Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXVIII

Terza parte
Novella XXVIII

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Fra Michele da Carcano predicando in Firenze


è beffato da un fanciullo con un pronto detto.


Non sono ancora molti anni che tutta Italia era in arme e tumulti. Il duca Galeazzo Sforza era stato in Milano nel mezzo de la chiesa di Santo Stefano da Andrea Lampognano e suoi conscii morto, per la cui morte tutto quel ducato andò sossopra, tirando la duchessa moglie del morto duca le cose con Cecco Simonetta ad un modo, e Lodovico Sforza con Roberto Sanseverino facendo ogni sforzo per levar il ducato de le mani a Cecco. Ferrando re di Napoli teneva Alfonso duca di Calabria suo figliuolo con grosso essercito contra i fiorentini, e i veneziani s’apparecchiavano cacciare Ercole da Este del ducato di Ferrara. Il papa e gli altri prencipi d’Italia erano con questi e con quelli collegati. Maumete imperadore de’ turchi, sentendo queste divisioni tra’ prencipi italiani, avendo sempre avuto l’animo ad occupar Rodi e la Italia, giudicò le nostre dissensioni esser a suo profitto. Il perché con armata di mare occupò e prese Otranto, cittá del regno di Napoli, posta nei confini di Calabria e de la Puglia, che divide il mar Ionio da l’Ausonio, e per iscontro al lito de la Vellona, con poco spazio di mare, che l’Italia da la Macedonia divide. Vogliono alcuni che questo spazio di mare sia cinquanta e cinque miglia, ed altri che arrivi a sessanta. Io mi ricordo, navigandolo, averlo considerato e creduto che poco piú o poco meno possa essere. Certo è che il re Pirro deliberò l’una terra e l’altra con ponti maestrevolmente fatti congiungere; ed il medesimo pensiero ebbe Marco Varrone, essendo prefetto de l’armata di mare sotto il magno Pompeo, al tempo che egli purgò i mari de le robarie dei corsari. Ma l’uno e l’altro, da altre cure distratti, lasciarono stare cosí gloriosa impresa. Divolgata per Italia la presa di Otranto per i turchi, empí di spavento tutti i signori e popoli italiani, veggendo il commun nemico del nome cristiano aver posto il piede in Italia e poter d’ora in ora con una velificazione soccorre i suoi. E nel vero si dubitava forte de la rovina di tutta Italia, se la providenza di Dio non provedeva, ché prima che i turchi potessero fermar il piede ed allargare l’imperio vicino ad Otranto, Maomete loro imperadore morí. Il che fu cagione che non dopo molto Otranto si ricuperò, non potendo esser soccorso dai turchi, perciò che come Maumete fu morto, Baiazete suo maggior figliuolo, volendo de l’imperio impadronirsi e ritrovandosi ne la Paflagonia vicino al Mare maggiore, fu da le genti di Zizimo suo minor fratello impedito, il quale Zizimo era a Iconio ne la Licaonia. Essendo dunque la discordia tra questi figliuoli di Maumete, Achinato che aveva a nome di Maumete occupato Otranto, sforzato da Alfonso che era ito a quell’assedio, non potendo aver soccorso, con onesti patti si partí, e fu cagione poi di dar l’imperio a Baiazete. Ora, essendo Achinato in Otranto, e tutta Italia in grandissimo timore de’ turchi, il papa cominciò a far predicare la crociata contra gli infedeli a ricuperazione di Otranto; e cosí per tutta Italia ad altro non si attendeva che a predicare e bandire la croce contra i nemici de la fede. E perché la cosa era di grandissima importanza, il papa elesse molti famosi predicatori di varie religioni a questo mestiero, tra i quali ci fu frate Michele Carcano, gentiluomo milanese, de l’ordine di san Francesco, di quelli che portano i zoccoli. Egli era cosí grasso e corpulento che non piú fra Michele, ma frate Michelaccio da tutti era chiamato. Fu dunque per commessione di papa Sisto mandato a Firenze a predicare la santa crociata; il quale cominciò le sue prediche, disponendo quella cittá a prender l’arme in favore non solamente del re Ferrando ma di tutta la cristianitá, e che non guardassero che avessero guerra con quel re, che le sue genti aveva rivocate, ma che lo facessero per amore del ben commune; perciò che se i turchi ottenevano quella cittá di Otranto, averebbero in breve soggiogato tutto quel regno e poi sarebbero venuti in quel di Roma e di Toscana. Un giorno adunque che era tutta Firenze a la predica, e con somma attenzione era il sermone del padre ascoltato, egli cominciò a discorrere per la varietá dei tormenti che i turchi dánno a’ cristiani, e diceva: – Fiorentini miei, quando i turchi pigliano una cittá per forza, non pensate che perdonino a etá né a sesso. Egli non rispettano nessuno; tutti menano a filo di spada e fanno le maggiori crudeltá del mondo. Se prenderanno questa cittá d’accordio, se vi lasceranno vivere, vorranno tutte le vostre possessioni per loro e tutti voi per ischiavi, e mai non cessaranno fin che non v’abbiano fatto tutti rinegare il santo battesimo. Pigliaranno i vostri fanciulli piccioli e li circoncideranno come fanno i giudei, e se voi averete ardimento di contradire v’impaleranno. Le vostre figliuole non saranno ne le vostre braccia sicure, perciò che le piglieranno per ischiave e loro femine. Nostro signore Dio ci guardi da le lor mani! E che pensate voi che farebbero a me, che predico contra loro? Guai a me, guai a me, se io capitassi a le lor mani! – E replicando questo una e due volte in quel fervore di dire, e dicendo – E a te che farebbero, frate Michelaccio? – un picciolo fanciullo che era dinanzi al pergamo a sedere, udendo questo, si levò in piede e ad alta voce disse: – Padre, a voi non farebbero i turchi altro male se non che in vece d’un cappone v’arrostirebbero, perché sète molto grasso. – A questo piacevole ed arguto motto del fanciullo tutti si risolsero in tante risa che fu necessario che il buon frate dismontasse di pergamo, sapendo egli che ciascuno sapeva che i buoni capponi, quanto erano piú grassi, piú gli piacevano. Di modo che senza piú predicare si partí di Firenze, dubitando che ciò che il garzone aveva detto non gli fosse stato commesso di dire. E cosí una insperata parola una materia di tanta importanza fece divenire ridicola.


Il Bandello al magnifico signor Carlo Attellano


Tra l’infinite qualitá di pazzie che travagliano, affliggono e spesso rovinano de l’anima e del corpo l’uomo, credo io che l’alchimia e l’incantesimo siano de le principali, perciò che a me pare che in queste due quanto piú la persona s’essercita, quanto piú vi s’invecchia, tanto piú vi s’affatichi e desideri d’essercitarle. Che di molte altre specie di pazzia non pare che avvenga, veggendosi che mille occasioni, e massimamente l’invecchiare, fa che l’uomo ad altro rivolge l’animo, e di se stesso seco sovente si vergogna. Il che de l’alchimista non avviene, il quale quante piú prove, quanti piú esperimenti fa, quanti piú sofistici vede con i suoi ingegni riuscire, piú s’anima a seguir l’impresa, e spera o ritrovare la quinta essenzia, che io per me non so che cosa sia, o vero tiene per fermo aver cangiato il rame in buon oro od almeno in purgatissimo argento. E nondimeno, non seguendo l’effetto, subito iscusa l’arte e dirá la tintura non esser ben fatta, il fuoco essere stato di tristo carbone o di troppo forte, di modo che, con mille altri inganni ingannando se stesso, consuma la roba e la vita ed insieme con la Luna, con Mercurio e con queste loro ciance si risolve in fumo. Quell’altro con la Clavicula di Salomone, se egli la fece, e con mille altri libri d’incantagioni spera ritrovare gli occultati tesori nel seno de la terra, indurre la sua donna al suo volere, saper i segreti dei prencipi, andar da Milano a Roma in un atomo e far molti altri effetti mirabili. E quanto piú l’incantatore si truova ingannato, piú nel fare incantagioni persevera, accompagnato sempre da la speranze di trovar ciò che cerca. E quanti errori di questo ne seguano non accade parlarne, essendo il lor errore assai manifesto. Sovvengavi, signor Carlo, del tempo che quel nostro amico, per ottenere la sua innamorata, che mai non ottenne, fece de la sua camera un cimitero, avendovi piú teste ed ossa di morti che non è a Parigi agli Innocenti. Ora, a questi dí disputando di queste pazzie a la presenza de la signora Gostanza Rangona e Fregosa, il signor Giulio Cesare Scaligero col maestro del signor Ettor Fregoso, messer Gian Pietro Usperto, giovine per buone lettere e buoni costumi molto segnalato, dopo l’aver filosoficamente assai tra loro questionato e dette molte belle cose e utili, esso Usperto, per recreare alquanto gli animi degli ascoltanti, narrò un caso avvenuto a Bologna ad uno scolare, che per via d’incantesimi voleva esser amato. E perché mi parve da esser tenuto a mente, l’ho scritto e sotto il vostro nome publicato, a ciò che veggiate che qui e in ogni altro luogo io sono di voi ricordevole. State sano.