Operette morali/Detti memorabili di Filippo Ottonieri/Capitolo quarto

Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Capitolo quarto

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Detti memorabili di Filippo Ottonieri
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Notava che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi nei loro propositi, non ostante qualunque difficoltà; e questo per la stessa loro irresolutezza; atteso che a lasciare la deliberazione fatta, converrebbe si risolvessero un’altra volta. Talora sono prontissimi ed efficacissimi nel mettere in opera quello che hanno risoluto: perché temendo essi medesimi d’indursi di momento in momento ad abbandonare il partito preso, e di ritornare in quella travagliosissima perplessità e sospensione d’animo, nella quale furono prima di determinarsi; affrettano la esecuzione, e vi adoprano ogni loro forza; stimolati più dall’ansietà e dall’incertezza di vincere se medesimi, che dal proprio oggetto dell’impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a superare per conseguirlo.

Diceva alle volte ridendo, che le persone assuefatte a comunicare di continuo cogli altri i propri pensieri e sentimenti, esclamano, anco essendo sole, se una mosca le morde, o che si versi loro un vaso, o fugga loro di mano; e che per lo contrario quelle che sono usate di vivere seco stesse e di contenersi nel proprio interno, se anco si sentono cogliere da un’apoplessia, trovandosi pure in presenza d’altri, non aprono bocca.

Stimava che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono riputati grandi o straordinari, conseguissero questa riputazione in virtù principalmente dell’eccesso di qualche loro qualità sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far cose degne dell’uno o dell’altro titolo, ed apparire ai presenti o ai futuri né grande né straordinario.

Distingueva nelle moderne nazioni civili tre generi di persone. Il primo, di quelle in cui la natura propria, ed anco in gran parte la natura comune degli uomini, si trova mutata e trasformata dall’arte, e dagli abiti della vita cittadinesca. Di questo genere di persone diceva essere tutte quelle che sono atte ai negozi privati o pubblici; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a convivere, o a praticare personalmente in uno o altro modo; in fine, all’uso della presente vita civile. E a questo solo genere, parlando universalmente, diceva toccare ed appartenere nelle dette nazioni la stima degli uomini. Il secondo, essere di quelli in cui la natura non si trova mutata bastantemente dalla sua prima condizione; o per non essere stata, come si dice, coltivata; o perciocché, per sua strettezza e insufficienza, fu poco atta a ricevere e a conservare le impressioni e gli effetti dell’arte, della pratica e dell’esempio. Questo essere il più numeroso dei tre; ma disprezzato non manco da se medesimo che dagli altri, degno di piccola considerazione; e in somma consistere in quella gente che ha o merita nome di volgo, in qualunque ordine e stato sia posta dalla fortuna. Il terzo, incomparabilmente inferiore di numero agli altri due, quasi così disprezzato come il secondo, e spesso anco maggiormente, essere di quelle persone in cui la natura per soprabbondanza di forza, ha resistito all’arte del nostro presente vivere, ed esclusala e ributtata da sé; non ricevutone se non così piccola parte, che questa alle dette persone non è bastante per l’uso dei negozi e per governarsi cogli uomini, né per sapere anco riuscire conversando, né dilettevoli né pregiate. E suddivideva questo genere in due specie: l’una al tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria nel mezzo delle città, non meno perché fugge essa dall’altra gente, che per essere fuggita. Di questa specie soggiungeva non si trovare se non rarissimi. Nella natura dell’altra, diceva essere congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità; in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocché gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere all’età nostra, se bene l’uno più, l’altro meno, non pochi degl’ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a questo un altro esempio, ricavato dagli antichi, cioè Virgilio: del quale nella Vita latina che porta il nome di Donato grammatico1, è riferito coll’autorità di Melisso pure grammatico, liberto di Mecenate, che egli fu nel favellare tardissimo, e poco diverso dagl’indotti. E che ciò sia vero, e che Virgilio, per la stessa maravigliosa finezza dell’ingegno, fosse poco atto a praticare cogli uomini, gli pareva si potesse raccorre molto probabilmente, sì dall’artificio sottilissimo e faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di quella poesia; come anche da ciò che si legge in sulla fine del secondo delle Georgiche. Dove il poeta, contro l’uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli d’ingegno grande, si professa desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può comprendere che egli vi e sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l’ama più come rimedio o rifugio, che come bene. E perciocché, generalmente parlando, gli uomini di questa e dell’altra specie, non sono avuti in pregio, se non se alcuni dopo morte, e quelli del secondo genere vivi, non che morti, sono in poco o niun conto; giudicava potersi affermare in universale, che ai nostri tempi, la stima comune degli uomini non si ottenga in vita con altro modo, che con discostarsi e tramutarsi di gran lunga dall’essere naturale. Oltre di questo, perciocché nei tempi presenti tutta, per dir così, la vita civile consiste nelle persone del primo genere, la natura del quale tiene come il mezzo tra quelle de’ due rimanenti; conchiudeva che anche per questa via, come per altre mille, si può conoscere che oggidì l’uso, il maneggio, e la potestà delle cose, stanno quasi totalmente nelle mani della mediocrità.

Distingueva ancora tre stati della vecchiezza considerata in rispetto alle altre età dell’uomo. Nei principii delle nazioni, quando di costumi e d’abito, tutte le età furono giuste e virtuose; e mentre la esperienza e la cognizione degli uomini e della vita, non ebbero per proprietà di alienare gli animi dall’onesto e dal retto; la vecchiezza fu venerabile sopra le altre età: perché colla giustizia e con simili pregi, allora comuni a tutte, concorreva in essa, come e natura che vi si trovi, maggior senno e prudenza che nelle altre. In successo di tempo, per lo contrario, corrotti e pervertiti i costumi, niuna età fu più vile ed abbominabile della vecchiezza; inclinata coll’affetto al male più delle altre, per la più lunga consuetudine, per la maggior conoscenza e pratica delle cose umane, per gli effetti dell’altrui malvagità, più lungamente e in maggior numero sopportati, e per quella freddezza che ella ha da natura; e nel tempo stesso impotente a operarlo, salvo colle calunnie, le frodi, le perfidie, le astuzie, le simulazioni, e in breve con quelle arti che tra le scellerate sono abbiettissime. Ma poiché la corruttela delle nazioni ebbe trapassato ogni termine, e che il disprezzo della rettitudine e della virtù precorse negli uomini l’esperienza e la cognizione del mondo e del tristo vero; anzi, per dir così, l’esperienza e la cognizione precorsero l’età, e l’uomo già nella puerizia fu esperto, addottrinato e guasto; la vecchiezza divenne, non dico già venerabile, che da indi innanzi molto poche cose furono capaci di questo titolo, ma più tollerabile delle altre età. Perocché il fervore dell’animo e la gagliardia del corpo, che per l’addietro, giovando all’immaginativa, ed alla nobiltà dei pensieri, non di rado erano state in qualche parte cagione di costumi, di sensi e di opere virtuose; furono solamente stimoli e ministri del mal volere o del male operare, e diedero spirito e vivezza alla malvagità: la quale nel declinare degli anni, fu mitigata e sedata dalla freddezza del cuore, e dall’imbecillità delle membra; cose per altro più conducenti al vizio che alla virtù. Oltre che la stessa molta esperienza e notizia delle cose umane, divenute al tutto inamabili, fastidiose e vili; in luogo di volgere all’iniquità i buoni come per lo passato, acquistò forza di scemarne e talvolta spegnerne l’amore nei tristi. Laonde, in quanto ai costumi, parlando della vecchiezza a comparazione delle altre età, si può dire che ella fosse nei primi tempi, come è al buono il migliore; nei corrotti, come al cattivo il pessimo; nei seguenti e peggiori, al contrario.

Note

  1. Cap. 6.