Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia I
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ELEGIA PRIMA.
Nella stagion che il bel tempo rimena,
Di mia man posi un ramuscel di Lauro1
3A mezzo un colle in una piaggia amena;
Che di bianco, d’azzur, vermiglio e d’auro
Fioriva sempre, e sempre il sol scopriva,
6O fosse all’Indo o fosse al lido mauro.
Quivi traendo or per erbosa riva,
Or rorando2 con man la tepid’onda,
9Or rimovendo la gleba nativa,
Or riponendo più lieta e feconda;
Fei sì, con studio e con assidua cura,
12Che ’l Lauro ebbe radice e nôva fronda.
Fu sì benigna a’ miei desir natura,
Che la tenera verga crescer vidi,
15E divenir solida pianta e dura.
Dolci ricetti, solitarî e fidi,
Mi fûr queste ombre, ove sfogar potei
18Securo il cor con amorosi gridi.
Vener, lasciando i tempî Citerei,
E gli altari e le vittime e gli odori
21Di Gnido e d’Amatunta e de’ Sabei,
Sovente con le Grazie in lieti cori
Vi danzò intorno, e per li rami intanto
24Salían scherzando i pargoletti Amori.
Spesso Dïana, con le Ninfe a canto,
L’arboscel soavissimo prepose
27Alle selve d’Eurota e d’Erimanto.
E queste ed altre Dee, sotto l’ombrose
Frondi, mentre in piacer stavano e in festa,
30Benedicean talor chi il ramo pose.
Lassa! onde uscì la boreal tempesta?
Onde la bruma, onde il rigor e il gelo,
33Onde la neve a’ danni miei sì presta?
Come gli ha tolto il suo favore il cielo?
Langue il mio Lauro, e della bella spoglia
36Nudo gli resta e senza onor lo stelo.
Verdeggia un ramo sol3 con poca foglia;
E fra tema e speranza sto sospesa,
39Se lo mi lasci il verno o lo mi toglia.
Ma, più che la speranza, il timor pesa
Che contra il ghiaccio rio, che ancor non cessa,
42Il debil ramo avrà poca difesa.
Deh! perchè, innanzi che sia in tutto oppressa
L’egra radice, non è chi m’insegni
45Com’esser possa al suo vigor rimessa?
Febo, rettor delli superni segni,
Ajuta l’arboscello, onde corona
48Più volte avesti ne’ Tessali regni.
Concedi Bacco, Vertunno e Pomona,
Satiri, Fauni, Driade e Napee,
51Che nuove fronde il Lauro mio ripona.
Soccorran tutti i Dei, tutte le Dee,
Che degli arbori han cura, il Lauro mio;
54Però ch’egli è fatal. Se viver dee,
Vivo io; se dee morir, seco moro io.
Note
- ↑ Introduce il poeta la città di Firenze a dolersi della grave infermità di Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino e nipote di Leone X, che morì per questa assai giovine, non lasciando altri eredi che una fanciulla di salute delicatissima, detta Caterina, che fu poi regina di Francia, e in cui terminò la linea retta di Cosimo il Vecchio. — (Molini). — Se le nostre congetture intorno all’allusione contenuta nel verso 94 della Satira quinta, non vanno lungi dal vero, ognuno noterà la differenza di giudizii e di linguaggio a che l’autore era venuto intorno a Lorenzo Medici ed alla sua famiglia, dopo quel fatale «Tutti morrete!» (v. 106 della Satira sesta).
- ↑ Esempio da potersi aggiungere al Vocabolario.
- ↑ Accenna alla suddetta Caterina, unica figlia di Lorenzo. — (Molini.)