O povertà, come tu sei un manto
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O povertà, come tu sei un manto
D’ira d’invidia e di cosa diversa!
Così sia tu dispersa,
E così sia colui che ciò non dice!
5Io dico sol per sodisfarmi alquanto
Di te, o sposa d’ogni cosa persa,
Per la quale è sommersa
D’onor al mondo ogni viva radice.
Tu privazion d’ogni stato felice,
10Tu fai la morte altrui sempre angosciosa
Bizzarra e disdegnosa;
Tu più che morte per ragione odiata
E nel voler d’ogni animo privata.
Con ragion più che morte sei fuggita,
15Sol perchè morte ogni uom tardo la spera;
Ma di te, cruda fera,
Mai non si vede cosa giusta e diva.
La morte può ben l’uom privar di vita
Ma non di fama e di virtude altera:
20Anco felice e vera
Riman perpetual nel mondo e viva.
Ma chi a tua foce sconsolata arriva,
Sia quanto vuol magnanimo e gentile,
Che pur tenuto è vile;
25E perciò chi nel tuo abisso cala
Non speri in alcun pregio spander l’ala.
E perciò ha terror mia mente ingombra,
Ch’io prenda alquanto studio al mio riparo:
Chè, s’io discerno chiaro,
30Per te al furto il leal si conduce,
Per te l’uom giusto a tirannia sè adombra,
Per te diventa il magnanimo avaro;
E d’ogni vizio amaro,
Secondo il mio parer, tu ne se’ duce.
35Adunque non s’acquista per te luce,
Anzi si vien nel tenebroso inferno;
E, come chiar discerno,
Infermità prigion morte e vecchiezza
Al tuo rispetto è luce di dolcezza.
40 E con ipocresìa benchè sian molti
Che appellan te con verace desìo,
Ed allegano Iddio
Come il tuo stato non gli parve grave;
Ma ben si sa per gli uomini non stolti
45Se è pover chi di tutto può dir mio;
Lo me ’ntendo ben io,
Che a quello il grande affanno par soave.
Di Dio fu tutto, e tutto ebbe, e tutto have:
Non dirà alcun che lui povero fu
50Nel tempo che qua giù
Per dar la gloria a noi visse visibile,
Perciocchè tutto aver gli era possibile.
Canzon, tu te ne andrai peregrinando;
E s’alcun trovi che contro ti dia,
55Che povertà non sia
Assai più fiera ed aspra ch’io non dico,
La tua risposta sia breve parlando;
E di’ che ’n lui si move ipocresìa.
E poi con voce pia
60Dirai che poco men son che mendico,
E non poss’esser di me stesso amico.
(Attribuita a G. Cavalcanti; e ora per autorità de’ codd. restituita all’Uberti.)