Operette morali/Detti memorabili di Filippo Ottonieri/Capitolo secondo

Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Capitolo secondo

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Detti memorabili di Filippo Ottonieri
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Non ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre che era stato occupato in qualunque cosa, per grave che ella fosse, diceva d’essersi trastullato. Solo se talvolta era stato qualche poco d’ora senza occupazione, confessava non avere avuto in quell’intervallo alcun passatempo.

Diceva che i diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli che nascono dalle immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto.

Assomigliava ciascuno de’ piaceri chiamati comunemente reali, a un carciofo di cui, volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e trangugiare tutte le foglie. E soggiungeva che questi tali carciofi sono anche rarissimi; che altri in gran numero se ne trovano, simili a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna; e che esso, potendosi difficilmente adattare a ingoiarsi le foglie, era contento per lo più di astenersi dagli uni e dagli altri.

Rispondendo a uno che l’interrogò, qual fosse il peggior momento della vita umana, disse: eccetto il tempo del dolore, come eziandio del timore, io per me crederei che i peggiori momenti fossero quelli del piacere: perché la speranza e la rimembranza di questi momenti, le quali occupano il resto della vita, sono cose migliori e più dolci assai degli stessi diletti. E paragonava universalmente i piaceri umani agli odori: perché giudicava che questi sogliano lasciare maggior desiderio di sé, che qualunque altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e di tutti i sensi dell’uomo, il più lontano da potere esser fatto pago dai propri piaceri, stimava che fosse l’odorato. Anche paragonava gli odori all’aspettativa de’ beni; dicendo che quelle cose odorifere che sono buone a mangiare, o a gustare in qualunque modo, ordinariamente vincono coll’odore il sapore; perché gustati piacciono meno ch’a odorarli, o meno di quel che dall’odore si stimerebbe. E narrava che talvolta gli era avvenuto di sopportare impazientemente l’indugio di qualche bene, che egli era già certo di conseguire; e ciò non per grande avidità che sentisse di detto bene, ma per timore di scemarsene il godimento con fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe riuscito. E che intanto aveva fatta ogni diligenza, per divertire la mente dal pensiero di quel bene, come si fa dai pensieri de’ mali.

Diceva altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare incomodamente, comincia a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e alcune volte credendo essere in punto di addormentarsi; finché venuta l’ora, senza essersi mai riposato, si leva.

Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità.

Non credeva che si potesse né contare tutte le miserie degli uomini, né deplorarne una sola bastantemente.

A quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è contento del proprio stato, rispondeva: la cagione è, che nessuno stato è felice. Non meno i sudditi che i principi, non meno i poveri che i ricchi, non meno i deboli che i potenti, se fossero felici, sarebbero contentissimi della loro sorte, e non avrebbero invidia all’altrui: perocché gli uomini non sono più incontentabili, che sia qualunque altro genere: ma non si possono appagare se non della felicità. Ora, essendo sempre infelici, che maraviglia è che non sieno mai contenti?

Notava che posto caso che uno si trovasse nel più felice stato di questa terra, senza che egli si potesse promettere di avanzarlo in nessuna parte e in nessuna guisa; si può quasi dire che questi sarebbe il più misero di tutti gli uomini. Anche i più vecchi hanno disegni e speranze di migliorar condizione in qualche maniera. E ricordava un luogo di Senofonte1, dove consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che sono male coltivati; perché, dice, un terreno che non è per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio; e tutti quegli averi che noi veggiamo che vengono vantaggiando, ci danno molto più contento che gli altri.

All’incontro notava che niuno stato è così misero, il quale non possa peggiorare; e che nessun mortale, per infelicissimo che sia, può consolarsi né vantarsi, dicendo essere in tanta infelicità, che ella non comporti accrescimento. Ancorché la speranza non abbia termine, i beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso il ricco e il povero, il signore e il servo, se noi compensiamo le qualità del loro stato colle assuefazioni e coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità di bene. Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e quasi la stessa immaginativa non può fingere alcuna tanta calamità, che non si verifichi di presente, o già non sia stata verificata, o per ultimo non si possa verificare, in qualcuno della nostra specie. Per tanto, laddove la maggior parte degli uomini non hanno in verità che sperare alcuno aumento della quantità di bene che posseggono; a niuno mai nello spazio di questa vita, può mancar materia non vana di timore: e se la fortuna presto si riduce in grado, che ella veramente non ha virtù di beneficarci da vantaggio, non perde però in alcun tempo la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da vincere e rompere la stessa fermezza della disperazione.

Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che l’uomo si possa sottrarre dalla potestà della fortuna, disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e non riponendo la beatitudine e l’infelicità propria in altro, che in quel che dipende totalmente da esso lui. Sopra la quale opinione, tra le altre cose, diceva: lasciamo stare che se anche fu mai persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto filosofo, nessuno visse né vive in tal modo seco medesimo; e che tanto è possibile non curarsi delle cose proprie più che delle altrui, quanto curarsi delle altrui come fossero proprie. Ma dato che quella disposizione d’animo che dicono questi filosofi, non solo fosse possibile, che non è, ma si trovasse qui vera ed attuale in uno di noi; vi fosse anche più perfetta che essi non dicono, confermata e connaturata da uso lunghissimo, sperimentata in mille casi; forse perciò la beatitudine e l’infelicità di questo tale, non sarebbero in potere della fortuna? Non soggiacerebbe alla fortuna quella stessa disposizione d’animo, che questi presumono che ce ne debba sottrarre? La ragione dell’uomo non e sottoposta tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili morbi che recano stupidità, delirio, frenesia, furore, scempiaggine, cento altri generi di pazzia breve o durevole, temporale o perpetua; non la possono turbare, debilitare, stravolgere, estinguere? La memoria, conservatrice della sapienza, non si va sempre logorando e scemando dalla giovanezza in giù? quanti nella vecchiaia tornano fanciulli di mente! e quasi tutti perdono il vigore dello spirito in quella età. Come eziandio per qualunque mala disposizione del corpo, anco salva ed intera ogni facoltà dell’intelletto e della memoria, il coraggio e la costanza sogliono, quando più, quando meno, languire; e non di rado si spengono. In fine, è grande stoltezza confessare che il nostro corpo è soggetto alle cose che non sono in facoltà nostra, e contuttociò negare che l’animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna fuori che a noi medesimi. E conchiudeva, che l’uomo tutto intero, e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.

Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato.

Note

  1. Oeconom. cap. 20, § 23.