Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXXI

Terza parte
Novella XXXI

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Terza parte - Novella XXX Terza parte - Novella XXXII

Un giovine milanese, innamorato d’una cortegiana in Vinegia,


s’avvelena veggendosi da quella non esser amato.


Vinegia, gentilissima signora, come ciascuno può sapere che vi sia qualche tempo dimorato, è cittá mirabile per lo sito ove si trova tra quelli stagni marini fondata, e bellissima per i molti magnifici e ricchi palagi che vi si veggiono edificati. È poi, a mio giudicio, cittá molto libera, ove ciascuno, sia di che stato si voglia, può andar e star solo e accompagnato come piú gli aggrada, ché non v’è nessuno che lo riprenda o che ne mormori, come qui si fa; ché se un gentiluomo non mena una squadra di servidori seco, dicono che egli è un avaro, e se con troppa coda, diranno che egli è prodigo e che in quindici dí vuol logorare le sue facultá. V’è poi un’altra cosa in Vinegia, che ci è un infinito numero di puttane, che eglino, come anco si fa a Roma e altrove, chiamano con onesto vocabolo «cortegiane». Quivi intesi esser una usanza, che in altro luogo esser non udii giá mai, che è tale: ci sará una cortegiana, la quale averá ordinariamente sei o sette gentiluomini veneziani per suoi innamorati, e ciascuno di loro ha una notte de la settimana che va a cena e a giacersi con lei. Il giorno è de la donna, libero per ispenderlo a servigio di chi va e di chi viene, a ciò che il molino mai non istia indarno e qualche volta non irrugginisse per istare in ozio. E se talora avviene che qualche straniero, che abbia ben ferrata la borsa, voglia la notte dormire con la donna, ella accetta, ma fa prima intender a colui di chi quella notte è, che se vuol macinare, macini di giorno, perciò che la notte è data via ad altri. E questi cosí fatti amanti pagano tanto il mese, e si mette espressamente nei patti che la donna possa ricevere ed albergare la notte i forastieri. Ora d’una di queste sí fatte cortegiane s’innamorò, essendo io in Vinegia, un giovine nobile di questa cittá, il quale, non conoscendo la natura di queste barbiere, che senza rasoio radono fin sul vivo, cominciò né piú né meno a corteggiarla e vagheggiarla, come averebbe in questa terra fatto amando la piú nobile ed onesta donna di Milano. Ché se egli, come la vide e che gli piacque, fosse a buona cera andato a trovarla e dirle: «Signora, io son venuto a trastullarmi vosco per mezza ora», ella l’averebbe menato in una camera e giocato piacevolmente seco a le braccia; e a la prima scossa si sarebbe riversata suso un lettuccio e fatto di sé abondante copia al giovine; ed ogni volta che ci fosse voluto tornare, sempre sarebbe stato ben visto ed accarezzato. Ma egli, non si sapendo governare, s’appassionò di maniera de l’amor di quella, che non ardiva dirle motto, ma fieramente la guardava sospirando tuttavia. Ella, che subito se n’accorse, pensò, veggendolo riccamente vestito e d’aspetto liberale, che era un piccione di prima piuma e da cavarne profitto. Onde cominciò a pascerlo talora con la coda de l’occhiolino, facendogli assai buon viso; di che il semplice giovine impazziva. E pigliando pure un dí tanto ardire quanto la sua melensaggine gli dava, essendole appresso, le chiese di grazia con tremante voce un bacio. Ella cominciò a garrirlo e dirgli che era troppo presuntuoso e che ancora non l’aveva meritato. E da l’altra parte basciava amorosamente qualche altro uomo che quivi era. Poi, per piú dargli passione, diceva ad uno di coloro: – Andiamo un poco in camera a macinar dui sacchi di grano, – e cosí n’andava. Il misero giovine, piú impaniato che un augelletto nel visco, che vedeva colei esser ad altrui prodiga del corpo e a lui negargli un bacio, si sentiva di dolor estremo crepar il core. Durò questa berta piú di tre mesi; onde egli, disperato, ebbe modo d’aver acqua distillata mortifera, ed essendo ove ella era, molto affettuosamente, piangendo, la pregò che volesse compiacergli di star seco mezza ora in camera, e che farebbe da gentiluomo, donandole tanto che si contentarebbe. Ella mostrò sdegnarsi che avesse avuto ardire di chiederle cosí fatta cosa. Alora il giovine disse: – Io veggio che volete ch’io mora, ed io ne morrò, e voi restarete contenta. – E domandato un suo servidore che aveva in uno fiaschettino l’acqua stillata, quella tutta bebbe. Ritornò il fiaschetto al servidore, che non sapeva che acqua si fosse, e disse a la donna che restasse in pace. Ella, credendo che fosse una burla, se ne rise; ed egli, andato a casa e messosi a letto, la notte, senza che nessuno se n’accorgesse, morí.


Il Bandello a l’illustre e riverendo monsignor


Sforza Riaro vescovo di Lucca salute


Quanto sia biasimevole in ogni persona la superbia si può di leggero da questo comprendere: che generalmente in ogni compagnia tutti i superbi sono fuggiti e nessuno vuole il loro commerzio, ove per lo contrario gli umani e piacevoli sempre sono amati ed onorati. E nel vero l’inordinato appetito di voler precedere in qual si voglia cosa il compagno oltre i meriti grandi che la persona ha, sará sempre da’ sani ingegni stimato vizio. E stando la superbia in ogni sorte d’uomini male, come senza dubio sta, a me pare che ne le persone religiose stia malissimo, appartenendo a loro, che fanno professione d’umiltá, con opere virtuose a dar al mondo buon essempio. E facendosi il contrario, si dá materia di scandalo ai cristiani, come, pochi dí sono, qui in Milano avvenne in una solenne general processione, che dopo la rotta del campo dei veneziani in Giara d’Adda fu fatta, quando il re Lodovico di questo nome decimosecondo rivenne trionfando a Milano. Volevano i canonici regolari piú degno ed onorato luogo che i monaci di santo Benedetto, allegando alcune loro ragioni che sono stampate. E non potendo il detto luogo ottenere, perciò che messer Sebastiano Giberti, dottor canonista e vicario de l’illustrissimo e reverendissimo cardinal di Ferrara arcivescovo di Milano, non volse, mosso da prudente conseglio, che si facesse innovazione alcuna, alora i detti canonici non vennero in processione; il che diede assai da mormorar a tutto Milano. Avvenne quell’istesso giorno che essendo in casa di messer Giacomo Antiquario, uomo per buoni costumi, integritá di vita e buone lettere eminentissimo, molti gentiluomini, avendo egli fatto una eloquentissima e dotta orazione del trionfo del re, e parlandosi de la questione e lite mossa dai canonici, messer Nicolò da la Croce, iurisperito e piacevole gentiluomo, narrò una breve novelletta che assai ci fece ridere. Ed avendola io scritta, ve la mando e dono, a ciò che talora, quando dai vostri piú gravi studi vi sentite lasso, possiate, interlasciandogli, con la lezione di questa novelletta ricrearvi alquanto, non si disdicendo ad ogni grave ed onorato personaggio con onesta urbanitá talora sollazzarsi. Si legge che il grande Scipione Africano spesse fiate per via di diporto andava insieme con il suo Acate Lelio su per lo lito del mare, cogliendo de le cocchiglie e dei sassolini che son per entro l’arena sparsi. Socrate anco, quel famosissimo filosofo, soleva dopo gli studii filosofici scherzevolmente con uno suo figliuoletto giocare. E cosí far si deve, a ciò che con l’animo piú svegliato ritorniamo agli affari di piú importanza. State sano.