Novelle (Sercambi)/Novella CXVI
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CXVI
Colla dilettevole novella la brigata giunse a Imola, dove il proposto comandò che quine si dicesse e cantasse una canzona; dicendo:
«Come vuoi, donna, tu ch’io mi dia pace,
ch’amor per te mi fa sì aspra guerra
ch’ogni uscio di pietà mi chiude e serra?
Ma se del pianger tu vuoi ch’i’ mi posi,
fà che m’alenti il tuo tormento amore;
amor, che li occhi tuoi sian si pietosi
che ’l tuo per me faccian pietoso core.
Altramente vedrai me per dolore
innanzi, un dì, caderti morto in terra,
se l’usci suoi pietà non mi diserra».
E venuta l’ora d’andare a cena, cenarono, e dapoi a dormire n’andarono.
E levati la mattina, il proposto comandò a l’altore che una novella dica fine che a Meldola Castello giunti saranno. Il quale subito voltatosi alla brigata disse: «A voi, omini e donne che stando a vedere vanità, in grande pericolo e danno e vergogna <venite> potendo a tali riparare, ad exemplo dirò alcuna novella, in questo modo:
DE PIGRITIA
Di uno maestro di legname: per negligenza, vedendo lo fuoco apreso a un ruciolo, arse la casa.
Carissimi fratelli e magiori, e voi, carissime et onestissime donne, io v’ho proposto di dire alcune novelle d’alcuni che per lo stare a vedere, avendo potuto riparare, sono venuti in gravi pericoli e danni. E posto che di migliaia dir se ne potesse, ora al presente in questa nostra novella non dirò se non di quattro maniere di modi di chi è stato a vedere avendo prima potuto riparare e per sua negligenzia s’ha lassato alla pigrizia vincere.
E primo dico: innella nostra città di Lucca nel tempo che quello da Parma, cioè messer Piero Rossi, ne fu signore, fu uno maestro di legname nomato Vitali, il quale avendo famiglia et alcuno fanciullo piccolo e stando a casa et a bottega faccendo casse et altre massarizie che a l’arte si richiedeano, una sera lavorando innella sua bottega di notte certe casse tenendo la lucerna accesa per poter vedere lume — ed avea per costume questo Vitali che tutti i ruciori e mozzature di legname mettea sotto la scala — , avenne che mentre che lavorava, avendo lavorato alquanto e fatto molti ruciori, la lucerna (come alcuna volta fa) sfavillando, una favilla piccolissima cadde in s’uno di quelli ruciori. Vitali la ved’e dice: «Ben vo’ vedere quello che quella favilla <facesse se io qui non fusse». La favilla>, che in uno rucioro caduta era, s’aprese et a pogo a pogo viene ardendo l’altro da lato. Vitali si puone a sedere e sta a puoner cura <al fuoco>.
Lo fuoco va ardendo per lo spazzo li ruciori fatti la sera, venendosi acostando a quelli che sotto la scala erano. Vitali saldo pur dicendo: «Che farai?» Lo fuoco, che vede la materia apparecchiata, faccendo suo corso innel monte de’ ruciori che sotto la scala era s’aprese. Vitali, che quello ha veduto, disse: «Non ci è da stare». Levatosi per volere il fuoco spegnare, lo fuoco è grande e colle mani spegnar nol può; diliberò coll’acqua spegnarlo. E montato la scala et ito alla brocca dell’acqua, scendendo la scala trovò tutta la bottega piena di fuoco, né l’acqua portata niente valse.
Vitali, vedendosi a mal partito, per campare la famiglia sua, rimontata la scala, et i fanciulli da una finestra dirieto collò e simile la donna. Vitali, che parea a lui che ’l fuoco non dovesse ancora aver arso lo solaio, per campare alcuni suoi arnesi, innella camera intrò; dove regandosi a dosso alcuna cassetta di suoi miglioramenti, i vicini tratti e rotto li usci dinanti, e quasi tutto ciò ch’è in bottega arse. Et il fuoco avendo arso il solaio, Vitali colle casse venuto in sala, lassòle; <il solaio> non potendole sostenere si fiaccò, Vitali colle casse innella bottega cadde. Avendosi prima tutto fracassato per la caduta e il fuoco cocendolo, a mala pena vivo di quine tratto fue. La casa livrò d’ardere. Vitali, messo in su un letto d’un suo vicino, narando la cosa come andata era, dicendo: «Io me l’ho ben guadagnato», e così si morìo.
Vegno ora a contare che uno nostro cittadino nomato Bartolo essendo fattore d’una compagnia di Lucca (la quale al presente non è di bisogno di dire qual’è), avendo il ditto Bartolo fatto molte grandi spese per suoi fatti propri, cognoscendo <li> maestri suoi che al salario che il ditto Bartolo avea non potea né dovea tali spese fare, pensonno lui dover far mala massarizia <di quello della compagnia>, dicendoli: «Bartolo, noi troviamo che tu hai tratto de’ banchi migliaia di fiorini; no’ vogliamo che ci mostri in che modo sono stati distribuiti». Bartolo, che i libri avea in punto, disse: «Io vel mosterò ordinatamente». Li maestri contenti disseno: «Mette ogni cosa in su uno quaderno, sì che noi possiamo esser chiari».
Bartolo, rinchiudendosi una sera innello fondaco, avendo molti libri aperti e posti sopra una scafa, o vogliamo dire scrittoio, e come li bisognava l’uno o l’altro presto lo potea avere. Et essendo stato gran pezzo della notte tenendo uno candellieri grande con una candella di sevo accesa dinanti e pensando donde mettere capo di quello che far dovea, avendo tutti i libri inanti aperti dell’entrata e de l’uscita e stando sopra sé, venne uno topo non molto grande; e rizzatosi al candelieri, Bartolo, che ciò vede, dice fra sé: «Or che vorrà fare quel topo?», e stava cheto senza niente dire né muoversi. Lo topo, giunto alla candella, cominciò a mangiare; Bartolo fermo. Lo topo rode tanto che giunto fu al lucignoro, dove il topo misse i denti; e non potendo il topo ritirare il dente a sé, dava alcuno grollo alla candella. Bartolo, che vede che la candella dal topo è grollata, <non si muove>.
Lo topo, per forza non potendone <cavare> li denti, cavò del candellieri la candella. Bartolo rizzandosi, lo topo spaventato saltò sopra la scafa colla candella accesa dove erano i libri aperti: quine avendo molto cottone da balle, com’è d’usanza, la candella a quello cottone s’aprese. Et ardendo forte, Bartolo volendo il fuoco spegnare per lo meglio che potea, non avendo acqua, colle mani e co’ libri tanto fe’ che il fuoco ispegnò; non però sì tosto che tutti i libri non fusseno arsi più che la metà del foglio.
Per la qual cosa Bartolo doloroso, non potendo mostrar quello che speso avea, disse a’ maestri suoi il caso. Li maestri dicendo: «Ribaldo, ora che ci hai rubbati trovi modi che i libri siano arsi!», e non credendolo, tutto ciò che avea d’imobile li levonno, et in quello che a loro parea lo fenno obligare. E fu ristretto il ditto Bartolo a vivere a stento colla sua famiglia, né mai tornò in stato che d’un paio di calze si potesse vestire. E questo l’adivenne per lassare contentare il topo.
Lo terzo modo della nostra novella si fu innelle parti di Lunigiana, in una terra chiamata Sarezana. Al tempo che messer Giovanni dell’Agnello là signoregiava <fue> mandato uno officiale nomato ser Sardo da Vico, omo più tosto a stare a vedere il male che a quello mettervi rimedio; che essendo il ditto ser Sardo officiale innella ditta terra — il magiore <d’>alcune vallate intorno — , uno giorno vennero a lui certi buoni omini dal Vecciale dicendo a ser Sardo: «Noi vegnamo a voi però che innel nostro comune sono alquanti che per una caccia di porci hanno preso tra loro alcuno disdegno, e pensiamo se verrete là su o che per le parti mandiate, che tutto aconcerete, altramente potrà tra loro nascere discordia di venire a colpi». Ser Sardo dice: «Io sono qui per punire chi fallirà, e questo travaglio non mi vo’ dare a venire colà su et anco né a farli qui venire». Coloro dissero: «E noi non possiamo altro fare».
E partiti, non molti giorni passarono che tra quelli nacque <discordia> colpegiandosi con pugni in forma che alquanto sangue uscio ad alcuno de’ litiganti. Per la qual cosa i buoni omini e’ parenti et amici dell’una parte e dell’altra vennero a Sarezana dicendo a ser Sardo che li piacesse d’andare al Vecciale o veramente mandare per loro e che cognoscano veramente lui metter rimedio, che a pace si ridurenno; e se non v’andasse o che a lui non li facesse venire, che co’ ferri proveranno loro quistioni. Ser Sardo, che ha udito i colpi de’ pugni, dice: «Or così mi piace che questo abino fatto, et a questo modo varrà la mia corte. E se più avanti seguiranno tanto guadagnerà più»; dicendo: «Andate, che io punirò ben chi fallirà». Et a niente si muove.
Quelli buoni omini, che vedeno quanto ser Sardo officiale è pigro e tristo, diceno: «Per certo se per la quistione nata si verrà a’ ferri, mai ser Sardo non serà nostro amico et in cosa che comandi per noi non serà ubidito, poi che non vuole muoversi a tenere il paese in pace». E questo dissero a uno suo notaio. Il notaio dice a ser Sardo quello che quelli buoni omini hanno ditto. Ser Sardo dice: «Lassa pur fare che se s’uccideranno insieme io serò molto contento, ché ben farò la robba loro alla corte venire». Lo notaio dice: «Per certo meglio sarè’ che là su s’andasse o veramente si facessero qua venire, e potresti la cosa aconciare». Ser Sardo disse: «Tu se’ un matto a dire che io ne vada <o> ne mandi: lassali fare».
E mentre che tal parole tra loro diceano, venne uno de’ vicini dicendo: «Ser Sardo, le parti sono armate e dicono che non si pacificheranno per mano di persona se non per vostra; e me hanno mandato, dicendomi che se non andate a conciarli, che in fine avale v’avisano che tra loro si comincerà la battaglia». Ser Sardo dice: «Incomincino a loro posta, che io sono qui per punirli del fatto che faranno, né non mi curo di lor conciare».
Colui ritornò narrando tutto ciò che ser Sardo ditto avea. Coloro, vedendo che ser Sardo pogo se ne curava, come giovani si comincionno a percuotere: in poghi colpi dell’una parte e dell’altra ne funno ii morti et alcuni feriti. Il romore grande, la campana a martello, la novella viene a ser Sardo come già v’erano ii morti e molti feriti e che sempre erano alle mani. Ser Sardo, che ode tutto, fatto sellare i cavalli, disse al suo notaio che seco al Vecciale cavalcasse. Lo notaio dice che non vi vuole andare poi ch’e’, a tempo che non erano venuti a’ fatti, andar non vi volse. Ser Sardo montato a cavallo, mostrando molto volontaroso, con alquanti suoi fanti cavalcò verso il Veciale.
E come fu presso al Veciale, quelli che tra loro combatteano fattosi fidi insieme disseno l’uno a l’altro: «Voi vedete che ora che siamo disfatti e morti e feriti ser Sardo ci viene o a prendere o veramente per tollerci i nostri beni; e quando tra noi non erano se non parole, di quanti imbasciatori li abbiamo mandato, mai venir ci volse. E pertanto a noi pare, poi che lui di tal male è stato cagione, che lui ne porti la pena e quello che tra noi fatto abbiamo si perdoni, rimanendo amici».
Acordati a tal cosa, ser Sardo giunse al Vecciale molto brusco, volendo fare dell’aspro. Coloro stretti insieme disseno: «Quando ci potei metter in amore non volesti et hacci fatto uccider insieme, et ora pensi noi prendere et il nostro godere; la qual cosa fatto non ti dé venire, ma del contrario pensa». E fatto li famigli star da parte, subito a pezzi lo taglionno. E di tal cosa ne mandonno imbasciata a Pisa. I pisani, sapendo la verità della cosa, perdononno a coloro; e mandato <altro> officiale, ridusse il paese in pace.
Vegno alla parte ultima della nostra novella, dicendo: uno delle terre di Nicolò da Piuolo maritò una sua figliuola nomata Tomasa a uno del contado di Luni nomato Fallera, omo di soldo più che da lavoro. Et avendo menata questa sua donna in una villa chiamata Casciana, innella quale uno prete giovano nomato prete Martino s’innamorò della ditta Tomasa, e per venire ad effetto di lei, un giorno chiamò Fallera dicendoli: «Per certo, Fallera, la tua donna mi piace tanto che volentieri se io potesse te la furerei; e quando furata te l’avessi ne la menerei in mie contrade e meco la riterrei». Fallera dice: «Sere, voi sete troppo aboccato, che io la voglio per me». Lo prete dice: «Or che leva a dire? io m’ingegnerò di tollertela quanto potrò o saprò». Fallera ridendo dice: «Abbi pure cotesto pensiero, et io m’arò il mio».
E dimorando più mesi per tal modo, il prete adomesticandosi in casa di Fallera, alla presenzia di Tomasa dicea al marito: «Fallera, per certo io ti convegno Tomasa tollere, e meco la condurrò, E non pensare che io di quel fatto non la fornisca o meglio o così bene come facci tu». Fellera, che tutto ode, a niente prende pensieri, ma standosi pur pigro avendoli ditto il prete spessime volte alla presenzia di Tomasa che lei tollerè’. Et oltra questo, venìa il prete talora con una borsetta et alcuna volta con una cintoretta o con uno anello, dicendo: «O Fallera, aciò che io ti dica il vero che io ti tollerò Tomasa, in fine avale li dono questa borsa e questa cintura e questo anello per caparra; et ella come savia può comprendere che io la tratterò bene». Fallera dicea: «Dalle pur ciò che vuoi che di niente mi moverei per tuo ditto». Tomasa le cose prendea. E fu tanto questa domestichezza che prete Martino con Fallera prendea che in poghi giorni condusse Tomasa a far la sua voluntà.
E più volte ritrovandosi insieme lo prete e Tomasa dandosi piacere, diliberando tra loro doversi partire et abandonare Fallera, divenne, un giorno che Fallera era in casa, lo prete venne con uno cappone cotto dicendo a Fallera: «Io sono venuto a mangiare teco questo cappone, ma voglio che tu spigori la botte del buon vino, ché più volte Tomasa, avendomi dato piacere, me n’ha dato a bere». Fallera dice: «O sere, pur co’ motti!». E mosso, con uno vagello alla botte n’andò. Lo prete, rimaso solo con Tomasa, senza che di quine si partisse, in sullo spazzo la caricò. E prima che di quine Tomasa levata si fusse, tornò Fallera col vino: lo prete già levato, Tomasa riverta non avendosi ancora coperta de’ panni, disse Fallera alla moglie: «O questo che vuol dire?» Lo prete disse: «Ella m’ha voluto mostrare la mercantia che comprare debbo se ella mi piace; e però ti dico, se a comprare l’avesse io non ne darei un denaio, ma perché io me la penso aver in dono, ti dico, Fallera, che ella mi piace». Fallera pigro e tristo niente disse. E desnato che ebbero, non prima si trovoron insieme che diliberonno di quine partirsi.
E così, un giorno che Fallera era ito a Sarezana, il prete con Tomasa si partirono e caminonno verso Parma. Dove, tornando Fallera e non trovando la moglie, tulli ditto col prete esser caminata verso Parma, il quale subito tratto loro dirieto con alcuno suo parente, l’ebbeno in uno albergo sopragiunti. Il prete, ciò vedendo, diè a fuggire. Tomasa, che fugir non potéo, dal marito fu giunta. E conduttala a Casciana e quine alcuni giorni tenutola promettendole perdonare, diliberò un giorno menarla a casa del padre; e come fu innelle terre di Nicolò da Piuolo, quine l’uccise. E tornato a Casciana, fu per lo visconte di Luni saputo la morte fatta di Tomasa: fatto prendere il Fallera, e confessato, li fe’ tagliare il capo come la ragione vuole.
E questo l’intervenne per non prender rimedio quando l’arè’ potuto prendere.
Ex.º cxvi.