politica, d’eloquenza, di poesia, di romanzi ec. Da per tutto si discorre principalmente d’ammaestrar gli uomini a saper vivere, ché qui alla fine consiste l’utilità delle lettere, e della filosofia, e d’ogni sapere e disciplina.
Ma tutti costoro, o certo quasi tutti son caduti in uno di questi due errori. Il primo, e principale, e più comune si è d’aver voluto ammaestrare a vivere (sia sul trono o privatamente) e governar se stesso o gli altri, secondo i precetti di quella che si chiama morale. Domando io: è vero o non è vero che la virtù è il patrimonio dei coglioni: che il giovane per bennato, e beneducato che sia, pur ch’abbia un tantino d’ingegno, è obbligato poco dopo entrato nel mondo, (se vuol far qualche cosa, e vivere) a rinunziare quella virtù ch’avea pur sempre amata: che questo accade sempre e inevitabilissimamente: che anche gli uomini più da bene, sinceramente parlando, si vergognerebbero se non si credessero capaci d’altri pensieri e d’altra regola d’azioni se non di quella che s’erano proposti in gioventù, e ch’è pur quella sola che si impara ordinariamente dai libri? È vero o non è vero che per vivere, che per non essere la vittima di tutti, e calpesto e deriso e soverchiato sempre da tutti (anche col più grande ingegno e valore e coraggio e coltura, e capacità naturale o acquisita di superar gli altri), è assolutissimamente necessario d’esser birbo: che il giovane finché non ha imparato ad esserlo, si trova sempre malmenato; e non cava un ragno da un buco in eterno: che l’arte di regolarsi nella società o sul trono, quella che s’usa, quella che è necessario d’usare, quella senza cui non si può ne vivere ne avanzarsi né far nulla, e neanche difendersi dagli altri, quella che usano realmente i medesimi scrittori di morale, è né più né meno quella, ch’ho insegnata io? Perché dunque essendo questa (e non altra) l’arte del saper vivere, o del saper regnare (ch’è tutt’uno, poiché il fine dell’uomo in società è di regnare sugli altri in qualunque modo, e il più scaltro regna sempre), perché, dico io, se n’ha da insegnare, e tutti i libri n’insegnano un’altra, e questa direttamente contraria alla vera? e tale ch’ell’è appunto il modo certo di non sapere e non potere né vivere né regnare? e tale che nessuno de’ più infiammati nello scriverla, vorrebb’esser quello che l’adoperasse, e nemmeno esser creduto un di quelli che l’adoprino? (cioè un minchione). Torno a dire: qual è il fine dei libri, se non di ammaestrare a vivere? Ora perché s’avrà da dire al giovane, o all’uomo, o al principe, fate così, ed essere fisicamente certo che se farà così, sbaglierà, non saprà vivere, e non potrà né conseguirà mai nulla? Perché dovrà l’uomo leggere i libri per istruirsi e per imparare, e nel tempo stesso, conoscere ed esser disposto di dover fare tutto il contrario precisamente di quel ch’essi libri gli prescrivono?
Fatto sta che non per altro il mio libro è prevaluto nell’opinione degli uomini al tuo, a quello del Fénélon, e a tutti i libri politici, se non perch’io dico nudamente quelle cose che son vere, che si fanno, che si faranno sempre, e che vanno fatte, e gli altri dicono tutto l’opposto, benché sappiano e vedano anch’essi niente meno di me, che le cose stanno come le dico io. Sicché i libri loro sono come quelli de’ sofisti: tante esercitazioni scolastiche, inutili alla vita, e al fine che si propongono, cioè d’istruirla; perché composti di precetti o di sentenze scientemente e volutamente false, non praticate né potute praticare da chi le scrive, dannosissime a chi le praticasse, ma realmente non praticate neppure da chi le legge, s’egli non è un giovane inesperto, o un dappoco. Laddove il mio libro è e sarà sempre il Codice del vero ed unico e infallibile e universal modo di vivere, e perciò sempre celebratissimo, più per l’ardire, o piuttosto la coerenza da me usata nello scriverlo, che perché ci volesse molto a pensare e dir quello che tutti sanno, tutti vedono, e tutti fanno.
Quel che mi resta a desiderare pel ben degli uomini, e la vera utilità specialmente de’ giovani, si è che quello ch’io ho insegnato ai principi s’applichi alla vita privata, aggiungendo quello che bisognasse. E così s’avesse finalmente un Codice del saper vivere, una regola vera della condotta da tenersi in società, ben diversa da quella dettata ultimamente dal Knigge, e tanto celebrata dai tedeschi, nessuno de’ quali vive né visse mai a quel modo.
L’altro errore in cui cadono gli scrittori, si è che se anche talvolta hanno qualche precetto o sentimento vero, lo dicono col linguaggio dell’arte falsa, cioè della morale.
Che questo sia un puro linguaggio di convenzione, oramai sarebbe peggio che cieco chi non lo vedesse. P. e. virtù significa ipocrisia, ovvero dappocaggine; ragione, diritto e simili significano forza; bene, felicità ec. dei sudditi significa volontà, capriccio, vantaggio ec. del sovrano. Cose tanto antiche e note che fa vergogna e noia a ricordarle.
Ora io non so perché, volendo esser utile più che si possa, ed avendo il linguaggio chiaro ch’ho usato io, si voglia piuttosto adoperare quest’altro oscuro che confonde le idee, e spesso inganna, o se non altro, imbroglia la testa di chi legge. Il valore di questa nomenclatura a cui si riduce tutta quanta la morale effettiva, è già tanto conosciuto, che nessuna utilità ne viene dall’usarla. Perché non s’hanno da chiamare le cose coi loro nomi? Perché gl’insegnamenti veri ec. s’hanno da tradurre nella lingua del falso? le parole moderne nelle parole antiche? Perché l’arte della scelleraggine (cioè del saper vivere) s’ha da trattare e scrivere col vocabolario della morale? Perché tutte le arti e scienze hanno da avere i loro termini propri, e più precisi che sia possibile, fuorché la più importante di tutte, ch’è quella del vivere? e questa ha da prendere in prestito la sua nomenclatura dall’arte sua contraria, cioè dalla morale, cioè dall’arte di non vivere?
A me parve che fosse naturale il non vergognarsi e il non fare difficoltà veruna di dire, quello che niuno si vergogna di fare, anzi che niuno confessa di non saper fare, e tutti si dolgono se realmente non lo sanno fare o non lo fanno. E mi parve che fosse tempo di dir le cose del tempo co’ nomi loro: e d’esser chiaro nello scrivere come tutti oramai erano e molto più sono chiari nel fare: e com’era finalmente chiarissimo e perfettamente scoperto dagli uomini quel ch’è necessario di fare.
Sappi ch’io per natura, e da giovane più di molti altri, e poi anche sempre nell’ultimo fondo dell’anima mia, fui virtuoso, ed amai il bello, il grande, e l’onesto, prima sommamente, e poi, se non altro, grandemente. Né da giovane ricusai, anzi cercai l’occasione di mettere in pratica questi miei sentimenti, come ti mostrano le azioni da me fatte contro la tirannide, in pro della patria. v. i miei pensieri p. 2473. Ma come uomo d’ingegno, non tardai a far profitto dell’esperienza, ed avendo conosciuto la vera natura della società e de’ tempi miei (che saranno stati diversi dai vostri), non feci come quei stolti che pretendono colle opere e coi detti loro di rinnuovare il mondo, che fu sempre impossibile, ma quel ch’era possibile, rinnovai me stesso. E quanto maggiore era stato l’amor mio per la virtù, e quindi quanto maggiori le persecuzioni, i danni e le sventure ch’io ne dovetti soffrire, tanto più salda e fredda ed eterna fu la mia apostasia. E tanto più eroicamente mi risolvetti di far guerra agli uomini senza né tregua né quartiere (dove fossero vinti), quanto meglio per esperienza m’accorsi ch’essi non l’avrebbero dato a me, s’io fossi durato nell’istituto di prima. Poi volgendomi a scrivere e filosofare, non diedi precetti di morale, ch’era già irreparabilmente abolita e distrutta quanto al fatto, sapendo bene (come ho detto) che il mondo non si può rinnovare; ma da vero filosofo insegnai quella regola di governare e di vivere ch’era sottentrata alla morale per sempre, che s’usava realmente, e che realmente e unicamente poteva giovare e giovava a chi l’avesse imparata. E in questo solo mancai al mio proposito di nuocere e di tradire. Perocché facendo professione di scrittore (e quindi di maestro de’ lettori e della vita) non ingannai gli uomini considerati come miei discepoli, e promettendo loro di ammaestrarli, non li feci più rozzi e stolti di prima, non insegnai loro cose che poi dovessero disimparare: e in somma professando, come scrittore didascalico, di mirare all’utilità de’ lettori, non diedi loro precetti dannosi o falsi, ma spiegai loro distintamente e chiaramente l’arte vera ed utile: istituendo non quanto al fatto, ma quanto all’osservazione de’ fatti, ch’è proprio debito del filosofo, e quanto alle dottrine che ne derivano, una nuova scuola o filosofia da sostituire alla tua Socratica sua contraria, e da durare e giovare (per quello ch’io mi pensi) assai più di lei, e d’ogni altra, e forse mentre gli uomini saranno uomini, cioè diavoli in carne. E dove gli altri filosofi senza odiar gli uomini quanto Me, cercano pure di nuocer loro effettivamente co’ loro precetti, io effettivamente giovai, giovo, e gioverò sempre a chiunque voglia e sappia praticare i miei. Così che il Misantropo ch’io era, feci un’opera più utile agli uomini (chi voglia ben considerare) di quante mai n’abbia prodotte la più squisita filantropia, o qualunque altra qualità umana, come io mi rimetto all’esperienza di chiunque saprà mettere, o avrà mai saputo mettere in opera l’istruzione ricevuta dal mio libro. E io non poteva far cosa più contraria al mio istituto di quella ch’io feci: come non avrei potuto far cosa più conforme al medesimo, che scrivendo precetti sull’andare del tuo libro che passi per filantropo. Tanto è vero quello ch’io ti dissi poco innanzi, che non ostante il mio rinnegamento degli antichi principii umani e virtuosi, fui costretto di conservare perpetuamente una non so se affezione o inclinazione e simpatia interna verso loro. (13 giugno 1822).