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erano, farsi carichi di frutta mature tutte saporitissime. E inesprimibile la beatitudine del giovine, cogli qua, spicca là; se ne sentì in poco d’ora lo stomaco ristorato, e gli parve di rinascere. Ma a poco a poco quella tanta abbondanza gli cagionò sazietà. Dopo aversene cibato da non saperne desiderare di più, gli prese diletto di fiaccare a terra quanti più potè di que’ poveri frutti. Ma che? Appena erane uno caduto, un altro ne germogliava nel luogo stesso, sicchè, in luogo di diradare le fruita dai rami, alla copia degli alberi quella aggiungevasi del terreno. Un nuovo genere d’impazienza lo prese, e per uno di quei fiori, di cui erasi mostrato prima sì nauseato, avrebbe dato a migliaia le frutta di cui pareva pochi momenti prima sì vago. Avrebbe voluto ritoccare il ramo prodigioso, ma vergognava di tanta volubilità, e per altra parte il partirsi dall’orto parevagli scortesia.
Nell’incertezza di tali pensieri se gli fece davanti la Fata, la quale benignamente sorridendogli gli tenne il seguente discorso: «Spero che la tua venuta al mio orto non sia senza qualche vantaggio per te. Quanto hai veduto e provato in te stesso è sensibile emblema di quanto accade a tutte l’ore nel mondo. Non vogliono essere nè tutti fiori, nè tutte frutta nella vita; ì soli fiori la farebbero oziosa, pesante le sole frulla. Egualmente perniciosi sono gli estremi, quale per eccesso, e quale per difetto; non siamo nè tutti occhi nè tutto ventre; provveduto ai