Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia X

Elegia X

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ELEGIA DECIMA.




     O vero o falso che la fama suone,
Io odo dir che l’orso ciò che trova,
3Quando è ferito, in la piaga si pone;
     Or un’erba or un’altra; e talor prova
E stecchi e spini e sassi ed acqua e terra;
6Che affliggon sempre, e nulla mai gli giova.
     Vuol pace, ed egli sol si fa la guerra;
Cerca da sè scacciar l’aspro martire,
9Ed egli è quel che se lo chiude o serra.
     Ch’io sia simile a lui ben posso dire,
Chè poi ch’Amor ferìmmi, mai non cesso
12A nuovi impiastri le mie piaghe aprire;
     Or a ferro or a fôco; ed avvien spesso
Che cercandovi pôr che mi dia aita,
15Mortifero venen dentro v’ho messo.1
     Io volsi alfin provar se la partita,

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Se star dalle repulse e sdegni assente,
18Potesse risanar la mia ferita;
     Quando2 provato avea ch’era possente
Trarmi ad irreparabile ruina
21A voi senza mercè l’esser presente.
     Chè se un contrario all’altro è medicina,
Non so perchè dall’un pigliando forza,
24Per l’altro la mia doglia non declina.
     Piglia forza dall’uno, e non s’ammorza
Per l’altro già; nè già si minuisce,
27Anzi più per assenza si rinforza.
     Io solea dir fra me: — Dove gioisce
Felice alcuno in riso, in festa e in gioco,
30Non sto ben io, ch’Amor qui si nudrisce. —
     E con speranza che giovar non poco
Mi dovesse il contrario, io venni in parte
33Dove i pianti e le strida avevan loco.3
     Il ferro, il fôco e l’altre opre di Marte
Vedere in danno altrui, pensai che fosse
36A risanare un misero buon’arte.
     Io venni dove le campagne rosse
Eran del sangue barbaro e latino,
39Che fiera stella dianzi a furor mosse;
     E vidi un morto all’altro sì vicino,
Che, senza premer lor, quasi il terreno
42A molte miglia non dava il cammino.
     E da chi alberga tra Garonna e ’l Reno
Vidi uscir crudeltà, che ne dovria
45Tutto il mondo d’orror rimaner pieno.4
     Non fu la doglia in me però men ria;

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Nè vidi far d’alcun sì fiero strazio,
48Che pareggiasse la gran pena mia.
     Grave fu il lor martír, ma breve spazio
Di tempo diè lor fine. Ah crudo Amore,
51Che d’accrescermi il duol non è mai sazio!
     Io notai che il mal lor li traea fuore
Del mal, perchè sì grave era, che presto
54Finía la vita insieme col dolore.
     Il mio mi pon fin sulle porte, e questo
Medesmo ir non mi lascia, e torna addietro,
57E fa che mal mio grado in vita resto.
     Io torno a voi, nè del tornar son lieto
Più che del partir fossi; e duro frutto
60Della partita e del ritorno mieto.
     Avendo, dunque, de’ rimedî il tutto
Provato ad uno ad un, fuor che l’assenza,
63Ch’al fin provar m’have il mio error indutto;
     E visto che mi nuoce, or resto senza
Conforto ch’altra cosa più mi vaglia;
66Ch’in van di tutte ho fatto esperïenza.
     E son le maghe lungi di Tessaglia,
Che con radici, immagini ed incanti
69Oprando, posson far ch’io mi rivaglia.5
     Io non ho da sperar più da qui innanti,
Se non che ’l mio dolor cresca sì forte,
72Che, per trar voi di noja e me di tanti
     E sì lunghi martír, mi dia la morte.




Note

  1. Il Baruffaldi, confrontando questo componimento con ciò che il poeta dice di sè nella Canzone prima, ne inferisce che qui si accenni non oscuramente agli sforzi che Lodovico avea fatti per estinguere la passione già concepita per Alessandra Strozzi, fin da quando ell’era maritata; passione che si riaccese vieppiù, qund’egli la rivide in Firenze, tutta splendente della sua prima bellezza, e, che più è, sciolta dal suo primo legame. Vita ec., pag. 152-53.
  2. Imperciocchè.
  3. Accenna in questa e nelle seguenti terzine la memorabile giornata di Ravenna, accaduta per la pasqua di resurrezione l’anno 1512, ai 12 di aprile, fra gli Spagnuoli, Svizzeri e papa Giulio II da una parte, e i Francesi e il duca Alfonso di Ferrara dall’altra, colla vittoria di questi ultimi. Vi rimasero uccisi da circa 18 mila combattenti. Il poeta, secondo l’uso degli antichi Romani, dà il nome di Barbari ai popoli non italici, ed a questi quello di Latini. — (Molini.) — Anche da questo luogo i biografi del poeta vorrebbero inferire com’egli trattasse, e non senza onore, le armi. Vedi Baruffaldi, op. cit., pag. 133-35; e leggasi il latino componimento De divertis amoribus. A noi pare che a questa interpretazione óstino, se non altro, le parole: «in danno altrui» (v. 35).
  4. I Francesi si condussero assai crudelmente nel sacco di Ravenna. Vedi Guicciardini, Lib. X. — (Molini.)
  5. Rivalersi, per Tornar valido, usato ancora dal Caro, nelle Lettere al Tomitano («attendere... a rivalermi dalle mie indisposizioni.») Vedi il Vocabolario del Manuzzi. Certo, questi due grandi scrittori intesero a darci tradotto il verbo latino revalescere.