Operette morali/Il Parini, ovvero Della Gloria/Capitolo decimo

Il Parini, ovvero Della Gloria
Capitolo decimo

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Il Parini, ovvero Della Gloria
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Non potendo nella conversazione degli uomini godere quasi alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà di rivolgerla nell’animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, con pigliarne stimolo e conforto a nuove fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze. Perocché la gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini, riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in nessun luogo.

Dunque per ultimo ricorrerai coll’immaginativa a quell’estremo rifugio e conforto degli animi grandi, che è la posterità. Nel modo che Cicerone, ricco non di una semplice gloria, né questa volgare e tenue, ma di una moltiplice, e disusata, e quanta ad un sommo antico e romano, tra uomini romani e antichi, era conveniente che pervenisse; nondimeno si volge col desiderio alle generazioni future, dicendo, benché sotto altra persona1: pensi tu che io mi fossi potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dì e la notte, in città e nel campo, se avessi creduto che la mia gloria non fosse per passare i termini della mia vita? Non era molto più da eleggere un vivere ozioso e tranquillo, senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma l’animo mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo alla posterità in modo, come se egli, passato che fosse di vita, allora finalmente fosse per vivere. Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento dell’immortalità degli animi propri, ingenerato da natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è, che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri è di maggior prezzo a comperare, e di meno uso a possedere. Ma come, secondo il detto di Simonide,2


La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate;
Onde ciascuno indarno si affatica;
Altri l’aurora amica, altri l’etate
O la stagione aspetta:
E nullo in terra il mortal corso affretta,
Cui nell’anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta;

così, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo più dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di là dalla stessa morte, si ferma nella posterità. Perocché l’uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, così come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è così felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette nell’avvenire.

Note

  1. De Senect. cap. 23.
  2. Appresso a Stobeo, ed. Gesner. Tigur. 1559, serm. 96, p. 529.