Novelle (Bandello, 1910)/Parte II/Novella LIX

Novella LIX - Sciocca semplicità d’un Tedesco, che avendo mandato il padrone a Corneto, glielo manifesta con sue sciocche parole

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Novella LIX - Sciocca semplicità d’un Tedesco, che avendo mandato il padrone a Corneto, glielo manifesta con sue sciocche parole
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IL BANDELLO

al magnifico

messer lorenzo zaffardo


Quando da la villa vostra vicina a Revero il mese passato mi partii, me n’andai giú a seconda per Po sino a Ravenna, ove dal nostro gentilissimo e vertuoso messer Carlo Villanova, quivi per la Chiesa romana governatore, fui tre di ritenuto e molto accarezzato. Ora avendo egli il secondo di nel monastero di Classi fatto preparare un solenne desinare ed una lauta cena, montati la matina a cavallo, con alcuni ravegnani in compagnia, quivi n’andammo, perché il monastero è circa tre miglia fuor de la cittá, vicino a la Pigneta, per la via che va a la volta di Cervia, ove il sale in gran copia si fa. E cavalcando per la Pigneta — ove per mio conseglio non è da caminare quando è gran romore di venti — avemmo gran piacere si per veder l’artificio che usano col fuoco a cavare fuori de le durissime pigne, come essi le chiamano, i pignuoli, ed anco per veder la moltitudine degli armenti quasi selvaggi che per la Pigneta pascono. Vedemmo altresi molte testuggini cosí terrestri come marine, di mirabil grandezza, ottime da mangiare. Ma piú d’ogni altra assai ce n’era una, vie piú grande senza parangone che non è la maggior rotella da fante a piè che mai si vedesse. Pervenimmo poi in un bellissimo pratello non di molta ampiezza, tutto circondato d’altissimi e spessi pini, ove tutto il giorno è in alcuna parte di quello ombra. E mirando e lodando molto la beltá del luogo, disse messer Carlo: — Io voglio che questa sera noi ceniamo su questa minutissima e verde erbetta, ché se non fosse tanto tardi, io manderei a prender il desinare. Ma il sole giá s’innalza, e meglio è che prendiamo il camino verso Classi, e IVI. Bandello, Novella. S [p. 114 modifica]ii4 PARTE SECONDA poi questa sera goderemo l’amenità di questo bellissimo luogo. — Cosi ci mettemmo in via, sempre a l'ombra cavalcando fin a Classi. Quivi trovammo Pandolfo di Mino, che ci aspettava ed aveva fatto l’ufficio del sescalco. Smontati adunque, essendo il desinare presto, data l’acqua a le mani, ci mettemmo a tavola. E parlando de la bellezza del luogo, disse Pandolfo: — Signor governatore, a ciò che voi sappiate, commune openione è dei ravegnani che questo sia il luogo ove Nastagio degli Onesti, amando la Traversara, quando qui si ridusse, vide il crudele strazio che di lei fu fatto da messer Guido degli Anastagi e da’ suoi fierissimi cani. — E ridendo ciascuno de la sciocchezza del volgo che le favole talora riputa istorie, dopo che desinato si fu, volle messer Carlo che la novella del Boccaccio, che seco aveva, de l’occorso caso, fosse letta. Ella nel vero attristò gli animi di molti come se vera stata fosse ed eglino si fossero a lo strazio trovati presenti ; onde si cominciò a dire che noi eravamo fuori per ricreazione e non per piangere. Il perché messer Carlo narrò una piacevol novella, la quale fu in gran parte risa ed assai gli ascoltanti allegrò. Questa adunque novella, al nome vostro scritta, vi dono, la quale credo vi sarà grata, si per esser detta da messer Carlo e da me, ché tutti dui vostri siamo, scritta. State sano. NOVELLA LIX Sciocca semplicità d’uti tedesco che avendo mandato il padrone a Corneto glielo manifesta con sue sciocche parole. Poi che io, per farvi legger l’artificiosa novella del Boccaccio de lo strazio fatto de la giovane dei Traversari, sono stato cagione di contristarvi, a ciò che debita penitenza ne faccia e con medicina contraria curi la vostra malinconia, forza m’è di farvi ridere. Onde per ora non ci essendo altro che dire, farò che la mano che ha fatto la piaga, quella anco la sanerà. A ciò adunque che rider possiamo, vi dico che nel tempo che Mas- simigliano Cesare era con quella numerosissima oste a torno [p. 115 modifica]NOVELLA LIX "5 a Padova, un gentiluomo vicentino, che con la famiglia in Mantova s’era ridutto, m’affermò che non molto innanzi la guerra e rotta di Giara d'Adda venne un tedesco giovine e s’acconciò in Vicenza con un gentiluomo per famiglio di stalla, perché altro essercizio non sapeva fare che acconciar cavalli. Egli era d’assai piacevole e buon aspetto, ma tanto sempliciotto che ogni cosa se gli saria data ad intendere. Il gentiluomo con cui s’era messo sopra ogni cosa si dilettava d’augelli ed al tempo suo ogni giorno era a cavallo a far volare; e veggendo che il tedesco non attendeva ad altro che a la stalla, gli diede anco la cura di tener netti gli stivali e rendergli, ungendogli di grasso, molli. Del resto nessuno lo molestava. Era Arrigo — ché cosi il tedesco si chiamava — di ventiquattro in venticinque anni, né ancora aveva provato che cosa fosse rimetter il diavolo ne l’inferno. E perché egli mangiava da lavoratore e beveva a la tedesca, il guardiano degli orti gli dava grandissimo impaccio, e quasi di continovo teneva l’arco teso, non sapendo che rimedio farai suo male. Ma poi che vide ed alcune volte provò che gli stivali del suo padrone, essendo durissimi, per esser unti di grasso e messi al sole, divenivano pastosi e molli, s’imaginò il semplice giovinaccio d’aver trovato il modo d’intenerire e far molle la sua faccenda. Onde cominciò col grasso, essendo sbracato, al sole ungerla; ma per questo niente faceva e la piva stava più gonfia che mai e punto non si mollificava: di che egli di mala voglia si ritrovò, pensando perciò che bisognasse perseverare e ogni di adoperar de l’unto. Ora avvenne che una volta la moglie del vicentino, essendo andata nel cortile a far certe sue bisogne, vide dietro la stalla Arrigo al sole con la lancia in resta, che quella di grasso ungeva, e parvele pure la più dolce cosa e bella del mondo, perché era bianca come neve: e le venne grandissima voglia di provarla e veder come la si manteneva] su la giostra, e tanto più quanto che quella del marito non era appresso la metà cosi grossa né nervosa. Onde non ¡stette molto che fece domandare Arrigo e cominciò seco a ragionar del governo de la stalla. E veggendo che non ci era persona presente, gli disse: — Arrigo, io non so quello che di te mi dica, quando penso che in quindeci giorni [p. 116 modifica]PARTE SECONDA hai consumato più grasso intorno agli stivali di messere che non farebbe un altro famiglio in tre mesi. Che cosa è questa? Io dubito che ne faccia altro e che lo vendi. Dimmi la verità, ch’io la vo’ sapere: che cosa ne fai tu? —Intendeva Arrigo quasi ogni cosa che se gli diceva, ma non sapeva poi in italiano ben isprimere il suo concetto; pure semplice anzi scioccamente a la padrona rispondendo, le confessò il fatto come stava. E per meglio farsi intendere, si slacciò il braghetto e prese la sua lancia in mano, e a lei, che già tutta gongolava ed aveva la saliva a la bocca di provar come a le bòtte reggesse, mostrò come il grasso adoperava, soggiungendo che quella medicina giovamento né profitto alcuno gli recava. — Mai si — disse alora la donna — che tu sei un bel fante ! Ben sai che codesta è una sciocchezza e nulla vale a questa tua infermità. Ora io ti vo’ insegnare un ottimo rimedio; con questo patto: che tu altrui non lo ridica già mai. Vieni, vieni meco, e vederai quanto tosto io te lo farò, questo tuo piuiolone, dico, divenire più molle che una pasta. — Era il marito fuor de la città e in casa non si trovava di chi la donna avesse a temere; onde conduttolo in una camera, seco amorosamente trastullandosi, volle che egli cinque volte nel suo grasso s’ungesse. Questa medicina, oltra che mirabile al tedesco parve, piacque meravigliosamente a tutti dui; ed ogni volta che commodità v’era e sentiva crescersi roba a dosso, con l’unto de la padrona ammorbidava il fatto suo. Ed avendo Arrigo l’animo più a questo unto che a quello degli stivali, volendo andar il padrone a far volare, avvenne che un giorno trovò gli stivali non esser né netti né unti, di che fieramente entrò in còlerà. II buon Arrigo non sapeva che dire. Ed il padrone a lui : — Come vuoi tu — disse — che io faccia, tedesco ubriaco che tu sei? come farò mò io, brutto poltrone? Questi stivali sono tanto duri e secchi che né tu né altri me li potrà calzare già mai. Che ti vengano mille cacasangui, asino da basto! — Temendo Arrigo non avere de le busse: — Non vi turbate — disse, — non vi turbate, messere, ché io in un tratto gli farò venir molli. — Tu farai il gavocciolo che ti venga, sozzo cane, unto, bisunto! —rispose il padrone. Arrigo alora, che lo vedeva di più in più accendersi in còlerà, mezzo fuor di sé, [p. 117 modifica]N0VEL1.A LIX 117 scioccamente gli disse: — Si farò io, messere, se voi avete un poco di pazienza, perché un tratto solo che io gli metta nel ventre di madonna, vi so dire che si mollificheranno. — Volle il padrone intender il modo di cosi subita mollificazione; il che l'ubriaco tedesco puntalmente gli scoperse. Onde veggendosi esser fatto signor di Corneto, per alora altro non disse se non che più non voleva cavalcare. Indi poi, passati alcuni pochi di, disse al tedesco che andasse a trovarsi padrone, perché più di lui servir non si voleva. FINE DELLA PARTE SECONDA. . '