Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella XXXVIII

Novella XXXVIII - Il Perotto mantovano, essendo in Modena, è dalle donne per Giudeo beffato, per la sua poca ed abietta presenza
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IL BANDELLO

al reverendo padre

fra francesco silvestro

da Ferrara

maestro generale de l'ordine di san Domenico


Si legge, padre mio osservandissimo, ne le croniche mantovane dal Platina composte, che Sordello Vesconte da Goito, il quale contra quell’immanissimo e crudelissimo tiranno Ecelino da Romano cosí magnificamente diffese la cittá di Mantova, fu uomo di picciola statura e d’aspetto non molto liberale, ma altrimenti di bellissimo ingegno e di forze corporali a’ suoi tempi senza pari. Onde essendo la fama de le sue prodezze per tutta Europa grandissima, capitò ne la corte del re di Francia, al quale, facendo riverenza, disse che era Sordello Vesconte. Il re, che dei fatti mirandi di Sordello aveva inteso cose assai e s’aveva imaginato ne l’animo suo che devesse esser uomo di grande statura, non puoté credere che persona si picciola e tanto difforme fosse valente. E per questo non gli fece molta accoglienza, anzi quasi lo disprezzo. Del che il buon Sordello avvedutosi, disse: — Sire, non fate ancora giudicio di me fin ch’io vado in Italia e meno in qua testimoni a farvi fede che io sono Sordello del quale avete udito ragionar tanto. Ma se prima ch’io parta, v’è alcuno di questi vostri baroni che non creda che io sia Sordello, facciasi avanti e provi le sue forze con le mie in quel modo che meglio a lui piacerá. — Era un franzese quivi molto grande di corpo e d’aspetto assai bello, che in corte era tenuto il piú valente giostratore che ci fosse. Costui, udendo la bravata di Sordello e ne l’aspetto poco prezzandolo, disse che [p. 356 modifica]356 PARTE TERZA farebbe seco un colpo di lancia e che poi giocarebbe di stocco. Accettò Sordello l'invito e s’armò, e cosi a la presenza del re corsero tutti dui e ruppero gentilmente le lande. Misero poi mano agli stocchi, ma a le tre bòtte Sordello gittò lo stocco di mano al suo avversario e poi, avventatosegli a dosso, lo levò da cavallo e lo portò innanzi al re, come il lupo si porta l’agnello, e disse: — Sire, eccovi un testimonio che io sono Sordello, e se altri vuol testimoniare, venga egli avanti. —Il re, conosciuto che gli uomini non si misurano come il panno a canne o palmi, s’avvide che s'era ingannato e molto umanamente lo raccolse e, fin che stette in corte, lo trattò molto bene, ove Sordello, senza venir in Italia a prender testimoni, fece molte altre prodezze che del suo valore diedero chiara fede. Nei nostri tempi poi, sotto il re Lodovico decimosccondo, essendo mandato dai signori veneziani ad esso re cristianissimo un ambasciatore, avvenne che un di, non essendo vestito molto riccamente, andò per dir alcune cose al re; e volendo entrar in camera, gli usceri, non guardando se non a le vesti, gli serrarono due e tre fiate l'uscio sul viso, lasciando entrar quelli che pomposamente erano vestiti. Del che accortosi l’avveduto ambasciatore, se ne ritornò a l’alloggiamento e si pose un saio di velluto morello di grana, con una veste in dosso con le maniche a la ducale, che era di velluto carmesino alto e basso, e cosi riccamente abbigliato rivenne in corte. Picchiò a la porta, e come gli usceri lo videro, il lasciarono liberamente entrare, facendogli anco nel passare una gran riverenza. Andò dinanzi al re l’ambasciatore e, fattogli il conveniente onore, si pigliò la veste e la mise in terra e le fece tre gran riverenze. Meravigliavasi ciascuno di questo atto, veg- gendosi un uomo di quella gravità, a la presenza di tanto re, essersi spogliato e far quelle cerimonie, e attendevano pure a che fine questo fatto riuscisse. L'ambasciatore dopo le riverenze ringraziò pur assai la sua veste del favore che essa gli aveva fatto, e indosso se la pose e poi disse: —Sire, io era venuto per parlar con voi d’alcune lettere che mi scrive la mia serenissima Signoria, e veniva vestito di panno, cosi a la carlona. Ma i vostri uscieri due e tre volte m’hanno serrata la porta de la [p. 357 modifica]NOVELLA XX XVIII 357 vostra camera su gli occhi. Onde andai a mutarmi e vestirmi del modo che vedete, e col favore de la veste sono entrato. Per questo mi sarebbe paruto commetter errore, se io non l'avessi fatto onore e ringraziata del beneficio da lei ricevuto. — Ora mi potreste dire, padre mio osservandissimo, a qual fine io v’ho narrato queste istorie. Dirollovi, per venir a la mia novella. E’ si suoi dire che « chi Dio fece bello non fece povero ». I lombardi poi dicono: «Vestisi un pai, che parrà un Cardinal». E certamente Tesser bello di corpo e ben vestito apportano grandezza ed accrescono la riputazione, cosi come per lo contrario la bruttezza e l’abito fanno talora disprezzare le persone di grado e qualità. Il che manifestamente apparve questi di, come ci narrò ben a lungo fra Gian Battista Cavriuolo, contando una novella che al Peretto a Modena avvenne. La quale, perché mi parve per molti rispetti degna di memoria, avendola scritta, a voi la dono, che tanto séte fuor di cascar nel pericolo del Peretto, quanto che la natura v’ha dotato d'aspetto graziosissimo, di consuetudine affabile e dilettevole, e di buone lettere greche e latine quanto altro che ci sia, ché de la filosofia e teologia non parlerò, avendo voi in queste facultà pochi pari. State sano. NOVELLA XXXVIII Il Perette mantovano essendo in Modena è da le donne per giudeo beffato per la sua poca ed abietta presenza. Essendo la stagione, per gli estremi caldi che fanno, alquanto agli uomini noiosa, poi che s’è sodisfatto al culto divino, non mi par disdicevole con qualche onesto e piacevol ragionamento passar quest’ora del giorno favoleggiando, sapendo che i piacevoli parlamenti hanno non picciola forza a sollevar la noia de la mente ed anco d’alleggerir i fastidi del corpo. Sapete, padri miei onorandi, che del mille cinquecento venti fu celebrato il capitolo generale de la congregazione nostra, molto solenne e con sodisfazione grandissima di chiunque vi fu, ne la piacevole città di Modena, ove quel popolo con infiniti segni dimostrò la [p. 358 modifica]35» PARTE TERZA grande affezione che a l’ordine nostro porta, si nel provedere abondantemente il vivere per molti di a tanti frati, come anco nel frequentare continovamente gli uffici divini, le salubri predicazioni e le acutissime disputazioni che tutto '1 di dottamente si facevano. E nel vero noi eravamo più di quattrocento frati e tutti fummo benissimo trattati, e tanto più fu mirabile la magnificenza dei modenesi quanto che, sapendo le nostre constitu- zioni non permetter che si mangi carne se non per infermità, ci providero largamente di pesci ed altri cibi al viver nostro conformi. Studiava in quei di ne la città di Bologna negli studi filosofici messer Giovan Francesco dal Forno, cittadino modenese, giovine di bellissimo ed elevato ingegno, il quale, essendo desideroso di mostrar ne la patria sua che non aveva a Bologna speso danari e il tempo indarno, cercò con ¡stanzia grandissima ottenere dai nostri padri una catedra, per poter disputar certo numero d'alcune sue conchiusioni in logica e filosofia; e prese per mezzo a conseguir questo suo intento il molto valoroso ed illustre signor conte Guido Rangone, sapendo quanto esso signor conte era in riputazione appo i nostri padri e che non gli avereb- bero cosa alcuna negata. Ottenne il signor conte Guido ciò che domandò, e al Forno fu assegnato un giorno, nel quale nessuno fuorché egli sosterrebbe conchiusioni né disputarebbe. Il Forno, avuta la grazia del determinato di, mandò a Bologna un suo uomo con lettere a messer Peretto Pomponaccio, ne le cose di filosofia suo maestro ed in quei di assai famoso filosofo, supplicandolo che per ogni modo egli degnasse di venir a Modena, si per onorare il suo filosofico conflitto, come anco per essergli scudo contra quegli argomenti, se qualche uno gliene fosse fatto, che egli forse non sapesse cosi ben disciorre. Il Peretto si scusò, allegando che non poteva venire per alcune sue occupazioni ; ma il Forno, che senza il maestro disputar non voleva, montò a cavallo e, giunto a Bologna, tanto seppe dire che condusse il Peretto a Modena. Venuto il giorno de la disputazione, sali in catedra il giovine filosofo e molto galantemente le sue conchiusioni propose. Quei nostri frati che gli argomentarono contra, perché era ne la chiesa nostra, non la volsero intendere troppo [p. 359 modifica]NOVELLA XXXVIII 359 per minuto, non argumentando ad altro fine se non per onorarlo. Vi furono degli altri assai di varie religioni e secolari, che contra gli argomentarono a la meglio che seppero, a tutti i quali il Forno accomodatamente rispose, e si diportò di sorte che fu da tutti sommamente commendato, perciò che dottamente le sue conchiusioni sostenne ed ingegnosamente gli intricati nodi degli altrui argomenti disciolse, mostrando in ogni cosa ingegno e memoria. Finita la deputazione, fu il Forno a casa onoratamente condotto, ove a tutti quelli che l'accompagnarono diede una magnifica collazione. Il Peretto, che voleva il di seguente tornarsene a Bologna, disse al Forno : — Messer Gian Francesco, voi con qualche mio disconcio m’avete condutto a Modena, e sonci venuto volentieri per onorarvi e veder come vi sareste portato nel combattere. Il tutto è andato bene e con vostro grande onore e consolazione dei vostri amici e parenti, del che vosco me n'allegro. Ora che cosa mi mostrarete voi di bello in questa vostra città? — Fu risposto e dal Forno e da altri, che erano là di brigata, che in Modena ordinariamente v’erano di molte belle ed aggraziate donne, il palazzo del signor conte Guido Rangone e fratelli, alcune belle sepolture, bei lavori, una bella torre e quella cosa che ciascuno sa e si spesso si nomina, chiare e freschissime fontane. Ultimamente disse uno che ci era un assai bel tempio dei monachi di san Benedetto, edificato a la moderna. — Or andiamo fin là — disse il Peretto. E cosi in compagnia di molti, che per onorarlo andavano seco, s'inviò verso San Pietro. Farò qui un poco di digressione a ciò che maggior piacere de la novella possiate prendere. Era il Peretto un omicciuolo molto picciolo, con un viso che nel vero aveva più del giudeo che del cristiano, e vestiva anco ad una certa foggia che teneva più del rabbi che del filosofo, e andava sempre raso e toso; parlava anco in certo modo che pareva un giudeo tedesco che volesse imparar a parlar italiano. Ora tornando ove lasciai, poi che ebbero il tempio assai a bastanza contemplato, usciti di quello, cominciarono a venir per la strada dritta che conduce al convento dei frati carmelitani; e giunti al mezzo di detta contrada, furono veduti da due assai belle e festevoli donne, che per ¡scontro l’una [p. 360 modifica]360 PARTE TERZA a l’altra a dui balconi stavano a pigliar fresco e ragionare. Una di loro, veduto venire il Peretto con si gran compagnia, disse a la compagna, credendo fermamente ciò che diceva: — Compagna, non vedi Abraam giudeo, come ne viene in qua ben accompagnato? Egli deve oggi aver fatto banchetto, o che fa qualche gran festa a la ebrea, che ha tanta gente seco. — Si certamente — rispose l’altra, — egli deve nel vero aver fatto nozze. Mira come ne viene con gravità! — S’appressava tuttavia il Peretto e veniva sotto le finestre ove erano le due donne, le quali fermamente credevano lui esser Abraam giudeo, cosi d’aspetto e di vestire il simigliava. Il perché una de le donne, alquanto più baldanzosa de la compagna, come il Peretto fu dinanzi a loro, festevolmente ridendo gli disse: — In buona fé, Abraam, se tu ci avessi invitate a coteste tue nozze o sia banchetto che fatto hai, che noi in compagnia de le tue giudee ci saremmo volentieri venute. Noi diciamo bene a te, messer Abraam, che vai cosi gonfio e sul tirato con questi nostri modenesi. — A queste parole il Peretto turbatissimo, alzata la testa, le disse: — Che diavolo dite voi? che diavolo è questo? Sono forse io reputato giudeo da voi, donne modenesi? Che venga fuoco del cielo che tutte v'arda! che in vero séte animali tanto stolti e goffi e in tutto pazzi, che il savio Platone sta in gran dubio se voi donne deve porre tra gli animali razionevoli o tra le bestie. E di noi più saggi assai sono i turchi, i quali non permetteno che in cosa civile né criminale a testimonio di donna si debbia dar fede, se bene fossero tutte le donne di Turchia insieme. — Le donne, udendo queste pappolate e nel viso al Peretto meglio guatando, s’accorsero ch’erano errate e si ritirarono dentro, non si lasciando più vedere. Ora tutti quelli che accompagnavano il Peretto non si poterono tanto contenere che non si risolvessero in un grandissimo riso de le donne ingannate e del lor filosofo beffato. Egli, lutto pien di corruccio e di mal talento contra le donne modenesi, ne disse tutti quei mali che seppe e puoté, e giurò che mai più Modena noi vederebbe. Ora non solamente era faci! cosa che in poca distanza il Peretto paresse a chi lo vedeva Abraam, e Abraam il Peretto; ma anco secondo che Abraam [p. 361 modifica]NOVELLA XXXVIII 361 era intento a l’ingiusto guadagno del bene del prossimo con la voragine de le sue usure, il Peretto altresi mostrava creder poco la immortalità de l'anima, che è fondamento di tutta la legge cristiana. E forse che nostro signor Iddio permesse che quelle donne profetassero. Ma, sia come si voglia, io credo che più siano ubligati a la natura quelli che di generoso e liberal aspetto sono dotati, che non quelli i quali, privati di bella presenza, più tosto mostri che uomini sembra