Opere di Raimondo Montecuccoli/Aforismi

Considerazione su gli scritti inediti di Raimondo Montecuccoli

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Considerazione su gli scritti inediti di Raimondo Montecuccoli
ConsiderazioneVII Opere di Raimondo Montecuccoli






NOTE AGLI AFORISMI DELL'ARTE BELLICA

«La guerra è uno stato d'eserciti offendentisi in ogni guisa, il cui fine è la vittoria ».

Tutte le versioni e le edizioni da noi vedute hanno azione; solo la latina in margine di mano antica status: e questa definizione del Montecuccoli è tratta dal Grozio: Bellum est status per vim certantium (lib. I cap. I). L'Autore non dà qui se non la guerra in azione incominciata e finita dalla milizia, onde per non oltrepassare i limiti dell'arte omette il fine politico della guerra, che è la vittoria pe' capitani, la conquista pe' principi e la pace pe' popoli. (cap. I, 1)

«Si assoldino gli uomini non già della feccia del volgo, né a caso; ma si vogliono scegliere (1) tra' migliori che sieno sani, arditi, robusti, sul fiore dell'età, induriti a' disagi de' campi e delle arti faticose, non infingardi, non effeminati, non viziosi (2). Gli arrolati fanno lor mostra e prestano il giuramento, ove principalmente promettono fedeltà, ubbidienza e valore»(3).

(1) Galbae vox legi a se militem, non emi . Questa sentenza di Tacito applicata dal Montecuccoli è apologia della coscrizione contro que' che vorrebbero gli arrolamenti volontari. Purchè i coscritti sieno in tempo di guerra non guerreggiata rimandati alle loro case, dopo un decretato numero d'anni, non si nuocerà nè alla agricoltura, nè alla propagazione; nè la gioventù abborrirà dalla milízia, poichè avrà certa speranza di godere della tranquillità domestica nell'età men verde.

(2) Le virtù cittadine producono le virtù guerriere, e le guerriere mantengono gli stati; ma dalle costituzioni degli stati e più dalle virtù de' governi dipendono le virtù cittadine: diversamente, le vittorie nascono dal fanatismo o dal genio di un uomo solo, e i loro frutti muoiono nella seconda generazione.

(3) La grandezza del popolo di Roma derivò dalla religione, nè il soldato avea vincolo più forte del giuramento (vedi Montesquieu, Spirito delle leggi lib. 8 c. 13). Quando i principi videro che la religione de' loro popoli non era militare, vi sostituirono l'onore; ed ebbero talvolta eccellenti capitani, e spesso tristi soldati. (cap. II, 1)

«I non combattenti sono artefici, operai, guide, spie, guastatori, vivandieri, mercanti, religiosi, medici, speziali, chirurghi, falegnami, ferrai, muratori, fornari, armaiuoli».

Questa moltitudine di non-combattenti s'è utilmente diradata. Gli artefici e gli operai tutti si traggono secondo il bisogno da' coscritti educati a' mestieri; i guastatori sono anzi soldati eletti per valore e per presenza in ogni reggimento: le guide, le spie e i munizionieri si pigliano e si lasciano eventualmente. Vero è che noi abbiamo fra' non-combattenti molti amministratori di guerra e scrivani, che spesso non furono mai militari; abuso nocivo e al soldato e al governo. (cap. II, 2)

«Si compongono i combattenti 1o in decurie ».

Lo scompartimento di 5, 10, 16, 20, 100 è assegnato da Senofonte sino a' tempi di Ciro ( Ciroped. l. 2). Ora si divide per 12 che chiamansi squadre, 24 sub divisione etc., ma nelle evoluzioni questo scompartimento si cangia in sezioni, plotoni o manipoli, divisioni, battaglioni: il numero degli uomini che compongono questi scompartimenti è determinato soltanto sotto le armi, e ripartito secondo la proporzione de' soldati. (cap. II, 2)

«I reggimenti sono più compagnie; de' reggimenti si formano battaglioni.... i quali ne' reggimenti di cavalleria chiamansi squadroni ».

I battaglioni e gli squadroni non sono soltanto scompartimenti nelle evoluzioni, come a' tempi dell'autore, ma in piede stabile ne' reggimenti, perchè le grandi evoluzioni di guerra dovendosi far sempre per battaglioni e squadroni, raramente per reggimenti, e non mai per compagnie, è necessario che sieno sino dalle lor formazioni corpi mobili ed individuali da se medesimi. (cap. II, 2)

«Una fila di fronte, ovvero di lunghezza, sono più soldati posti in linea retta l'uno a canto all'altro; una fila di fondo, ovvero di altezza, sono più soldati posti in linea retta l'uno dietro all'altro».

Fila di fronte è il rang de' francesi, e fila di fondo è la file: un battaglione in linea secondo la moderna ordinanza di 900 soldati, oltre gli uffiziali, avrebbe 3 file di fronte e 300 di fondo. E perchè tutta l'esattezza delle evoluzioni sta nella distinzione di queste due specie di file, è ottima cosa il distinguerle come oggi si fa con due vocaboli che non hanno veruna promiscuità fra di loro, ranghi e file. (cap. II, 2)

«Quando l'esercito si ordina a battaglia, formansi tre ordini: prima linea o fronte, seconda linea, terza linea o riserva».

Questo schierare a battaglia in tre linee è anche oggi in uso, e viene da' Romani: nella fronte poneano gli astati, nella seconda linea i principi, e nella riserva i triari. (cap. II, 2)

«Troppo nociva al pubblico si è la moltitudine de' comandatori, non meno che la compagnia de' medici all'infermo».

Sentenza antichissima. Ulisse presso Omero grida all'esercito: Non è buono il capitanato di molti; uno sia il capitano , Il. II. 204. (cap. II, 3)

Sulla preminenza, negli schieramenti bellici, dell'imperatore cesareo rispetto ad altri sovrani.

Preminenze cangiate co' tempi, e più oggi che l'imperadore d'Austria non è capo dell'Impero germanico, nè successore de' Cesari. (cap. II, 3)

«Le qualità richieste ne' generali.... sono naturali o acquistate. Naturali sono.... la nascita....».

Dal lib. 2, cap. 2. de' Commentari dell'autore pare che a' suoi dì la nobiltà levasse milizie da' feudi; i nobili erano capitani in guerra e signori de' soldati in pace. La nobiltà nacque dalle conquiste; finchè l'arte della guerra restò a' loro nepoti, i nobili ebbero dritto agli onori dello stato: la plebe romana potendo eleggere consoli plebei, eleggeva quasi sempre patrizi co' quali avea militato. (cap. II, 4)

« Acquistate qualità [del comandante] sono.... e quella del dire (1) e quella del comandare (2)».

(1) «E che i ti credi che si debba comandare all'esercito col silenzio? Oppure non hai mai pensato che tutte le cose, che per legge abbiamo imparato essere ottime, e per le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate per mezzo della favella? e che se alcuno impara qualche altra disciplina, per mezzo della favella la impara?» (Socrate presso Senof., Mem. lib. 3, cap. 3).

(2) «Il comandare non è tanto dignità quanto arte, ed arte fra tutte sublimissima». ( Grozio, lib. 2, cap. 20). (cap. II, 4)

«I greci dividevano [la soldatesca] in cavalleria e fanteria; questa era ripartita in decurie....».

I greci chiamavano queste decurie o file di fondo composte di 16 uomini Στίχοι, versi, files: e le file di fronte da noi dette ranghi, rangs, chiamavansi Ζυγοι, nodi, da cui forse venne il manipulus de' romani e il peloton de' francesi. Ma le decurie quando non erano in evoluzioni di battaglia chiamavansi Λόχοι come le nostre sezioni sotto le armi chiamansi ne' reggimenti squadre. (cap. III, 1)

Ed oggi restano i nomi di ala destra, ala sinistra quando la colonna è spiegata a tre ranghi in battaglia: di testa a sinistra o a destra quando la colonna marcia per l'ala dritta o per la sinistra. Ed oggi la falange greca si compone nella nostra colonna serrata, che può scomporsi con la stessa evoluzione in quattro quadrati. (cap. III, 1)

Anche a' dì nostri manca un codice; infinite leggi, regolamenti e decreti sulla economia, la disciplina, e le ordinanze governano la nostra milizia che, nata dalla francese, ha poco in ciò di suo proprio, molto dell'altrui. Nè la milizia francese, per l'abolizione di molti statuti militari anteriori alla rivoluzione, e pe' tanti recenti cangiamenti, possiede ancora un codice che scevro dalle migliaia di leggi ripetute, opposte o inutili racchiuda quelle soltanto, che sebbene nate a caso secondo gli eventi, si sono sperimentate utili in tutti questi anni ne' quali la Francia fu sempre in guerra. La troppa abbondanza genera povertà, e i troppi decreti parziali affogano spesso le leggi di massima. (cap. III, 3)

Di tutte queste armi difensive resta a' nostri dragoni la sola celata (vedi Consid. III); e la celata con la corazza a' corazzieri a cavallo (vedi Consid. II). Le armi difensive parvero inutili da che non resistevano alle artiglierie; e più oggi che il sistema di guerra è ridotto a portare maggiore massa con maggiore velocità contro il nemico, ed a moltiplicare la massa per la velocità. Vero è che gli antichi calcolavano più di noi il valore individuale del soldato che offendeva più ardito fidando nei mezzi di difesa: Necesse est ut dimicandi acriorem sumat audaciam qui munito capite vel pectore non timet vulnus. (Veget. lib. I, 20). (cap. IV, 1)

I greci incorporavano la cavalleria, come membro, nella falange; e i romani nella legione: fanti e cavalli marciavano uniti, ed alloggiavano nello stesso campo. Schieravansi i cavalli quasi sempre su' fianchi e chiamavansi ale per impedire che la linea dell'esercito fosse circuita. Ma a que' tempi la cavalleria era poca e non dispendiosa, specialmente in Grecia ove i cavalieri militavano a loro spese. Non per le sole ragioni addotte dall'autore anche oggi si distinguono in corpi diversi i fanti ed i cavalli, ed hanno campi diversi; bensì perchè la cavalleria ne' nostri eserciti è più numerosa, perchè i fianchi de' fanti sono difesi dalle artiglierie, perchè è armata più leggermente assai che ai tempi del Montecuccoli, e quindi col numero aiutato dalla agilità può in molte occasioni e secondo il terreno operare da sè. (cap. IV, 1)

La picca è più sotto chiamata dall'autore regina delle armi: venne da' Greci e da' Romani, ed ha anche oggi moltissimi fautori, non trovando essi bastante difesa contro la cavalleria il fucile con la baionetta a cannello. Primi, secondo Puységur ( Arte della guerra c. 2, art. 2) a dismettere le picche furono gl'imperiali in Ungheria contro a' Turchi verso la fine del secolo XVII, e i fucili con baionetta furono adottati dai fanti d'ogni nazione sul principio del XVIII. (cap. IV, 2)

Le utilità del moschetto addotte dall'autore erano controbilanciate dalla tardezza di dargli fuoco con la miccia, di piantarlo alla mira su la forchetta, e di strascinarselo inutilmente nella mano sinistra quando si traevano le spade. Su la fine del secolo XVII fu sostituito il fucile più agevole e di doppio uso per la baionetta a cannello. Oggi il moschetto si usa talvolta alla difesa de' luoghi forti, ma di grosso calibro atto a molta polve, a grossa palla ed a lunga passata. Gl'imperiali furono primi ad abbandonar le forchette nella guerra sul Reno contro i Francesi l'anno 1675, onde pare che il Montecuccoli, morto sei anni dopo, e che compì il suo libro nel 1669, non l'abbia riveduto dopo quella guerra ov'ei comandava contro il Turenna. (Vedi la nostra prefazione, art. Edizioni ). (cap. IV, 2)

Delle granate e del loro uso vedi nel dizionario di Aubert de la Chenaye alla voce grenade: de' granatieri antichi parla l'Enciclopedia art. grenadiers. Oggi le granate sono dismesse: restano i granatieri tratti dal fiore de' reggimenti; ogni battaglione n'ha una compagnia; sono soldati prestanti di valore, di costumi e di corpo: hanno un soldo al giorno più degli altri gregari: sono armati come gli altri, ma distinguonsi nel vestiario dai segni delle granate, dal berrettone di pelo e dagli spallini rossi: nella fanteria leggiera si chiamano carabinieri, benchè non portino che fucili: nelle evoluzioni hanno la destra del battaglione; ne' combattimenti, assalgono i forti, o rompono primi sul nemico; nelle giornate campali delle ultime guerre si sono tolti da' lor reggimenti formandone divisioni e formidabili corpi d'esercito: denno essere sempre lo specchio della milizia sì in pace che in guerra. (cap. IV, 2)

«I reggimenti di cavalleria sono oggidì armati di mezze corazze ».

Di questa milizia qual'era a' tempi dell'autore resta appena il nome: fu anticamente istituzione italiana che passò in Francia: la cavalleria del regno d'Italia è quasi tutta di dragoni. Per queste ragioni abbiamo disteso le nostre illustrazioni a questo passo, e le stampiamo alla fine del volume (vedi Consid. III). (cap. IV, 2)

«La lancia è la regina delle armi a cavallo.... ma le difficoltà che si sono contratte per averla, per mantenerla e per adoperarla ha fatto appresso noi lasciarne l'uso».

La lancia ebbe sempre, ed ha molti scrittori partigiani: ma nella pratica vince il partito delle spade lunghe e pungenti per la cavalleria grave. Resta ancora una mezza lancia agli ulani ne' reggimenti austriaci ed ai cosacchi in Russia: e nella nostra milizia v'era pochi anni addietro un reggimento di polacchi con la mezza lancia maneggiata dal piede su la staffa diritta. Ma tutte le utilità di questa arma negli scontri orizzontali si perdono per la presente cavalleria, la quale essendo più leggiera che a' tempi antichi, trae tutti i vantaggi dalla velocità e flessibilità del maneggio che sarebbe impedito dalla lancia. (cap. IV, 3)

E s'è già detto che la massa moltiplicata per la velocità è il principio della guerra moderna; però i principi contro la sentenza del Waldstein hanno poca cavalleria grave, molta leggiera più atta ad offendere col maneggio e colla agilità che a difendersi con la solidità. Il generale Waldstein era capitano supremo della lega cattolica armata da Ferdinando II imperadore germanico contro la unione evangelica capitanata dall'elettore palatino re di Boemia. Verso il 1630 il Waldstein sconfisse i principi protestanti, e le sue vittorie furono fondamenti alla grandezza dell'Austria. Ma il cardinale di Richelieu per opporsi a tanta possanza traeva il grande Gustavo Adolfo di Svezia a farsi capitano dell'unione evangelica; e d'altra parte sotto specie della comune setta cattolica praticava nella corte austriaca a levare agli eserciti imperiali la esperienza e il valore del Waldstein: e il cardinale vi riuscì con la calunnia, che non fu distrutta nè dalla fama nè dai meriti di tanto guerriero. Il credulo imperadore non si pentì dell'ingiustizia se non quando Gustavo Adolfo sussidiato palesemente dalla Francia corse trionfando tutta la Germania. L'esule Waldstein fu richiamato; frenò la fortuna svedese e ridonò forza e gloria all'ingrato principe. La battaglia di Lützen presso a Lipsia, di cui parla il Montecuccoli, avvenne a' 4 di Novembre del 1632. Restò il campo agli Svedesi, ma funestato dal cadavere del loro re, e due anni dopo furono tutti distrutti nelle pianure di Nordlinga. (cap. IV, 3)

«Senza esercizio non si dà esercito, ma gente rammassata alla rinfusa, mole indigesta, moltitudine inesperta».

I nostri coscritti non passano ne' battaglioni di guerra, se non dopo d'essere stati ammaestrati nel battaglione di pace o deposito del lor reggimento. Ogni reggimento ha perciò tre battaglioni, i due primi sono comandati dal colonnello e guerreggiano; l'ultimo è comandato per lo più dal maggiore e sta sempre in presidio. (cap. V, 1)

«Si esercita il soldato solo, abituandosi al corso, al salto, alla lotta, al nuoto, ai disagi (1), riconoscendo i segni ed il suono (2)».

(1) Questa educazione delle forze parziali dell'uomo è trascurata ne' reggimenti nostri. La fanteria leggiera segnatamente dovrebbe assuefarsi al corso, e sloggiando spesso da' presidj di pace addomesticarsi come i cacciatori ne' labirinti delle valli e delle montagne, sopratutto in Italia scarsa di grandi pianure e dove vincerà chi più conoscerà il terreno, ed avrà soldati più atti a correrlo. Se non che la fanteria leggiera fa ormai quasi le sole fazioni della fanteria di battaglia, e non è distinta se non dal nome e dal vestito.

(2) Precetto che troviamo solo nel nostro autore; non praticato da noi, quantunque per l'uso delle armi da scoppio l’esercizio dell'udito sia necessario quanto quel della vista, che pure puossi aiutare con gli stromenti ottici: l'udito in vece dipende dal solo esercizio. Esercitandosi l'ufficiale ad udire vari suoni, in vari luoghi, stagioni ed ore, s'avvezzerebbe a giudicare delle distanze del cannone o del nemico o de' suoi. (cap. V, 1)

I nostri esercizi sono uniformemente ordinati per la fanteria dal regolamento francese 1 Agosto 1791 adottato da noi, e fondato ne' primi anni della rivoluzione su le teorie del Guibert. La cavalleria ebbe in Francia e in Italia, soltanto verso la fine del 1804, un regolamento uniforme ma provisorio. (cap. V, 1)

«Le parole di comandamento sieno brevi, chiare, non ambigue....».

Noi oggi comandiamo con le parole del comandamento francese, egregie per sè perchè brevi e tronche. Ma s'ingannerebbe chi continuasse a dare a' soldati italiani comandi stranieri per sospetto che la nostra lingua non avesse gli equivalenti sì nelle idee che ne' suoni. E noi speriamo che gl'Italiani assumendo anima e mente militare vorranno avere anche parole lor proprie. Nè sarà impresa difficile un dizionario di guerra tratto dall'indole della lingua e dell'arte, dall'esempio de' buoni scrittori, e dall'uso. (cap. V, 2)

«.... delle ragioni e proporzioni dello squadronare....».

La volgata squadroneggiare, errore d'ammanuense o di tipografo: la versione francese arrangement, a torto. Squadronare è vocabolo nostro e militare derivante da squadre, e spiega il greco παρατάσσω ed il latino aciem instruere, explicare. Ma noi abbiam dimenticato questo verbo come mille altri, e diciamo alla francese manovrare; quanto inesattamente, ognuno sel vede dalla etimologia di mano ed opera. Invece dalla comune de' militari oggi squadronare si piglia contro l'indole della lingua per menare lo spadone, dal francese espadonner. (cap. VI, 1)

«La mediocrità è da tenersi con tale distinzione, che in tempo di pace entro il proprio paese se ne scemi il numero; e su quel d'altri e in tempo di guerra si accresca».

La nostra milizia ha ufficiali bastanti alla guerra, ma non dispendiosi egualmente in tempo di pace; perchè senza scemarne nè accrescerne il numero mai, nè alterare i loro stipendi, gli ufficiali e i soldati hanno in guerra foraggi, viveri ed altre indennità che in pace cessano. Vero è che la pubblica economia è forse sbilanciata dalle troppe aziende di guerra e dalla moltitudine degli amministratori e de' generali che oltrepassano la proporzione de' reggimenti. Rispetto agli amministratori lo stato risparmierebbe molto oro, e la milizia molte noie e disordini, s'ei fossero diradati; il che non si otterrà senza un codice men complicato d'amministrazione militare. Ma chi volesse provvedere all'erario scemando il numero de' generali, rovinerebbe la milizia e lo stato. Primamente è impossibile l'elevare al grado i soli capaci: tale lo merita da colonnello, e n' è indegno da generale; e poi le passioni e il favore eludono la giustizia e la vigilanza de' più severi governi: conviene dunque accrescere il numero per accertare la scelta. Secondariamente, se si promovesse al generalato secondo l'anzianità e la proporzione de' reggimenti, quasi tutti i generali sarebbero vecchi, e la mente o almeno il cuore vacilla sempre con le membra. Sperando pochi le dignità, pochi cercherebbero di meritarle: morrebbe l'emulazione; s'alimenterebbe l'orgoglio ne' pochi comandanti e l'abbiezione ne' molti destinati a una perpetua ubbidienza: esempio recente negli eserciti austriaci. Finalmente ove si potesse sormontare anche questi inconvenienti, converrebbe lasciare perpetuamente il comando de' reggimenti ai pochi generali: e come allora si eviterebbe la corruzione, la tirannia e le seduzioni che, aiutati dal lungo tempo, porterebbero negli eserciti i generali o inetti, o crudeli, o ambiziosi? Chi ha sempre gli stromenti nelle mani o li guasta o se ne prevale. (cap. VI, 3)

Compagnia a' tempi dell'autore: ufficiali 3, sott'ufficiali 3, moschettieri 88, picchieri 78, rondaccie 8: somma 150: reggimento di 10 compagnie, somma 1500. Noi in vece abbiamo i reggimenti in guerra di due battaglioni e 20 compagnie; ogni compagnia d'ufficiali 3, sergenti 5 compreso il sergente maggiore, caporali 9 compreso il foriere, soldati 80 circa.... Le compagnie nostre sono men numerose perchè avendo ogni dieci un capo di battaglione, possono essere meglio disciplinate, meglio amministrate dal capitano, e meglio governate in battaglia dagli ufficiali; alle rondaccie e a' picchieri che erano uomini scelti in ogni compagnia sono sottentrate due compagnie scelte in ogni battaglione, granatieri e volteggiatori.... Rondaccie erano soldati eletti armati alla romana di spada e scudo detto rondaccia: in francese rondache, rondelle; e servivano di cortina alle compagnie ed a' battaglioni stando su la prima fronte della battaglia per riparare co' loro brocchieri le palle a tutta la linea. (cap. VI, 3)

«La moschetteria sola senza picche non può far corpo che vaglia a sostenere di piè fermo un urto.... nè le picche che la commettino »

Dal latino committere, investire: e sebbene negli eccellenti scrittori si trovi sempre committere proelium, pugnam, naumachiam, pure in Eutropio è posto in modo assoluto: parva manu cum copiosissimo hoste commisit (lib. 9. c. 24) ed equivale all'entamer l'ennemi de' francesi. (cap. VI, 3)

Hic miles trepidalem parmam habet, et in dextera hastas quibus eminus utitur; gladio hispaniensi est cinctus: quod si pede collato pugnandum est, translatis in laevam hastis, stringit gladium . ( Livio lib. 38, cap. 21). E quantunque i veliti fossero i più giovani e i meno esperimentati nell'esercito romano e servissero più alla zuffa che alla vittoria, troviamo che in occasioni ove l'evento stava ne' veliti, si sceglievano dal fiore delle legioni e si armavano alla leggiera come si fé contro Annibale sotto Capua. ( Livio lib. 26, cap. 4). Male da' moderni scrittori di guerra si confondono con gli altri antesignani sagittarii e frombolieri; poichè questi pugnavano secondo i lor nomi con frecce e con fionde, e i veliti soli con asta e spada. Nella nostra milizia questo nome come antico e romano è nobilitato, perchè il reggimento de' veliti ha la diritta de' granatieri e carabinieri della guardia reale, presidia il palazzo, ed è composto di giovani che contribuiscono una dote al reggimento. (cap. VI, 3)

Queste strade o distanze tra battaglione e battaglione, squadrone e squadrone, colonna e colonna sono indeterminate a' dì nostri; anzi sono alcuni che vorrebbero la linea piena, e fra gli altri Puiségur nella fanteria ( Arte della guerra c. 14. art. 3) e Federico di Prussia nella cavalleria ( Turpin de Crissé p. 167). Vince nondimeno il partito degli intervalli, e soprattutto per i cavalli, che se caricassero a squadroni uniti, la loro linea si sconcerterebbe sul primo galoppo. Se non che la norma delle distanze seconda l'ordine di battaglia che il terreno ed il nemico esigono. (cap. VI, 4)

«I moschettieri innanzi alle picche vi si pongono sotto con un ginocchio a terra, e danno fuoco».

Questo tirare col ginocchio a terra è vittoriosamente impugnato dal Guibert, fondatore con le sue teorie della moderna ordinanza; oggi pochi generali lo usano. E prima del Guibert era giá condannato da molti tattici, e segnatamente da Turpin de Crissé. La fanteria russa per ricaricare si prostra boccone a terra. (cap. VI, 4)

Fuoco tardo, incerto, pericoloso per noi che abbiamo la linea di tre soli ranghi; però il terzo avrebbe sparato innanzi che il primo potesse ricaricare. La linea nostra di battaglia essendo più estesa esige per avanzare che il fuoco sia generale e perpetuo, tanto più che non ci aiutiamo, quanto ai tempi dell'autore, dell'armi bianche: onde usiamo ne' battaglioni il fuoco di fila, di sezione, di plotone e di divisione; e nella linea in battaglia il fuoco di battaglione e talvolta di reggimento, sempre alternativamente; da' tedeschi è venuto anche il fuoco a volontà de' soldati detto di billebaude; ma io non l'ho mai veduto adottato se non ne' combattimenti delle montagne e delle imboscate, ove non potendosi schierare i battaglioni vanno a branchi come i bersaglieri, tirailleurs: nè so per quali esperienze il generale Turpin de Crissé lo anteponga in battaglia: le meilleur de tous les feux est celui que l'on nomme feu de billebaude; dans son exécution je pense qu'il n'y a que les deux derniers rangs qui doivent tirer et jamais le premier . ( Comment. sur Montec. liv. 1, chap. 2, not. bb). E gli enciclopedisti sono nella stessa sentenza, articl. f e u. (cap. VI, 4)

«La moschetteria si ordina a sei file d'altezza.... per tenere di continuo bersagliato e sotto il fuoco il nimico».

Il fucile è a noi picca e moschetto, nè la baionetta del terzo rango giunge a oltrepassare gl'intervalli del primo; però i nostri battaglioni in linea hanno il fondo di tre soli ranghi onde presentare al nemico una fronte estesissima, e non esporre al cannone una serie densa d'uomini. (cap. VI, 5)

L'autore intende d'un esercito attaccato nella sua posizione, e non attaccante. Le eminenze del terreno utilissime a chi si difende, sono di poco momento a chi s'avanza; ad ogni modo bisogna piantarvi de' cannoni. ( Turpin de Crissé ). Risposta: Le eminenze servono anche agli attaccanti; si sogliono occupare ad arte o a viva forza, anche quando si avanza, e nel calor della battaglia; così almeno appare da tutte le storie d'imprese militari. (cap. VII, 2)

«Lo studio principale si è di assicurare i fianchi della battaglia, avendosi per esperienza che rotte le ale della cavalleria, viene la fanteria attorniata...».

Je suis tres-étonné que Montecuccoli dise que lorsque les aîles de la cavalerie ont été rompues, l'infanterie est aisément enveloppée. Mais les aîles de la cavalerie rompues supposent que toute la cavalerie ne l'est pas . Turpin de Crissé . Risposta: Tutti gli antichi e i moderni, fra quali Puységur, chiamano ale la cavalleria tutta quanta che sta ne' fianchi; e quando anche secondo il solo generale Turpin le ale non fossero che le estremità delle ale, ove le estremità fossero sbaragliate, il resto della cavalleria sarebbe preso sicuramente ne' fianchi, e scompigliato da' proprii squadroni disordinati. (cap. VII, 3)

«Suolsi per ordinario disporre tutta la cavalleria in ordinanza falcata».

La versione francese, arranger la cavalerie en forme de croissant; onde abbiamo desunto falcata, poichè diciamo luna falcata quando tutta la sua circonferenza non appare illuminata. Del resto quest'ordinanza della cavalleria a mezza-luna non si trova nè presso gli antichi tattici, nè presso i moderni. (cap. VII, 4)

Sull’intervento conveniente di spazio tra gli squadroni (1), affinchè vi si possa maneggiare il plotone di moschettieri di 8 di fronte a 5 di fondo (2).

(1) Gustavo Adolfo di Svezia contemporaneo dell'autore poneva tra gli squadroni da 20 in 25 passi d'intervallo; Turpin de Crissé ne vorrebbe assai più: noi poniamo l'intervallo di un quarto dello squadrone: la distanza del Montecuccoli è ottima, perchè lascia liberi i movimenti degli squadroni senza allontanarli di troppo dal soccorso reciproco, eccita l'emulazione fra di loro nella carica, e possono dopo lo scontro riordinarsi più facilmente; il che sarebbe difficile a linea piena.

(2) Ordinanza usata felicemente dal Turenna ne' combattimenti di Sintzheim e di Ensheim contro gl'imperiali. Ma il maresciallo di Sassonia condanna questi branchi di fanteria tra gli spazi della cavalleria ( Rêveries, tom. I. lib. 1, o. 4). Il cavaliere Folard li prescrive nella sua colonna forti di 25 granatieri ciascheduno. ( Trait. de la colonne, tom. I). Guibert si ride di questa ordinanza ( Défense du systeme de guerre, chap. 1). Oggi è caduta in disuso, quantunque la troviamo celebrata presso a' Romani ed osservata fra gl'istituti militari degli antichi Germani. ( Tacit. Germ. c. 6). (cap. VII, 5)

Esempio di battaglia ordinata riferito alle armi di que' tempi; e quand'anche non ci fosse questa diversità, non può mai darsi ordine di battaglia che nella pratica s'assomigli ad un'altra, poichè variano sempre e il numero e la qualità de' soldati e le circostanze generali ed il terreno e le stagioni ed i minimi accidenti. L'arte della guerra ha come l'eloquenza molti retori che fissano le colonne d'Ercole nell'arte: ma i grandi oratori e i grandi guerrieri le oltrepassano sempre con ardire nuovo e mirabile. Ad ogni modo queste norme assegnate dall'autore sono eccellenti in tutti i casi ordinarii anche nella guerra moderna, purchè sieno accomodate alla differenza delle armi e delle ordinanze. Vedi il disegno di questa battaglia da noi desunto secondo le disposizioni del Montecuccoli: Tavola 1. (cap. VII, 6)

Era uso di tutti i popoli barbari di andare a battaglia con le mogli co' figli e con ogni cosa sacra famigliare; anzi gli antichi germani si schieravano ognuno con la propria moglie e i propri figliuoli vicini, acciocchè e delle femmine s'udissero gli ululati e i vagiti degli infanti, e questi erano testimoni santissimi alla prodezza e lodatori supremi; alle madri e alle mogli portavano le ferite e quelle nè numerarle temevano nè succhiarle, e cibo ed animo recavano a' combattenti . ( Tacito Germ. c. 7, 8). Erano le guerre de' barbari guerre di nazione e non di eserciti stipendiati e disciplinati. E pare che anche a' tempi dell'autore la milizia si raccogliesse ad ogni occasione di guerra da' feudatari, e che i vassalli traessero con sè i figliuoli e le mogli (vedi Comment. del Montecuccoli, lib. II. c. 2). Da che Luigi XIV e Federico diedero l'esempio di eserciti perpetui, i matrimoni de' soldati divennero più rari, e le ordinanze militari escludono le femmine, tranne quelle pochissime che hanno la patente di lavandaie o di vivandiere de' reggimenti. (cap. VII, 6)

«Dove sieno paludi e fossi, celali al nemico ponendovi su gli orli alcune schiere; assalite, si ritirino.... il nemico perseguendole darà ne' pantani.... e sarà pigliato senza difesa».

Il reggimento de' cacciatori reali italiani condotto da un colonnello che aveva più cuore che mente fu recentemente prova infelice di questa sentenza del Montecuccoli; e i cosacchi russi fecero macello d'uno squadrone inavvedutamente piantatosi nelle paludi, nella guerra contro i russi del 1807. (cap. VII, 7)

Questa chiamasi oggi battaglia d'assalto obbliquo, ed è il modo più usitato: se ne hanno esempi fra Greci e Romani; celebratissima è la battaglia di Leuttra vinta con questa ordinanza da Epaminonda; e Federico con forze ineguali lasciò nella vittoria di Leuthen una grande lezione a' capitani sul modo di ordinare l'assalto obbliquo. È da notarsi che anche a Leuthen v'era un villaggio che per non essere stato incendiato costò gran sangue agli Austriaci che lo difendevano ed ai Prussiani che non lo invasero se non dopo molti assalti. (Vedi Guibert, Eloge du Roi de Prusse e il Mémorial du Depôt de la guerre , ove si trova una descrizione esattissima di questa battaglia). (cap. VII, 7)

Ordinanza de' Romani; così i veliti si ritiravano per gli intervalli della prima linea dopo aver incominciata la zuffa, lasciando il termine della vittoria agli astati. Noi abbiamo restituiti i bersaglieri, tirailleurs, con pari intento, ma non con pari evento. (cap. VII, 7)

«La disciplina è sopra tutte cose necessaria al soldato».

Disciplina maiorum rempublicam tenet, quae si dilabatur, et nomen romanum et imperium amittemus : così Lampridio nella vita di Alessandro Severo fu verace profeta, poichè la ruina dell'impero romano è da tutti i politici ascritta alla ruina della disciplina militare incominciata dalle prodigalità appunto di Severo. (Vedi Montesquieu, Grandezza e decadenza dei Rom. cap. XVI). Così Silla distrusse la libertà distruggendo la disciplina militare, e dopo la morte di lui i suoi soldati servivano di mezzo alla tirannide: Catilina confisus quod plerique Sullani milites, largins suo usi, rapinarum et victoriae veteris memores civile bellum exoptabant, opprimundae reipublicae consilium coepit . ( Sallust. Cat. 16). La vera disciplina ha per fondamenti le virtù e la giustizia del governo e la dignità del soldato; oggi invece in certi governi chiamasi disciplina il terrore e la pedanteria. (cap. VIII, 1)

«Ottimo istituto è quello che le promozioni non si facciano se non per gradi e in ricompensa di azioni straordinarie».

L'autore qui non parla d'anzianità, e giustamente; perchè l'anzianità presume esperienza e non ingegno. Ma d'altra parte l'ingegno e il merito sono spesso giudicati dalle passioni de' mortali. Nè i principi possono tutto vedere nè punir sempre nè premiare come vorrebbero. Marc’Aurelio pregava il cielo perché non lo forzasse a fare ingiustizia; ed i benemeriti soldati devono, anche servendo ottimi principi, rassegnarsi spesso a soffrire pazientemente l’ingiustizia: coraggio degno dell’uomo e necessario. (cap. VIII, 1)

«Le spie del nemico colte che siano s'impiccano».

S’impiccano dopo un esame e un giudizio del consiglio di guerra. Nella campagna del 1806 un principe di casa d’Austria fe' impiccare tre uomini dabbene a Vicenza che non erano altrimenti spie, che avevano passaporti e giustificazioni e mallevadori, ma che non furono nè ascoltati nè esaminati nè giudicati: bastò l’accusa d’un branco di soldati briachi che condussero i tre infelici come spie alla presenza del generale esacerbato dalla cattiva fortuna. (cap. VIII, 3)

Oggi co' carri di piazza inventati dal Gribeauval, oltre alla utilità della direzione in tempo di notte e di poter mirare a una maggiore porzione di cerchio, si preservano le batterie perchè il pezzo tira di sopra dal parapetto. (cap. IX, 2)

Le artiglierie di cui discorre l'autore furono riformate sull’esempio della Francia sino dal 1733, e dopo varie altre riforme ei sono credute perfezionate nel 1776: vedi l'ordinanza 6 giugno di quell'anno; dopo la quale non pare che siensi fatte innovazioni di grande momento; perchè que' che per risparmio di metallo e per facilità di trasporto e di maneggio attenuarono i pezzi in questi ultimi anni, hanno dovuto, atteso il rinculo de' pezzi leggieri, rinforzare i carri ed i letti e dare ad essi il peso che scemavano a' cannoni; nè l'erario risparmia, perchè sì fatte artiglierie sono di poca durata. (cap. IX, 2)

«Quanto alla materia dei cannoni, se ne fa di cuoio, di ferro, di metallo: [lega] di rame, stagno, bronzo».

Non si fanno più cannoni di cuoio, bensì di ferro fuso per la marina e per le coste, sì per avere abbondanza di materia che per economia. I cannoni delle piazze e d'assedio e di campagna sono generalmente di bronzo composto di cento parti di rame in torte e di undici di stagno. Eccellenti sarebbero e per la leggerezza e per la durata in campagna i pezzi di ferro battuto, ma sono di lavoro difficilissimo e d’enorme spesa. (cap. IX, 3)

«Assai decreti si fecero circa i pistori, i vivandieri e i mercanti; tutto sta a farli osservare».

Tutto sta a poter farli osservare: ho veduto forieri, commissari ed altri dividere il furto fatto allo stato ed al benemerito soldato; ho veduto patire di fame la città assediata e l'esercito, mentre chi lo amministrava faceva monopolio di grani: ho veduto un generale che punì palesemente le fraudi di un munizioniere essere poi celatamente perseguitato da più potenti: è facile vedere, conoscere e decretare, ma difficile l'estirpare. (cap. X, 3)

«Distribuisci [i viveri ecc.] con ordine, norma e parsimonia.... chi non è economo nell'abbondanza, sarà poi forzato ad accrescere la penuria con tarda ed avara economia».

Sera parsimonia est tum servare cum defecit . ( Veget: lib. 3. c. 3). Ma con quanto minore aculeo, e con quanto più nerbo questo precetto viene espresso dall'autore! (cap. X, 3)

Lungo sarebbe a riferire le nostre ordinanze sul bagaglio, ed inutile perchè cangiano e cangeranno aeterno percitae motu. Noteremo solo che ogni reggimento ha giumenti e bagaglioni e carra meno di quante n'aveva una compagnia a' tempi dell'autore: non ronzini, perchè gli ufficiali di fanteria vanno sempre a piedi, tranne i pochissimi attempati; non artefici, perchè gli operai sono tratti da' soldati, eccettuati i capi-mastri d'ogni mestiere; non tende, perchè in campagna i soldati dormono a cielo aperto, talvolta sopra la neve, spesso sotto la pioggia; non equipaggi, perchè sino ad ora i nostri generali menano alla guerra vita modesta. Percorrendo la storia moderna si troverà che la milizia francese decadeva sotto Luigi XV e Luigi XVI, perchè i generali andavano a guerreggiare come i satrapi persiani; e le rotte di Dario e di Pompeo hanno ad ascriversi anche al lusso degli eserciti vinti. Gli Alemanni, e più gli Austriaci, ebbero sempre assai torme di valetti ed impedimenti di carra, tende, ronzini. Federigo non potendo abolirli, perchè anche i principi assoluti sono frenati dagli usi della loro nazione, li sottopose a leggi severe e invariabili, e a numero determinato onde poter calcolarne esattamente i danni e provvedervi. Gli Austriaci in Italia nel 1796 per salvare il bagaglio perdevano le battaglie ritardando le operazioni: in quelle cinque campagne i Francesi trovarono il segreto dell'arte della guerra operato da Cesare e annunziato dal maresciallo di Sassonia: Il segreto dell'arte sta nelle gambe. D'altra parte essendosi a' dì nostri moltiplicate le artiglierie, l'erario non potrebbe soddisfare a tanta spesa senza dare a' cannoni gli uomini, i carri e i cavalli che prima si concedeano a' bagagli. Ma a' vantaggi del guerreggiare senza tende e con disagi straordinari può moversi questa questione: Durava egli più vigoroso un esercito a' tempi del Montecuccoli o a' dì nostri? Al che ei può rispondere: Che oggi si consuma in poco tempo la forza fisica degli uomini che prima consumavasi più lentamente; ma che il risultato è maggiore, perchè con pari consumo di forze si fa imprese più grandi e in minor tempo. Ottimo calcolo, se la natura riproducesse gli uomini con pari celerità, con cui oggi la guerra e talor anche la vittoria li distruggono. L'età giovanile del soldato precipita alla vecchiaia senza passare per la virilità; e i regni s'ingrandiscono rapidamente spopolandosi della porzione più atta alla propagazione. (cap. XI)

«È il danaro quello spirito universale che per tutto infondendosi è l'anima e il cuore; è virtualmente ogni cosa.... Qual meraviglia dunque se.... richiesto taluno delle cose necessarie alla guerra, egli rispondesse: danaro, danaro, danaro ».

Immensam pecuniam ferro validiorem . ( Svetonio Paolino, presso Tacito, Hist., lib. 2). E Muciano presso lo stesso autore: Sed nihil aeque fatigabat quam pecuniarum conquisitio; eas esse belli civilis nervos dictitans Mucianus ( Hist. 2, 84) ammaestrati da Cesare che aveva per la guerra partica coacervato gran tesoro, trovato da Antonio dopo la sua morte, e profuso alla plebe per armarla a guerra civile contro la libertà della patria. Ma quanto alle guerre esterne, Solone e Macchiavelli sono in sentenza contraria al Montecuccoli: il primo disse a Creso che gli mostrava i suoi tesori; La guerra si fa col ferro non coll’oro : ed il nostro politico aggiunge; Dico pertanto non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati; perchè l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono ben sufficienti a trovar l’oro . (Vedi tutto il discorso sopra Livio, lib. 2, c. 10). Queste due opinioni opposte sono conciliate presso Senofonte nell'egregio discorso di Ciro a Ciassare su la necessità e sull'uso del danaro in guerra, e su' modi di procacciarlo. ( Ciroped. lib. 2). (cap. XII, 1)

Neque quies gentium sine armis, neque arma sine stipendiis, neque stipendia sine tributis haberi queunt ( Tacit., Stor. lib. 4, 74).

« Nelle esazioni delle tasse si abbia discrezione e modi onesti, perchè è cosa dura voler trarre donde non si può, e più dura l'esacerbare l'oppressione con le ingiurie: così i popoli talvolta si sollevano, e le più volte abbandonano le terre e le lasciano spopolate; ed in questo secondo male la rovina procede lenta e secreta, ma senza rimedj : sentenza di Nicolò Macchiavelli comentata come tante altre dal Montesquieu: Un peuple peut aisément souffrir qu'on exige de lui de nouveaux tributs, mais quand on lui fait un affront, il ne sent que son malheur, et il y ajoute l'idée de tous les maux qui sont possibles . ( Grand. e décad. des Rom., c. 1). (cap. XII, 2)

Je fais savamment mon devoir dans l'occasion; mais souvenez-vous que je ne dispose pas de la fortune, et que je suis obligé d'admettre trop de casuel dans mes projets : lettera di Federigo di Prussia al marchese d'Argens. Or va a credere alle sue Memorie, ov'ei ti vuole persuadere che con la forza della sua scienza militare costringea gli eventi a riuscirgli propizi. Nè questo è il solo fra' capitani ingrati alla dea Fortuna. (cap. XIII, 1)

«I falli che si commettono da' magistrati supremi nell’ordinare, difficilmente possono dagl’inferiori nell’eseguire emendarsi, a' quali sovente tocca a portare le iniquità di chi peccò ne' principj, e David pregava Dio a liberarlo da peccati altrui ».

I principi che guerreggiano sedendo in corte sono gelosi della fama de' capitani, e i ministri della loro fortuna. Il monarca e il consiglio decretando un piano, comandano al capitano di eseguirlo, senza considerare che chi guarda da lontano vede tutto, non ogni cosa, e che l'occasione giunge e fugge velocissima. In sì fatta condizione dei tempi e di guerre viveva l'autore; se ne duole in questo paragrafo: e quanto ei fosse invidiato ed attraversato nelle sue imprese appare dal nostro supplemento alla nota 1 nell'Elogio, pagina xxxviii. Questa ignavia de' principi, quest'invidia delle corti, queste catene al genio de' capitani fecero rovinare la forza e la gloria di molti stati. La Spagna salì al sommo della possanza sotto Carlo V, la Svezia sotto Gustavo Adolfo, la Francia sotto Luigi XIV, la Russia sotto Pietro, la Prussia sotto Federico, perchè questi principi governavano le schiere non dalle lascivie della regia ma dal trono eretto sotto una tenda. Uno de' fonti della romana grandezza fu l’illimitato potere de' consoli in guerra: e le moderne repubbliche caddero invendicate perchè per sospetto di dar mezzi di tirannide a' lor capitani elessero di perire disarmate. Ma nelle monarchie ove i re stanno in ozio, i capitani sono sempre in pericolo; perchè la loro virtù è fomento alla persecuzione e alle cabale. Il segretario Louvois malignava tutte le imprese del Turenna; ed il cardinale Mazzarino facea pratiche acciocchè questo generale si spogliasse della propria gloria per la vittoria di Dunkerque e la ascrivesse alla sapienza guerriera di Sua Eminenza ( Hist. de Turenne lib. 4, an. 1658). Ed è forse acconcio a questo luogo uno squarcio memorabile di Montesquieu ( Spirito delle leggi lib. 3, c. 5). «Leggi ciò che gli storici d'ogni secolo scrissero su le corti de' monarchi; rammentati de' discorsi degli uomini d'ogni paese su lo sciagurato carattere de' cortigiani: non sono sentenze di pura speculazione, ma d'infelice esperienza. L'ambizione nell'ozio, la bassezza nell'orgoglio, l'odio della verità, la sete d'arricchire scioperando, l'adulazione, il tradimento, la perfidia, spergiurar le promesse, vilipendere i doveri di cittadino, temere delle virtù e sperar nelle debolezze del principe, e più che altro il ridicolo perpetuamente sparso su la virtù, ecco i caratteri del maggior numero de' cortigiani di tutti i luoghi e di tutte le età». (cap. XIII, 2)

«Se la forza principale che si ha consiste in cavalleria, si cerchino pianure e campagne larghe ed aperte; ma luoghi montuosi stretti ed impediti s’egli confida più nella fanteria».

Leggi La campagna del duca di Roano nella Valtellina: medita quel libro che contiene 216 pagine d'oro: percorri la Valtellina con quel comentario alla mano; esamina i luoghi, disegna le posizioni; e se hai mente militare imparerai la guerra delle montagne; guerra ardua, piena di pazienza, di consigli e di stratagemmi praticata felicemente da' Romani e da' Greci con pochi armati contro migliaia di barbari. La natura diede all’Italia monti, gioghi, valli interrotte da fiumi, e stretti in(n)accessibili; diede agl’Italiani corpo sofferente, anima ostinata ed ingegno acuto. Mancano le istituzioni e gli studi guerrieri, colpa sino ad ora de' principi; ma se avendo le istituzioni mancherà l'amore di patria, le nostre sciagure saranno colpa nostra e nostra infamia. (cap. XIII, 3)

Il Montecuccoli con eserciti deboli combattè contro più forti, e quasi sempre in guerre disperate; onde e l'ingegno e la fortuna lo traevano ad imitare Fabio e ad onorarlo: chiudendo il primo libro de' Commentari si giustifica con l'esempio di quell’illustre, e lo loda in un altro luogo del libro secondo. Del rimanente sì l'autore che i suoi traduttori ed interpreti credono a torto che Fabio si fosse acquistato il cognome di massimo: lo aveva ereditato da un suo maggiore, insignito di questo titolo dal popolo romano per le discordie civili da lui calmate ottantasette anni prima della guerra del nostro Fabio prodittatore contro Annibale. ( Livio lib. ix, capo ultimo: e il Discorso del Machiavelli in accordo con quel passo, lib. III, c. 19). Si trovano altri Fabii Massimi di poca virtù anche a' tempi della tirannide de' primi Cesari. (cap. XIII, 3)

«Confidarsi più al consiglio che al caso (1): non curar de' cicalecci del volgo (2)».

(1) Due volte il Turenna fu rotto; a Mariendal ed a Rhetel: voleano alcuni, capitani disputando con lui convincerlo ch’egli avea in quelle giornate infelici guerreggiato con più sapienza che in tante altre battaglie da lui riportate: «No, rispose egli, che anzi ebbi io la colpa di quelle sconfitte: chi dice di non aver errato in guerra mi persuade che ha pochissimo guerreggiato». ( Elogio del Turenna di S. Evremont ).

(2) Il volgo della corte imperiale malignava il Montecuccoli, come il volgo de' Romani mordeva gli indugi di Fabio: «Un solo metodo di guerra devesi usar contro Annibale; e ve lo insegna oggi l'evento: ma l'evento è maestro degli stolti; bensì la ragione di questo metodo da me usata fu, ed è, e sarà immutabile finchè non si muteranno le cose». Consiglio di Fabio al consolo Emilio; i Romani nol seguirono, e furono trucidati a Canne. ( Liv. lib. XXII, c. 39). (cap. XIII, 3)

Leggi in Livio l'orazione di Scipione piena di sapienza e d’ardire con che risponde a Fabio Massimo che sconfortava i Romani da quella impresa. (Lib. 28, cap. 43-44). (c. XIII, 5)

Era politica de' Romani di aggregare alla cittadinanza i popoli vinti, o almeno di farseli alleati: e perchè in questo secondo caso non poteano avere aiuti certi ed assoluta obbedienza, fomentavano di soppiatto contro se stessi la slealtà de' confederati per avere occasione di soggiogarli. Ma nelle vittorie d'Annibale in Italia questa politica riuscì quasi mortale a Roma, perchè oltre alle forze de' popoli che li abbandonavano, i Romani aveano a combattere co' Cartaginesi che si rinforzavano con le armi italiane. Scipione usò in Africa delle arti di Annibale e delle dissensioni provinciali, e trasse molti principi africani a tradire Cartagine per favorire la repubblica romana. (c. XIII, 5)

La legazione che Asdrubale consiglia a Siface verso Scipione è piena di eloquenza e di magnanimità: Si non abstineat Africa Scipio et Carthagini exercitum admoveat, sibi (Siphaci) necessarium fore et pro terra Africa in qua ipse genitus, et pro patria conjugis suae, proque parente ac penatibus dimicare . Liv. 1. XXIX. c. 23. (c. XIII, 5)

«Se nella provincia che si vuole affrontare vi è guerra intestina e fazioni, farsi chiamare dall'una delle parti».

Considera con questo assioma le prime campagne di Bonaparte in Italia, e segnatamente le battaglie da lui date contro le armi del Piemonte. (c. XIII, 7)

Arte perpetua de' Romani; le colonie purgavano Roma dalla feccia ed imbastardivano il coraggio ed i caratteri de' popoli conquistati. (c. XVII, 7)

«acquistarsi l’affezione degli abitanti, imponendo presidj e colonie».

Arte perpetua de' Romani; le colonie purgavano Roma dalla feccia ed imbastardivano il coraggio ed i caratteri de' popoli conquistati. (c. XVII, 7)

Quantunque la volgata e le versioni concordino in tutto quasi col testo ms. di questo capo XIV, io non credo che sia stato lasciato sì breve e sì incompleto dall'autore. L’ultimo membretto che non si trova se non nel ms. basta alla congettura. Come mai uno scrittore sì ordinato e, malgrado la sua grandissima brevità, sì accurato ne' precetti parziali avrà trasandate le ricognizioni topografiche, gli accorgimenti nelle occasioni della guerra, gli stratagemmi e le scoperte, lo studio delle forze morali degli eserciti, e tutto ciò che spetta propriamente alla disposizione particolare, la quale dipende tutta dal capitano, siccome l'universale dipende in gran parte dal governo? (cap. XIV)

«Non rattristarti nè pentirti del fatto ancorchè mal riuscito, quando (...) e quando tu trovassi che se l'impresa fosse a rifarsi terresti di bel nuovo il modo di prima, ogni volta che le circostanze fossero in tutto pari alle prime».

La sapienza stoica lasciò una mirabile massima per tutti i casi della vita ne' quali la fortuna si oppone alla prudenza: «L’ignorante accusa gli altri delle proprie sciagure; chi comincia a istruirsi accusa se stesso; il savio non accusa nè sè, nè gli altri». Epitteto, cap. 10. (cap. XV, 1)

«Le prime truppe abbiano ordine d’investire a testa bassa tutto ciò che incontrano».

La ragione di questo precetto è fondata sul cuore dell'uomo. Fra due partite nemiche che s'incontrino di notte inopinatamente, la meno atterrita e sorpresa caccerà e sbaragliera l'altra. Così il re di Prussia si salvò a Lignitz, ov’ei pigliò a un tratto il partito di assalire il nemico che gli si parò innanzi inaspettato. Presso gli antichi e segnatamente in Omero e ne' tragici greci la prima lode militare spettava a quelli che combatteano di notte e in aguato. L'uomo è men coraggioso quanto meno può misurare i pericoli: l'ignoranza delle cose ci fa diffidenti; quindi la perplessità, i terrori panici e le superstizioni. (c. XVI, 2)

«.... le artiglierie leggiere, precedute da certo stromento a guisa di vomere che segna la carreggiata per la strada da tenersi....».

Non bisognava traccia di vomere, poichè la carreggiata del primo pezzo segna il cammino; bensì pare che questo ordigno scandagliasse il terreno, perchè se era molle e melmoso le artiglierie vi si sarebbero piantate. Ed oggi pure fuor delle strade maestre si scandagliano i luoghi fangosi e si rassodano, badando che molte ruote non passino su la stessa carreggiata. (c. XVI, 3)

«Coprasi un fianco della marcia con fiumi, argini, monti; e se la natura non t’è propizia, giovati dell'arte».

Dato un corpo d’esercito o una divisione di 8 in 10 mila soldati con sua cavalleria, artiglierie e bagagli quale è a' dì nostri, si suole tenere marciando non lungi dal nemico una di queste due regole. Prima: se tutta la fronte deve avanzare, se ne fa quante più colonne si può, con la cavalleria su' fianchi ed i fanti in mezzo; ogni colonna della seconda linea segue da presso una della prima, acciocchè le due linee possano spiegarsi ad un tempo stesso e con la stessa ordinanza. Seconda regola è che se il nemico è a destra, l'esercito rompe per la sinistra; e se il nemico è a sinistra, rompe per la destra e s'incammina: ogni linea forma una colonna a parte e serba quanto può l'ordine di battaglia prestabilito; così un solo quarto di conversione per divisioni o plotoni pone le linee nel lor ordine naturale di battaglia onde rispingere o assalire i nemici. (c. XVI, 3)

Gl’insegnamenti di questo capo s’hanno ad applicare non ad un esercito di grandi masse, ma quale era a que' tempi di 20 in 30000 uomini. Poco più dissero quanto a' cannoni i tattici posteriori; bensì somministrano assai pratiche particolari omesse dall'autore, o derivate dai cangiamenti dell'arte. (Vedi Puiségur; le Memorie del marchese di Santa Croce spagnuolo; le teorie di Fenquieres applicate alle marcie del Turenna, del Montecuccoli e d'altri capitani moderni). Anche il generale Turpin ne tratta ex professo nel suo Essai de l'art de la guerre tom. 1. cap. 2. Ma l'utilissimo fra' libri su le marcie è quello del re Federico: Maximes pour la grande guerre écrites de main de maître. Aggiungi la Relazione della battaglia di Marengo ove troverai come le campagne di Napoleone in Italia furono tutte vittoriose per le marcie fatte con rapidità, con sapienza e con risoluzione. (cap. XVI, 4)

Le dimensioni sugli accampamenti sono presso di noi determinate da un regolamento apposito del ministro della guerra. E l'Enciclopedia, che sovente lascia desiderare assai cose e più nell'arte militare, somministra nondimeno all'articolo Camps molti dotti ed utili insegnamenti sopra la storia, le discipline e le particolarità tutte dell'accampare. (cap. XVII, 3)

Oggi parola d'ordine, dal francese mot d'ordre: i nostri antichi dicevano il santo, perchè soleasi dare ogni notte alle guardie dal lor capitano il nome di un santo: forse a' tempi dell'autore si usava un nome qualunque: presso a' latini dicevasi signum, ed assegnavalo ogni sera l'imperatore al tribuno di guardia; Primo imperii die signum excubanti tribuno dedit optima mater ( Sveton. 1. vi ). Quanto alle discipline dí questo uso di guerra presso di noi vedi il Manuale degli Aiutanti Generali. (cap. XVII, 3)

«Ristorerai i soldati dalle fatiche della campagna....».

L’autore non discorre de' campi di pace, ignoti forse a' suoi giorni, e venuti in uso con gli eserciti perpetui. Federico se ne valse egregiamente, perfezionandoli. Sono ottima scuola alla mente dell’ufficiale ed al corpo del soldato; la disciplina e gli esercizi vi s’insegnano più che alla guerra, dove si opera molto e si osserva pochissimo. L’imperadore de' francesi accampando per tre anni i suoi eserciti su le coste dell'oceano tra Montreuil ed Ostenda li agguerrì per le campagne felicemente e rapidamente fatte contro l'Austria, la Prussia e la Russia. Nelle pianure di Montechiaro non lontane da Brescia si sta preparando un campo di pace per la nostra milizia. (c. XVII, 4)

«Se le fortezze sieno utili o no, fu problema politico».

Primo fra' politici il Macchiavelli disputò vigorosamente contro le fortezze dimostrandole inutili verso a' nemici e dannose verso a' sudditi. ( Discorsi, lib. 2. cap. 24). E fra' capitani il maresciallo Turenna diceva, «che s’ha a fidare più nel valore de' soldati che nella resistenza delle fortezze; a chi è padrone della campagna un villaggio solo serve di fortezza; e che se il re di Spagna avesse dati agli eserciti gli uomini e l’oro spesi per assediare e fabbricar, piazze sarebbe stato il più possente de' principi». (Elogio del Turenna scritto da Saint-Evremont). Le guerre recenti bastano a giustificare l'opinione del Macchiavelli e del Turenna. Quanto alle fortezze per tenere in freno le proprie città a' principi, gioverà la sentenza del Macchiavelli: «La migliore fortezza che sia, è non essere odiato da' popoli» ( Principe, c. xx ); e Giuseppe II fece demolire molte piazze forti nel Brabante e negli stati ereditari d’Italia. Chi più desiderasse su questo problema vegga l’opera egregia del signore di Bousmard che ne tratta da maestro, quantunque non senza la passione dell’arte ( Essai général de fortification et attaque et défense des places, discours préliminaire ). (c. XVIII, 2)

«Sieno le fortezze poche e buone situate alle frontiere, ai passi, ai porti di mare ed a' luoghi di residenza».

Le fortezze a' confini denno per sentenza degli ingegneri oderni essere disposte in modo da aiutarsi reciprocamente. Per luoghi di residenza l'autore intende le metropoli, ed anche dopo que' giorni Torino e Vienna sostennero lunghi assedi; così Parigi in tempi più antichi. Ma il sistema politico cangiò il sistema di guerra. I principi per avere in devozione tutte le provincie riducono in corte e nella metropoli tutti i grandi possidenti dello stato; e la popolazione si accresce pel concorso delle arti e del commercio, che seguono sempre le ricchezze ed il lusso. Quindi la fortificazione di un recinto molto esteso riesce difficile, e più difficile la difesa. Aggiungi che, presa la capitale, tutte le altre parti dello stato rimangono senza consiglio e senza vigore. Ne' passati secoli i re fortificavano i luoghi di lor residenza perchè aveano a temere de' loro stessi vassalli feudatari; erano più validi i mezzi di difesa che d'attacco; e la perdita di una fortezza consideravasi come oggi si considera una sconfitta campale. (c. XVIII, 3)

«Le fortezze sieno comode al commercio per ricevere aiuti, e per godere buon aere, acqua pura e campi fertili».

Ogni ragione deve cedere alla ragione della difesa, onde oggi è quasi impossibile che il clima delle fortezze sia quale il Montecuccoli esige. Le piazze sono o in luoghi paludosi come Mantova, e quindi mal sane per l’allagazione delle acque che la difendono; o in luoghi scabri e montuosi come la rocca d'Anfo, e però in terra poco fertile e circondata da strade incomode al commercio. (c. XVIII, 3)

«Le cittadelle si fanno alle piazze conquistate.... ai luoghi di frontiera.... alle città troppo vaste e però inette ad essere con fortificazioni recinte».

Le cittadelle sono per sito e per fabbrica sempre più forti della piazza, non solo perchè, presa la piazza, resti un luogo valido alla ritirata del presidio onde arrendersi onorevolmente, ma molto più perchè l'assediante rivolgerebbe tutto l'attacco contro la cittadella e dominerebbe quindi col suo cannone la città intera. Alle volte si separa dalla cinta magistrale uno o più baloardi trincierandoli alla gola per mezzo di fossi profondi e di opere bastionate, le quali si coronano di strade coperte con piazze d'armi e spianata, contro le sorprese nemiche e i tumulti popolari. (c. XVIII, 3)

«Quanti più bastioni ha la piazza, tanto ella è più forte».

Ove abbiasi gran nerbo di presidio ed abbondanza di munizioni, la forza della piazza cresce col numero de' bastioni, perchè si estende la resistenza. Ma essendo il vantaggio della estensione soggetto ai mezzi di difesa, si corre l’inconveniente nelle piazze vaste per molti bastioni di chiudervi un esercito che riescitebbe più utile in campo aperto. Aggiungi che la misura della forza delle piazze è la maggiore o minor resistenza ch’elle possono fare. Or l’attacco si fa sempre contro un bastione o due mezze-lune, o sopra una mezza luna e due bastioni; qualunque siane il numero; onde il vigore degli attacchi è proporzionato alla forza del presidio, al valore del comandante, alla buona disposizione delle opere più che al numero de' bastioni. Che se s'avesse a fortificare una piazza, non si potrebbe valersi della massima dell'autore, poichè essendo data l'area ed il perimetro, anche il numero de' bastioni verrebbe ad essere prestabilito. Bensì potrà essere utilissima quella piazza che, quantunque con pochi bastioni, sia difesa per ostacoli inaccessibili da più parti, come roccie, stagni profondi, fiumi rapidi etc. e non porga all'assediante se non un piccolo spazio da accostarsele munito di buone fortificazioni; Mantova, e Gibilterra assai più, fanno fede contro l'autore; si vede in esse non essere sempre vero che quanto è maggiore il numero de' bastioni, tanto la piazza è più forte. (c. XVIII, 4).

«L'angolo del bastione non sia meno di 60 nè più di 90 gradi».

Tanto altre volte questo aforismo era rispettato che non si ardiva oltrepassare i 90 gradi neppure ne' bastioni piani, onde lasciare quanto più grande poteasi il secondo fianco. Ma oggi prevalgono gli angoli oltre i 90 gradi da che l'esperienza mostrò che più ottusi hanno maggiori vantaggi. (c. XVIII, 4)

«L'angolo del fianco e della cortina sia retto».

Massima cangiata: l’angolo formato dal fianco e dalla cortina suole costruirsi ottuso; ecco il metodo moderno. Sul mezzo di un lato di 180 tese, le di cui estremità fissino i saglienti di due bastioni, si elevi una perpendicolare eguale ad un ottavo del lato, se si tratti di un quadrato; ad un settimo, se d'un pentagono; ad un sesto, se d'altro poligono; da questi saglienti si tirino le due linee di difesa che s’incrocino sull’estremo della perpendicolare: sovr’esse si fissino le faccie de' bastioni di 50 in 60 tese terminate dagli angoli di spalla; per i vertici di questi angoli si conducano fino all’altra difesa due archi centrati ciascheduno nel vertice del sagliente opposto; le corde degli archi saranno i fianchi, e la linea che gli unisce sarà la cortina: il che ripetuto sopra ciaschedun lato del poligono chiuderà la linea magistrale. (c. XVIII, 4)

«Gli angoli della tenaglia sieno esclusi dalla fortificazione».

Noi chiamiamo angolo di tenaglia quello formato dalle due linee di difesa dinanzi alla cortina, e non è altrimenti proscritto dalle fortificazioni. Se non che forse l’autore intende per angolo di tenaglia il nostro angolo morto, poichè le parole tenaglia e forbice erano un secolo addietro usurpate dagl’ingegneri per figure formate di rette intersecanti o spezzate. (c. XVIII, 4)

Tutti quasi gli autori moderni prescrivono le dimensioni della lunghezza del fosso magistrale senza assegnarne ragione. Questa del Montecuccoli è bella e naturale e merita d'essere osservata, segnatamente nelle fortificazioni di campagna: l'altezza d'un uomo impedisce che il soldato nemico non entri o sorta agevolmente dal fosso asciutto, o non possa guadarlo se è allagato; e la lunghezza di una grande arbore vieta che si trovi facilmente legnami atti a traversarlo. (c. XVIII, 4)

S'è abbandonata la falsa braga da' moderni perchè agevola la scalata, rende men erta la breccia, e somministra all’assediante quasi una piazza d’arme all'attacco: e i difensori sono molestati dalle bombe e dalle scaglie della muraglia difesa quand'è battuta dal cannone; però si sono sostituite le tenaglie e i coprifaccia. ( c. XVIII, 4)

«restano in controversia: la linea di difesa deve ragguagliarsi al tiro del cannone o del moschetto? (1) (....). I bastioni (....) con casematte o senza?» (2).

(1) La questione è decisa, e la linea di difesa si ragguaglia al tiro del moschetto, perchè questa linea ammette il fucile ma non esclude il cannone; si può sempre difendersi col fucile, non sempre con l'artiglierie; anzi la difesa del fucile è più pronta e più facile. Vedi Saint Paul, Bousmard e tutti i moderni. Notisi che, questa linea fissata, molte altre vengono determinate.

(2) I fianchi con casematte sono omai in poca stima, segnatamente presso i Francesi, quantunque Vauban ne abbia usato (tra gli altri luoghi a Niew-Brissak) e prima di lui il Sanmicheli ed altri italiani, per nostra incuria non abbastanza stimati, i quali seppero costruire le casematte evitandone gl’inconvenienti, e specialmente quello del fumo. Vive in Bergamo la prova del nostro parere: quelle fortificazioni, appunto del Sanmicheli, che per la loro fortunata oscurità ed inutilità furono preservate dalla rovina che trasse nell’obblio tanti egregi monumenti dell’architettura militare italiana, le fortificazioni di Bergamo serbano esempi degni d'osservazione; donde forse apparirà che le casematte meritano più d'essere corrette che proscritte. (c. XVIII, 6)

Testimonio la fortezza di Grave che nuda da un lato di mura nè coperta se non se di opera di terra resisteva lungamente, nè s'arrese agli alleati se non per comando espresso di Luigi XIV, che nel 1675; e a' dì nostri Ancona, Genova, Gavi, Gaeta, Colberg sono esempi di vigorose difese.

Quest'era usanza santificata nel secolo scorso; il capitano de' Marchi e il conte di Pagan la sostenevano; gli Ollandesi a' dì nostri ed alcuni Germani continuano ad alzare molti fianchi: i Francesi li hanno quasi al tutto proscritti. (c. XVIII, 6)

Ottimamente l'autore aspettava confermata dagli esperimenti l'utilità dell'invenzione: non ebbe felice riuscita; rari ne sono gli esempi ne' secoli passati, e niuno oggi copre il fianco e protegge quindi i lavori della controbatteria assediante, che con pochi colpi torna a scoprirlo e ad atterrarlo. Questa invenzione non meritava difesa da tant’uomo. (c. XVIII, 6)

L’autore desunse molti di questi stratagemmi dalla propria esperienza, e molti dagli scrittori, specialmente da Enea «Tattico», comment. De insidiis, de custodia portarum, de obsidione, de signis. Il conte Turpin cita a questo luogo assai fatti di guerra; noi ci contenteremo di osservare che gli stratagemmi, ove si possano insegnare, si palesano; e palesati, riescono vani. Tristo l'uomo di guerra che per offendere non sa immaginarne de' nuovi, o che per difendersi non sa guardarsi dai vecchi. (cap. XIX, 2)

Le linee di circonvallazione e controvallazione si trovano ne' libri delle memorie più antiche ( Liv., 1. XXVIII, 4). Oggi la circonvallazione si pone raramente in uso, perchè l'assediante allontana prima il nemico ed occupa grande circonferenza del territorio intorno alla piazza. (c. XIX, 5)

Da Vauban in poi il metodo degli attacchi è cangiato. La trincea si apre fuori del tiro del cannone; si stabiliscono tre linee o piazze d'armi parallele alle fortificazioni, che circonvallano tutta la fronte attaccata e le due mezze fronti d'ambedue i lati. Dinanzi alla prima linea piantansi le batterie, tese circa 300 lungi dalla strada coperta; si collocano sul lineamento delle facce de' bastioni e delle mezzelune attaccate, e tirano di ribalzo per imboccarle, rovinare le difese, disanimare i difensori e proteggere gli attacchi. Gli approcci si diriggono sempre fuori delle fortificazioni perchè non sieno imboccati, e si fiancheggiano con rialti, con ridotti e con fortini. La terza parallela cade a piè dello spalto; dinanzi a questa s’innalzano i cavalieri di trincea che circondano i saglienti della strada coperta, ne vedono i rami, gl'imboccano, ne scacciano i difensori agevolando l'attacco. (cap. XIX, 5)

I lavori tutti presentemente si fanno dalle compagnie de zappatori, minatori ecc. istituiti a ciò. Gli ufficiali ingegneri e i corpi a loro attinenti non erano a' tempi dell'autore, perchè vennero stabiliti sotto Luigi XIV. Vero è che anche i nostri regolamenti assegnano a' zappatori ed altri soldati lavoratori un prezzo, oltre i loro stipendi, in tempi di assedio, prezzo che aumenta in ragione del pericolo e della fatica; i soldati superstiti esigono anche la porzione de' loro commilitoni morti nell'azione de' lavori in campagna: ma i regolamenti s'adempiono eglino sempre? (cap. XIX, 11)

A giudicare della quantità di polvere prescritta [dal Montecuccoli], converrebbe distintamente conoscere la qualità della polve're di que' tempi, e la capacità de' barili. Negli esperimenti per la demolizione delle fortificazioni di Verona (lavoro egregio e compianto del Sanmicheli) diretti dal sig. Rossi colonnello del genio, la mina più forte ebbe la carica di 7000 libbre di polvere; rovinò non solo un durissimo rivestimento di piedi 30 di massiccio, ma scavò un vasto imbuto di 110 piedi di diametro, quadruplo della linea di minima resistenza di piedi 27, pol. 6, e atterrò una casamatta lontana parecchie tese dalla mina (....) (cap. XIX, 12)

E' fu per lungo tempo creduto necessario di turare la galleria tutta; ma da alcuni anni molti esperimenti hanno accertato che anzi l'effetto della mina si avvalora lasciando una parte vuota alcuni piedi intorno alla camera. E qui giova pubblicare un tentativo operato nell'autunno del 1806 alla demolizione di Forte-Urbano. La pioggia aveva sì fattamente bagnata la salsiccia di una mina, che il fuoco appiccatovi si spense prima di giugnere alla galleria, e lo scoppio della mina sfallì. La polvere, benchè inumidita di molto, non era bagnata; si rimise la salsiccia; il fuoco che le fu dato spese forse dieci minuti secondi ad arrivare alla camera sfavillando veementi e spesse scintille; la mina brillò con effetto superiore di molto all'usato. Questo fenomeno fe' sospettare che l'efficacia della polvere s'accrescerebbe con l'acqua, e si tentò l'esperimento con due mine preparate nella faccia d'un bastione distanti fra loro piedi 72. Le loro linee di minima resistenza erano di piedi 21, pol. 6, e la lor costruzione in tutto simile: fu ciascheduna caricata di libbre 1200 di polvere di pessima qualità. Turando la galleria vi si lasciò vuoto uno spazio di piedi 6, oltre lo spazio dinanzi la camera; in uno de' due tonelli furono poste fra la polvere due vesciche contenenti in tutto circa libbre 9 d'acqua. Lo scoppio della mina con l'acqua portò rovina molto maggiore dell’altra senz'acqua: questa atterrò piedi 64 del rivestimento lungo la faccia e rovesciò il parapetto e la banchetta superiore; la mina con acqua sollevò da' fondamenti piedi 78 del rivestimento, che balzò con tutte le palafitte gettando un intero contrafforte da 12 in 15 tese distante; il parapetto, la banchetta e molti piedi del terrapieno furono parte rovesciati nella fossa e parte respinti indietro sul riparo. Una ampia voragine si spalancò nel luogo de' fondamenti. Si replicò l'esperimento in quel giorno. L'orecchione d'un bastione da demolirsi lungo piedi 108, largo piedi 72, oltre un rivestimento di circa piedi 200, non concedeva più d'un attacco con due fornelli: più fornelli avrebbero menomato l'effetto menomando la linea di minima resistenza. Al fornello vicino al giro dell'orecchione si diedero piedi 31 di minima resistenza; fu caricato con libre 2000 di polvere e libbre 15 d'acqua in 4 vesciche; turando la galleria si lasciò un vuoto di piedi 15 di lunghezza. L'altra mina di piedi 20 di minima resistenza fu caricata di libbre 800 di polvere, lasciando vuota la contigua galleria per piedi 10. Lo scoppio contemporaneo di queste due mine rovesciò tutto il rivestimento con parte del terrapieno nella fossa e la colmò per la distanza di piedi 40, e per l'altezza di piedi 7, formando un pendio carreggiabile: il giro dell'orecchione sparì dalle fondamenta, ed enormi massi furono lanciati lontano per più di piedi 160. Con pari evento si continuò la prova dell'acqua nelle mine partendola in più numero di vesciche affine di agevolare che sfumasse in vapori, i quali si attenuavano e si sentiano su le mani e sul viso a guisa di minutissima pioggia, allorchè dopo lo scoppio si passava per mezzo a' globi di fumo. Per più certezza si operò un’altra prova comparativa su due orecchioni all’estremità d’una stessa cortina; si costruirono gli attacchi eguali in tutto a ciascheduno de' due fornelli, con l'apertura distante piedi 43 dalla tangente dell’orecchione, la galleria lunga piedi 23, il rivolto lungo piedi 21, la camera piedi 4 di lato, la distanza dai centri de' due fornelli era di piedi 17, la linea di minima resistenza di piedi 24, la carica a ciaschedun attacco di libb. di polv. 1613: nell’orecchione destro si posero 20 libb. d’acqua in 8 vesciche, e 10 libbre d'acqua nel sinistro: il destro atterrò tutto il rivestimento in giro dell’orecchione, la parte maggiore del suo rovescio e parte della faccia per piedi 140 in tutto; la terra e i rottami furono lanciati a lontananza straordinaria: il fornello sinistro atterrò l’orecchione e l’annesso rivestimento di piedi 108 in giro; il rovescio dell’orecchione con la galleria dell’annessa poterna rimase intatto; le screpolature nella terra e nel muro non erano nè sì ampie nè sì solcate nè sì estese come nell’altro; l’effetto insomma del fornello che aveva doppia quantità d’acqua fu in tutto e per tutto molto più efficace. È da avvertire che la polvere era di freschissimo impasto, ed appena aveva 13 gradi di forza.

Questa notizia è tratta dalla memoria ms. su la demolizione di Forte-Urbano comunicatami dai capitani Carlo e Giambattista Fe, ufficiali del genio che diressero que' travagli. (cap. XIX, 12)

«Le muraglie s'inteneriscono con aceto e con acquavite».

Questo uso antico di spetrare i luoghi sassosi con l’aceto pare che fosse disceso sino a' giorni dell’autore. Oggi è al tutto dimenticato: se il sito non concede di far volare i macigni con la polvere, si deviano i lavori assegnando un’altra direzione allo scavo. Bensì per demolire le muraglie sarà ottima ricetta l'acquavite a' lavoratori ed a' soldati. (cap. XIX, 12)

Palizzate e steccate non sono tutt’uno come forse si crederà; la seconda voce risponde alle fraises che si pongono orizzontalmente o con la punta obliqua le più volte in giù; le palizzate, palissades, si pongono invece verticalmente o pochissimo inclinate e sempre con la punta in su. Molti termini di fortificazione che ora si vanno accattando da' libri francesi sono, come questo, somministrati dall’autore. (cap. XX, 3)

Da Vauban in poi il presidio d'una piazza che si vuole difendere si ragguaglia a 600 fanti e 50 cavalli per bastione, quando la piazza non abbia se non mezze lune e una strada coperta; ma se vi sono altri di fuori, si assegnano ad ogni opera a corona 600 armati, ad ogni opera a corna 450, ad ogni controguardia 100. Aggiugni 100 minatori, 60 operai e 200 tra bombardieri e artiglieri. (cap. XX, 3)

Pare che quando l’autore scriveva fosse ignoto il tirare a ribalzo, ritrovato che accelera la resa delle fortezze, e che venne come quasi tutte le utili scoperte somministrato dal caso. Vauban ne profittò, e l’artiglieria e l’attacco delle piazze cangiarono sembianze. I primi esperimenti de' tiri a ribalzo furono fatti all’assedio di Maestrich nel 1673, otto anni prima della morte di Montecuccoli. (cap. XX, 5)

«Aprirai le chiuse onde allagare le campagne».

Non solo le fortezze, ma eserciti interi possono essere protetti a' fianchi e a tergo con le allagazioni disserrando le catterate de' fiumi reali, specialmente in tutta l’Olanda e in alcuni paesi delle Fiandre. A Mantova e ad Alessandria di Monferrato si sta lavorando per difendere quelle fortezze con l’inondazioni. (cap. XX, 5)

«La galleria offendesi (....) con colonne fulminanti».

Queste colonne fulminanti hanno ad essere, credo, le nostre fascine artifiziali, o barili pieni di fuochi che scoppiano sul nemico pari a' brulotti ora usati dagl’Inglesi per incendiare le flotte gettandoli nel mare, de' quali uno vidi a Bologna-a-mare; era sferico, caricato di polvere e materie incendiarie, col magistero d'un oriuolo, acciocchè, trascorso il tempo calcolato pel viaggio della macchina trasportata dalla corrente sino a' legni nemici, ardesse per mezzo d’un acciaiuolo fatto a modo di quello delle canne da fuoco, che all’ora determinata scoccava: gl’Inglesi lo addimandano fire-ship, vascello di fuoco, perchè a' tempi passati invece di questa macchina si mandava una barca incendiaria. (cap. XX, 6)

«Alle mine rimediasi col controminarle....».

La guerra di mine era celebratissima presso gli antichi, e i lavori sotterranei degli assedi romani sembrano miracolosi. (Vedi Vegezio, lib. IV. c. 28). Le mine e contromine divennero men faticose e più efficaci da che si fecero volar con la polvere, il che avvenne per la prima volta contro a' francesi, l'anno 1503 sotto Castello dell'Uovo a Napoli. Altri ne ascrivono l'invenzione a un ingegnere di papa Giulio II. Le diligenze qui prescritte dall’autore riescirebbero ottime anche a' dì nostri; ma, nè io so il perchè, pare che la guerra di mine vada scadendo: fra quanti giornali mss. e stampati mi è toccato di leggere su gli assedi degli ultimi venti anni, rarissime volte ho trovata una difesa valida per mezzo di contromine. Il cavaliere Folard ottimamente notò che « si dans nos défenses nous mettions toute notre attention à nous rendre maîtres du dessous, les assiégeans ne le seroient jamais du dessus ». (cap. XX, 6)

Non so se a' tempi dell'autore i difensori si giovassero contro gli assalti della breccia di questi sciami di pecchie obbliati al tutto a' dì nostri; so bensì che se ne trova esempio fra gli antichi, i quali scatenavano addosso agli assalitori pecchie, orsi e bestie feroci: « Cuniculos aperiebant et per foramina dimittebant in operarios ursos, aliasve bestias et apum examina ». ( Appiano, Bell. Mithrid. ). (cap. XX, 6)

I capi XVIII, XIX, XX sono insufficienti a' dì nostri per la fabbrica, l’attacco e la difesa delle fortezze; vuolsi nondimeno considerare che l’autore non intendeva di scrivere trattati, e che le scienze applicate alla milizia non avevano agevolate per anco le espugnazioni. Pare bensì che la difesa fosse allora più ostinata per la forza morale degli assediati; molte piazze si prendeano d'assalto; oggi tutte si arrendono capitolando. (cap. XX, 7)

«Se il nemico avesse preoccupati i passi e lo stretto, fa di sorprendere le guardie che l’hanno in custodia, e forza i loro munimenti con petardi, scale, granate.... coglierli alle spalle, o tagliarli andando sovr’essi da un’altra parte».

Così io scrittore, militando nel blocco di Genova l’anno 1800, vidi prendere dagli Austriaci il passo della Bocchetta reputato insuperabile sino a que' giorni. (c. XXI, 9)

«guidando per le redini i cavalli nuotanti…»:

«Di Danzica a dì 16 Dicembre 1633. Avendo i cosacchi passato il Nieper furono seguitati da' tartari che varcarono il fiume a nuoto: perdettero un uomo solo; e per iscansare d'annegarsi accoppiarono i loro cavalli a due a due legandoli a certa zattera fatta di sterpo e di canna ove posero loro armi e bagaglio». Squarcio di giornale citato dall'autore in tedesco a pie' di pagina nel ms. Quantunque i cavalli nuotino naturalmente, non mi pare, come pare al conte Turpin ( Comm. lib. 1. c. 3. art. 1. not. [g]) che tutti i cavalli nuotino bene, e che basti d’esercitare al nuoto il soldato. I cavalli non esercitati varcheranno un fiume angusto e di lene corrente, ma in un fiume largo, profondo e rapido affogheranno dopo pochi passi. I cavalli arabi, quantunque dotati dalla natura di nervi vigorossimi e di forte lena, sono mal propri al tragitto di fiumi appunto perchè nelle loro contrade incontrano raramente fiumi rapidi e grandi. Il nuoto invece de' cavalli tartari è celebrato non solo per l'esercizio, ma per la loro struttura: sono leggieri, lunghi, smilzi di ventre, e battono l'aria col naso. (c. XXI, 10)

«Nel venire a un fatto d'arme (....) dare a conoscere il capitano per qualche segno o guidone».

Il maresciallo di Sassonia comandava gli eserciti nell'azione della battaglia seguito sempre da un drappello di ulani che con le banderuole delle loro aste faceano da lontano scorgere il generale. L'orifiamma, antica bandiera che in Francia sino a Luigi XI seguitava sempre la persona del re, adempieva nelle battaglie l'ufficio del guidone consigliato dall’autore. ( Turpin ). — Vedesi presso Filiþpo di Comines che sino a' tempi della guerra di Luigi XI con Carlo Ardito di Borgogna, oltre all’orifiamma del re, i principi e marescialli di Francia portavano in campo uno stendardo lor proprio. L’uso si serba presso a' Turchi; tutti i bascià hanno un'insegna diversa, ed il sultano, o il granvisir che guerreggia in suo nome, porta in battaglia una specie di orifiamma, sangiak-scherif; ma da che Romanzow capitano de' Russi ruppe i Turchi a Kahul, l'orifiamma di Alì perdè concetto, e Mustafà, sultano a que' giorni, vietò ch’ella varcasse il Danubio e i confini di Turchia. Frattanto l'uso de' celebri capitani e la ragione contendono contro il parere dell’autore e la dissertazione del conte Turpin, il quale ad ogni patto vorrebbe che i generali supremi conducessero la battaglia accompagnati da guidoni e da banderuole. Gli avversari riconoscerebbero da lungi il capitano, mirerebbero ad ucciderlo, e la sua morte riescirebbe funesta più che la perdita della battaglia. Le guardie e il corteggio di chi comanda bastano a farlo scorgere da' propri soldati. (c. XXII, 2)

«ricorrere alle forze ausiliarie, ma che le proprie prevalgano, perché gli ausiliari sono gravi poco men che i nemici, infedeli (…) e più nell’avversa fortuna».

« Id quidem cavendum romanis ducibus erit exemplaque haec vere pro documentis habenda, ne ita externis credant auxiliis, ut non plus sui roboris suarumque proprie virium in castris habeant .» ( Livio, lib. 25, c. 33). De' soldati ausiliari, misti e propri vedi la sentenza di Nicolò Macchiavelli al capo 13 del Principe e l'egregio discorso sopra questo passo di Livio, Discorsi, lib. II, c. 20. (c. XXII, 3)