Novelle e racconti (Carrer)/Fatti e parole, fiori e frutta
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FATTI E PAROLE; FIORI E FRUTTA.
Idillio.
Fatti fatti e no parole, diceva l’altro ieri un tale ad un tal altro, per risposta ad una lunga chiacchiera di consigli e di ammonimenti; la stessa canzone fatti fatti e no parole s’intonava da uno scrittore ad un critico, che gli veniva minutamente notando i difetti di pensiero e di stile di una tragedia; e fatti fatti e no parole ripeteva il critico alla sua volta, essendogli dato a leggere non so che altro lavoro d’altro scrittore. Una signora, ad uno che le faceva lo spasimato per la sua bellezza, e gli protestava amore con le frasi del Caloandro, fatti fatti e no parole, diceva, non so se per prender tempo, o per levarsi assolutamente dattorno quella seccatura; e un giovanotto, a cui erano passati tre mesi tra i languori della speranza, rimproverava la sua innamorata di freddezza e d’ingratitudine colla formula slessa fatti fatti e no parole. Bada ai discorsi dei negozianti, alle dispute degli avvocati, alle polemiche dei giornalisti, e ci troverai sempre, o espresso o sottinteso, il senso di questa frase: fatti fatti e no parole.
Tutti dunque siamo d’accordo che le parole riescono a nulla se non hanno il puntello dei fatti. Ma si usa questa frase con giustizia sempre, e da tutti? È egli poi vero che sempre si abbiano a volere fatti e non parole? E chi domanda fatti in cambio di parole intende egli bene ad ogni ora che cosa siano le parole di cui fa rifiuto, e que’ fatti ai quali solamente mostrasi affezionato? Non ci sono di quelli che credonsi fatti e non sono più che parole, e all’incontro di quelle che sembrano all’aspetto esteriore sole parole, e chi ne cerchi poi l’interiore sostanza, le sono fatti de’ più gravi e importanti?
Dalle parole nascono i fatti, e i fatti hanno anch’essi bisogno delle parole. Vi sono parole che vagliono i più bei fatti, e fatti che non valgono una parola; ci hanno alcuni momenti della vita in cui sono necessarii i fatti, alcuni altri pei quali richiedonsi le parole. Parole senza fatti sono aria che non trova strumento per cui passando rimanere modificata secondo le leggi dell’armonia; fatti senza parole sono strumento in cui non s’intromette alito di sorta, e a cui torna inutile per conseguenza ogni più artifiziosa costruzione. Questo discorso è riferibile a tutti gli argomenti, ai traffichi, alle arti, alla morale, agli affetti. In ogni cosa c’è tempo e luogo pei soli fatti, tempo e luogo per le parole. Guai per alcuni uomini ridotti alla disperazione dai fatti, se non avessero il conforto delle parole! Guai per quelli cui furono micidiali le parole, se non avessero un rifugio nei fatti! Sicchè a certi barbassori, i quali sempre e in ogni proposito hanno in bocca questo noioso ritornello fatti e non parole, rispondete colla novelletta seguente, che nella sostanza viene a dire una bella verità, e nella veste potrà essere da ognuno di voi, miei cari lettori, assai migliorata da quella che ve la pongo sottocchio in quattro grami periodi di prosa.
Ne’ tempi in cui ci erano le fate, o credevasi che le ci potessero essere, fu un giovanotto il quale se ne andò ad un giardino, che dalla moltitudine non osavasi guardare salvo che dal di fuori, per la fama che ne correva di essere desso in possessione ad una cotale fata chiamata Serena. Ma il giovanotto, come quegli a cui l’età poca e il naturale ardimento non lasciavano agio a considerare pericolo, si spinse innanzi, e, trovati arrendevoli i cancelli, si mise senza più a passeggiarvi per entro. Era una maraviglia di fiori pendenti da innumerabili rami d’alberi molto vagamente intrecciati e una consolazione di odori da togliere ogni memoria di affanno passato. Mentr’egli se ne stava a godersi quel doppio diletto della vista e dell’odorato, ecco farsegli innanzi una donna cui non dubitò fosse la Fata in persona, all’aria di padrona che in essa appariva. «Dacchè sei qui entrato, e non punto ti lasciasti atterrire dalle dicerie degli stolti; voglio che tu goda di questo mio orto a tuo piacere; e sebbene me non vedrai, sappi essere io disposta a venirne a te ogni volta che crederai abbisognare di mia presenza. Intanto, ad avere ciò che desideri, non altro ti toccherà fare fuorchè scuotere alcun poco il ramo di questa pianta (e glielo mostrò) e vedrai adempirsi il tuo volere.» Ciò detto disparve.
Al giovanotto parvero soverchie quelle parole, poichè tanto era desso inebbriato da que’ profumi, e l’occhio suo riposavasi con tanto diletto sopra quella variata moltitudine di colori, che avrebbe pensato prima poterne morire che dirsene sazio. Ma non andò guari che un forte languore lo prese allo stomaco, il quale facendosegli ad ogni ora più grave, quella vista tanto grata e quegli odori soavissimi, anzichè piacergli, gli vennero a noia. «E non vi avrà, diceva da sè, un solo fra tanti alberi un solo che dia frutto? Oh questa è pure verità di tormento!» In questo gli vennero a mente le parole della Fata, e tirò a sè il ramo con qualche impazienza. Ed ecco gli alberi tutti, da coperti di fiori ch’essi erano, farsi carichi di frutta mature tutte saporitissime. E inesprimibile la beatitudine del giovine, cogli qua, spicca là; se ne sentì in poco d’ora lo stomaco ristorato, e gli parve di rinascere. Ma a poco a poco quella tanta abbondanza gli cagionò sazietà. Dopo aversene cibato da non saperne desiderare di più, gli prese diletto di fiaccare a terra quanti più potè di que’ poveri frutti. Ma che? Appena erane uno caduto, un altro ne germogliava nel luogo stesso, sicchè, in luogo di diradare le fruita dai rami, alla copia degli alberi quella aggiungevasi del terreno. Un nuovo genere d’impazienza lo prese, e per uno di quei fiori, di cui erasi mostrato prima sì nauseato, avrebbe dato a migliaia le frutta di cui pareva pochi momenti prima sì vago. Avrebbe voluto ritoccare il ramo prodigioso, ma vergognava di tanta volubilità, e per altra parte il partirsi dall’orto parevagli scortesia.
Nell’incertezza di tali pensieri se gli fece davanti la Fata, la quale benignamente sorridendogli gli tenne il seguente discorso: «Spero che la tua venuta al mio orto non sia senza qualche vantaggio per te. Quanto hai veduto e provato in te stesso è sensibile emblema di quanto accade a tutte l’ore nel mondo. Non vogliono essere nè tutti fiori, nè tutte frutta nella vita; ì soli fiori la farebbero oziosa, pesante le sole frulla. Egualmente perniciosi sono gli estremi, quale per eccesso, e quale per difetto; non siamo nè tutti occhi nè tutto ventre; provveduto ai bisogni d’una parte è bene che si pensi anche all’altra. Tanta infelicità c’è a non aver nulla di che cibarsi, quanta a non aver altro dominio che sopra il cibo. Quanti, fanciullo mio, a cui la mente è feconda di graziosi fiori, e il cuore è consolato dall’olezzo elettissimo delle più care virtù, appetiscono il frutto che veggono in mano d’altri; mentre questi sarebbe assai contento di cederlo per alcuno di que’ fiori, o per respirare alcun poco di quell’odore che gli consolasse l’anima puzzolente! Chi fa rifiuto dei fiori con troppa inconsideratezza, come hai tu fatto, si vede punito dall’abbondanza soverchia delle frutta; e all’incontro un continuo languore è debita pena a chi perdesi con troppa esclusiva ansietà dietro ai fiori. Ricordati quanto hai veduto ed udito, e fa senno.»
La Fata, detto ciò, spari di nuovo dagli occhi del giovane, e questi si trovò, senza saper come, fuori dell’orto, e, ritentati i cancelli, dovette persuadersi che gli sarebbe stato impossibile di più rientrarvi.