Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXVII

Terza parte
Novella XXVII

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Una giovane innamorata, inebriando la sua vecchia,


si ritruova col suo amante e si godono insieme.


Fu ne la mia patria, signora Leonora e voi cortesi giovini, un figliuolo del podestá di quella, giovine bellissimo e tutto grazioso, il quale s’innamorò d’una figliuola d’un nostro gentiluomo, e tanto seppe fare e dire, che ella se n’avvide e non ischifò rendergli buon contracambio, amandolo quanto si possa; il perché d’ambidui era un sol volere di trovarsi insieme. Ed ancora che la difficultá fosse grandissima, non cessava l’uno e l’altro andarsi imaginando tutto quello che gli poteva recar profitto; e massimamente la fanciulla, che di quindici anni era, aguzzava l’ingegno per trovar qualche mezzo. E mentre che si stava in questi avvisamenti, avvenne che devendo farsi certe nozze nel licenzioso tempo del carnevale, il padre de la fanciulla con tutta la casa vi fu di tre dí innnanzi invitato. Ella, parendole che la fortuna le mostrasse ed aprisse la via a’ suoi piaceri, finse sentirsi alquanto cagionevole de la persona; onde il padre il dí de le nozze la lasciò in casa con una vecchia che le servisse. Ella, imaginandosi che cosí devesse essere, aveva con una lettera avvisato l’amante quanto voleva che facesse. Aveva il padre di lei ne le vòlte alcune botte divino di Monlia, che suol esser bianco e dolce quanto mèle; onde la giovane disse a la vecchia: – Madre mia, i nostri sono iti a nozze, ed io non voglio perciò che voi digiuniate. Egli v’è de la carne e vi sono de l’altre cose; ma io voglio che voi facciate de le carbonate del porco e beviate del buon vino bianco, e che stiamo su le grazie. Io, madre mia, me ne starò col mio polletto e col vino mischiato con l’acqua cotta. – La vecchia, a cui sommamente piaceva il buon vino, come a tutti i vecchi per l’ordinario piace, cominciò a ridere e dire che era ben fatto, e tanto piú che, quando messere ci era, ella non ne poteva mai bere, non che assaggiare una gocciola. E cosí tutte due desinarono insieme, e, trovando la vecchia il vin bianco molto buono, mangiando tuttavia de la carbonata, che era salatissima, ne trangugiò piú di sette gran bicchieri senza mettervi punto d’acqua. Ora non si finí il desinare, che la vecchia cominciò a tavola a confermar tutto ciò che la giovane diceva, non potendo sostenere il capo dritto, per averle la fumositá del vino ingombrato il cervello. Né guari stette che si lasciò, oppressa dal sonno, cadere in terra. La giovane, veggendo il suo avviso aver luogo, per meglio assicurarsi, cominciò a tirar il naso a l’addormentata vecchia ed agramente a stringerle le carni e dimenarla; ma il tutto era fatto indarno. Il perché, fattasi ad una finestra, stava aspettando che il suo amante si lasciasse vedere; il quale, secondo l’ordine scrittogli, comparve e, avuto il segno che aspettava, per via d’un giardino che era dietro la casa, a la sua innamorata pervenne, la quale desiosamente lo accolse, tutti dui con infiniti e soavi baci e strettissimi abbracciamenti si fecero le piú amorose accoglienze del mondo. Dopo questo gli fece vedere a che caviglia la buona vecchia aveva legato l’asino; e non volendo perder cosí buona occasione, si ridussero dentro una camera, ove il giovine, con qualche poco di resistenza nel principio, amorosamente con la sua fanciulla si giacque. E non sapendo quando piú devessero aver acqua al lor molino per macinare cosí comodamente come allora, fin che il giovine ebbe del grano ne le bisacce attesero a macinare dolcemente, con gran piacere di tutte e due le parti. Venuta poi la sera, la buona vecchia se ne stava pure sonnecchiando ed ancora non aveva digesto il vino. Onde, per mettere un poco di grano ne le bisacce, fecero i dui amanti una grassa collezione bevendo del buon vino bianco. Dopoi, per non perdere tempo, ritornarono a macinare, e credo che dessero ordine di poter altre volte trovarsi insieme. Quando poi parve al giovine tempo di partirsi, essendo la notte oscura, per la medesima via ove era entrato se ne uscí e a casa se n’andò molto consolato, lasciando anco la sua innamorata piena di grandissimo piacere.


Il Bandello al magnifico dottor di leggi messer


Francesco Maria Trovamala salute


Azzio Bandello mio avo fu uomo molto dotto, negli studii de l’umanitá e de le civili leggi assai famoso, come voi potete ricordarvi che, essendo egli d’ottanta anni, quando noi tornavamo da la scuola del nostro dotto messer Gerardo Canabo, lo trovavamo sempre accompagnato da molti clientuli che a lui per conseglio ricorrevano. E perché era di natura festevole e piacevole molto, e a tutto ciò che si diceva soleva di continovo aver qualche bel motto arguto e a proposito, era da tutti detto «messer Azzio dai proverbii». Egli soleva dire che molto spesso nei parlari gravi e di grandissimo momento avvengono certi accidenti che impensatamente rendono una materia, di grave, ridicola, e per lo contrario, talora, di ridicola, grave. Che una cosa di grave venga ridicola, vedemmo, essendo noi ancora fanciulli, quando in Castelnuovo, piatendo i Grassi con i Torti in materia d’un omicidio, e volendo il signor Galeazzo Sanseverino che la cosa fosse dinanzi a lui disputata per metter pace tra quelle due nobili famiglie, uno dei nostri dottori, che era da tutti chiamato «Necessitas», perché la necessitá non ha legge, avendo studiato un conseglio di messer Alessandro da Imola, che consigliava in simil caso e metteva quello esser avvenuto tra Tizio e Sempronio, poi che messer Antonio Curzio ebbe dottamente in favore dei Grassi detto circa due ore, domine Necessitas si levò e, presa licenza dal signor Galeazzo, come si costuma, di parlare, cominciò a dire: – Signore, in questa materia criminale che verte tra Tizio per una parte, e Sempronio per l’altra, la ragione civile dispone che Sempronio sia e che Tizio abbia. – E mai non seppe uscire di Tizio e Sempronio, di modo che, risolvendosi tutto l’auditorio in riso, la cosa, che era criminale e grave, divenne ridicola e per quel dí fu messa in silenzio. E narrando io questa facezia a Genova, ove erano molte persone, messer Speraindio Palmaro, uomo di memoria tenacissima e di grande esperienza, narrò un caso avvenuto ad un religioso che predicava, ove si vede chiaramente che uno picciolo motto rende le cose di grandissima riputazione ridicole. Ora, avendo io questa cosa scritta secondo che egli la narrò e al numero de le mie novelle aggiunta, quella vi mando e dono, la quale anco sará commune a vostro fratello messer Andrea, che oggidí ne l’Accademia ticinese, tra i filosofi e i medici leggendo, disputando e curando, tiene onoratissimo luogo, essendo voi da l’altra parte tra i dottori di leggi uno Scevola, un Paolo e uno Ulpiano. State sano.