Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XX
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Novella XX
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Una solennissima beffa fatta da una donna al marito,
con molti accidenti, per via d’incantagioni.
Se la beffa, valorosa signora mia, fatta al vostro carrattiero ha fatto rider la brigata, non è meraviglia, perché di rado avviene che come veggiamo cascare chi si sia, pur che non si faccia male, non si rida, cosí anco qualunque volta si fa qualche beffa, pare che l’uomo tener non si possa che non ne rida. Ma io ora non vi vo’ parlar di queste beffe ridicole e da scherzo, avendo per le mani una novella accaduta non è molto in questa nostra cittá di Milano, per la quale si conoscerá ciò che alcune donne sanno fare quando vien lor voglia di cavarsi un appetito. Fu adunque, per non vi tener piú a bada, mandato da un prencipe d’Italia in questa cittá uno ambasciatore molto nobile e ricco, che aveva per moglie una bellissima giovane, nasciuta ne le prime ed onorate famiglie di questi paesi; a ciò che egli stesse appresso al duca come si costuma. Questi, conoscendo che aveva a star fuor di casa qualche tempo, condusse la bella moglie a Milano ed ebbe per alloggiamento il palazzo appo San Giovanni in Conca, che fu la corte antica del signor Bernabove Vesconte, che, come sapete, è molto grande e capace d’ogni gran famiglia. Quivi condutto e del tutto proveduto, se ne dimorava l’ambasciatore con la moglie; la quale, essendo molto bella e oltra questo assai aggraziata e vertuosa di sonare e cantare, era tutta il dí visitata e, come si dice, corteggiata da tutta la nobiltá di Milano. Né v’era uomo nessuno d’ingegno o di qualche vertú dotato che non vi si trovasse, ed ella a tutti faceva buon viso e secondo il grado loro li raccoglieva, ed ora questi ed ora quelli teneva seco a mangiare. Il marito, che era liberale e magnanimo, mostrava aver piacere che la moglie di questa maniera fosse onorata. Fu in quei dí mandato un altro ambasciatore a Milano da un altro principe, che era giovine ed uomo molto dedito a le servitú de le donne, e per conseguir l’amore e la grazia di quella che piacciuta gli fosse, non lasciava cosa a fare, ma spendeva e donava largamente. Questi per ora sará da noi chiamato, non senza ragione, Vittore, non volendo io per convenienti rispetti metter i proprii nomi di qual si sia de le persone che nomerò in questa mia novella; e l’altro ambasciatore da me si dirá Ferrando, e la moglie Filippa nominaremo. Vittore adunque, cominciando a prender domestichezza in casa di Ferrando, vi si fece molto domestico; e piacendogli incomparabilmente la pratica de la Filippa e a lei quella di Vittore, in modo insieme si domesticarono che questa domestichezza si convertí in un ferventissimo amore. Onde avendo ogni dí e ogn’ora la commoditá di parlare insieme, si discopersero i loro amori e seppero cosí ben condurre la lor trama che amorosamente insieme talora si trastullarono. Ma meno che discretamente questa loro pratica usando, fecero cosí che tutto Milano non che i domestici loro se n’accorsero. Ferrando, che che se ne fosse cagione, non mostrò mai di cosa alcuna avvedersi; onde era general openione, perciò che in tutte l’altre sue azioni aveva del saggio e de lo scaltrito e negoziava molto prudentemente gli affari del suo prence, che la moglie l’avesse con qualche malia guastato. Piacendo poi a lei molto piú la pratica di Vittore che quella del marito, entrò in questo umore di voler che ogni notte egli si giacesse con lei. E per quanto apparteneva ai servidori de l’uno e de l’altro padrone, la cosa era facile, perciò che in casa di Vittore non v’era uomo che non sapesse il padrone loro esser de la moglie di Ferrando innamorato e goder i suoi amori. Gli uomini poi e le donne di Filippa lo conoscevano chiaramente, e nessuno perciò ardiva farne motto a Fernando, conoscendolo che ne l’altre cose essendo avveduto e saggio, in questo era poco avvisto, ché dava troppo fede a la moglie, come in molte cittá d’Italia fanno ordinariamente quasi tutti i mariti. Era del mese di maggio, che il caldo suole molte fiate stranamente crescere; e nel vero quell’anno cominciò l’aria ad esser molto calda, e se altrove il caldo è fervente, in Milano è egli a simile stagione ferventissimo. Ora cominciò madonna Filippa tutta la notte a dimenarsi per il letto e mormorare del gran caldo che faceva, che non la lasciava né dormire né riposare. Il marito, veggendo questi rammarichi de la moglie, disse: – Io non sento giá cosí gran caldo come dici che senti, ma per accomodarti io farò porre in un lato de la camera il mio letto da campo e ti lascerò dormir sola. – Veggendo ella che il suo disegno cominciava a riuscire: – E’ si può, – disse, – fare ciò che voi volete –. Conosceva la donna il suo marito esser il piú pauroso uomo del mondo e che d’ogni minimo strepito che sentisse la notte moriva di paura, né averebbe avuto ardire la notte andar per casa se non era ben accompagnato e col lume; ed oltra questo, come si parlava di morti o che in qualche luogo si fossero sentiti spiriti, stava dui o tre dí che non era, d’estrema paura che aveva, su la sua. Onde la donna, avendo corrotti tre dei piú arditi servidori di casa e medesimamente alcune de le donne, e l’animo suo communicato con l’amante, si dispose di far un’alta beffa al marito. L’amante, intesa la volontá de la sua innamorata, e parendogli che di leggero poteva venir fatto che comodissimamente ogni notte egli con lei si giacerebbe, mandò per un buon compagno che di lungo tempo conosceva, il quale sapeva meglio contrafar la voce di molti augelli e di molti altri animali che altro che si sapesse, e lo fece venire in casa sua. E perché in Milano non era conosciuto, gli impose che in modo alcuno non facesse verso d’augello né di bestia. Aveva la buona moglie fatto contrafare tutte le chiavi che le parvero esser di bisogno a la sua impresa, e quelle date a Vittore. Ora essendo il tutto messo ad ordine, Vittore con quattro suoi servidori e col giovine che nuovamente aveva fatto venire, che Gabbadio si chiamava, si vestí la notte con costoro di maniera che parevano diavoli. Ed avevano in capo certe gran corna piene di fuoco artificiato, che rendeva fuoco e fumo come essi volevano, e da le spaventose mascare che al volto avevano gittavano talora fiammelle a modo di raggi. Questi, cosí bestialmente mascherati, entrati in casa di Ferrando, se n’andarono vicini a la camera dove egli e la moglie dormivano, e quivi in sala e sovra una loggia facevano un trescare proprio da demonii; e Gabbadio, ora contrafacendo l’asino, ora il bue ed ora qualche augello, faceva proprio parere che quei veri animali fossero quivi presenti. Il perché il mastro di casa di Ferrando, uomo attempato, ed altri servidori di casa saltarono fuori di camera. Ma come videro, al parer loro, i demonii, ad alta voce gridando, si ritirarono ben tosto ne le camere loro. Il medesimo fecero quelli che la donna aveva corrotti, i quali, de la favola consapevoli, gridavano: – Iesus! Ave Maria! questi sono diavoli de l’inferno! – E replicato questo due e tre volte, si chiusero in camera. Ferrando, come sentí il romore e udí dire, «Iesus» e «diavoli», tremando come una foglia al vento, saltò fuor del suo letto e corse in quello de la moglie, gridando: – Oimè, Filippa! Non senti tu ciò che sento io? – La donna, fingendo altamente esser addormentata, si lasciò dar piú di dui punzichioni prima che facesse vista d’essersi destata: poi, tutta scotendosi, paurosamente disse: – Oimè! Chi mi tocca? Chi è qui? – E finse voler saltar fuor del letto. Ferrando, abbracciatala: – O anima mia, – disse, – io sono il tuo marito. – Deh, vi perdoni Dio! – rispose ella un poco sdegnosetta. – Io dormiva troppo bene. Che volete voi? – Oimè! – soggiunse Ferrando, – non senti tu lo strepito e il romore che in casa si fa? ché certamente la casa è piena di demonii. Eccoli che picchiano per la sala ed urlano. Iesus, aiutami! – E mille segni di croce si faceva. La donna ridendo: – Io credo, – disse, – che voi sognate. Io non sento nulla. Queste sono de le vostre, che non potete sofferire di lasciarmi dormire. – Era in effetto il romore grandissimo, con certi urli e spaventose voci che i piú sicuri uomini del mondo in quell’ora averebbero spaventati. La donna, che fingeva non sentire, uscita di letto, se n’andò ad un materazzo ove dormivano due de le sue donne pur in camera, le quali, seguendo il comandamento de la padrona, facevano vista di dormire. Era acceso il lume in camera. Il perché elle, come se da la madonna fossero state destate, in modo di sonnacchiose le dissero: – Che commandate voi, signora? – Ella alora quasi sorridendo disse: – Non vedete voi il mio consorte, il quale dice che ode e sente grandissimi romori e s’è fuggito nel mio letto? – Le damigelle, fingendo le vergognose, come se avessero voluto dire che il padrone colá s’era corcato per trastullarsi, fecero cotali atti e dissero: – Andate, andate, signora, e sarete la sposa. – Ferrando, sentendo questo e veggendo che anco le donne dicevano che non sentivano romore alcuno, voleva arrabbiare, sentendo tuttavia gridi, urli e strepiti fuor di modo. La donna alora disse: – Io dubito, marito mio, che ier sera voi non bevesi troppo e che il cervello vi vada a sparviero. Egli è pure gran cosa che di noi tre nessuna senta cosa alcuna e che voi sentiate le meraviglie. Io non so che mi dire. Ma se vi dá l’animo di uscire di camera, io verrò con voi, e vederemo che diavoli sono cotesti, e trovarete che pigliate lucciole per lanterne. – Non fu mai possibile che Ferrando volesse accordarsi di lasciar aprir l’uscio, volendo anco le due damigelle uscire con la padrona. Durò questa berta piú di tre ore. A la fine i mascarati si partirono e se n’andarono a casa. La donna si levò a buon’ora. Cosí anco Ferrando, il quale tutto di paura tremava né ardiva quasi andar per casa, massimamente avendo dal suo maestro di casa udito la strana forma e l’animo di quei demonii. Quelli poi che con la donna erano accordati dicevano le maggiori filostocche e piú meravigliose e stupende cose del mondo, aggiungendo tuttavia a ciò che veduto avevano. Si cominciò di questi spiriti a buccinare qualche cosa per Milano, perciò che tutta la famiglia di Ferrando non sapeva parlar d’altro che del gran romore ed urlare che quella notte s’era sentito. Ora, dopo desinare, essendo molti signori e gentiluomini in casa di Ferrando, e Vittore essendovi di compagnia, variamente di questo fatto si ragionava, parendo a tutti gran miracolo che ciascuno avesse sentiti quegli spiriti, eccetto la donna e le sue damigelle. E chi diceva una cosa e chi un’altra. Erano alcuni che affermavano questo poter avvenire perciò che quelli che avevano veduto e sentito le meraviglie non devevano esser cresimati. La donna se ne rideva, dicendo che tutti quelli, che si pensavano aver veduto e sentito questi miracoli, avevano la sera innanzi preso carta sovra trentuno e fatto sdraizza assai piú del devere. Vittore affermava sé non credere queste visioni e che in vita sua mai non aveva veduto né sentito cosa alcuna. Alcuni altri dicevano che non deveva esser meraviglia se in quel palazzo si sentiva cosa alcuna, perché infiniti uomini colá dentro, nel tempo del signor Barnabò Vesconte, che fu crudelissimo signore, furono strangolati e con fierissimi tormenti fatti morire. Cosí ciascuno ne diceva il suo parere. Insomma tutt’era niente a par del timore che Ferrando aveva, il quale disse a la dona: – Moglie mia, egli sará ben fatto che facciamo porre dentro la nostra camera quattro o cinque letti, e che vi dormano tutte le tue donne e in due degli altri letti il maestro di casa con tre dei miei uomini per sicurezza mia. – Cotesto non voglio io, – disse la donna, – che altri uomini che tu dormino ove io ho il mio letto, perciò che prima non mi piace questo mescuglio d’uomini e donne; dapoi, avvenendo che voi altri sentiate romore alcuno che io non intendo come si sia, voi non mi lasciarete dormire. Ed anco, marito mio, io ti dico che se queste baie durassero, io vorrei che tu facessi una de le due: o che non ti movessi fuor del tuo letto per venirmi a destare, o vero che tu metta il tuo letto in un’altra camera. – Ora su queste tenzioni s’accordorono che per la seguente notte attenderebbero per veder ciò che seguisse, non facendo altra mutazione di letti. Nonostante questo, mandarono a pigliare il padre frate Vincenzo Spanzotto al convento de le Grazie, degli osservanti di san Domenico; e fecero che egli con l’acqua santa visitò tutta la casa e la benedí con salmi e altre orazioni, spruzzando il tutto con l’acqua benedetta. Era presente Vittore a tutte queste cerimonie; il quale la seguente notte, mascherato al solito, entrò nel palazzo e mandò dui dei suoi sovra il solaro de la camera ove Ferrando e la donna dormivano. Chi volesse contar il romore e lo schiamazzo che quella notte di sopra e di sotto si fece, averebbe troppo da fare. Ferrando, poi che ebbe un poco sostenuto, vinto da la paura, corse al letto de la moglie, la quale con le sue donne faceva vista di dormire; e quella, al suo parere, destata, si voleva disperare che ella non sentisse il battere che sopra il solaro sí grande si faceva, che pareva che la casa tutta dovesse abissare. La donna, facendo l’adirata, disse: – Marito mio, egli sará necessario che tu stia in una camera la notte ed io in un’altra, e di giorno poi potremo stare insieme, ché io conosco chiaramente che ad essermi di questo modo rotto il sonno, che impazzirei o caderei in qualche grave infermitá. – Perseverarono le maschere a fare le loro pazzie fin quasi al nascer de l’aurora. Il perché, venuto il giorno, vi fu da dire assai, non essendo stato uomo in quella famiglia a cui fusse bastato l’animo d’uscir di camera, perciò che di modo tutti erano impauriti che nessuno ardiva di scuotersi. Ed assai il dí se ne ragionò. Ferrando fece porre il suo letto in una camera in capo d’una loggia e volle che circa sette dei suoi in quella camera dormissero. Il perché conoscendo la donna il suo avviso riuscirle e di giá avendo del tutto avvisato l’amante, quella notte egli galantemente vestito andò a trovarla e menò seco le sue mascare, le quali altro romore non fecero vicino a la camera de la donna, che con Vittore rifaceva i danni passati, se non che Gabbadio tutta la notte contrafece ora il rosignolo ora la calandra, ora il lugarino, ora il fanello ed ora qualche altro augello di quelli che cantano piú melodiosamente. Ma gli altri compagni facevano ne l’altre parti il maggior strepito che fosse possibile, e massimamente vicino a la camera di Ferrando. Dormivano dentro la camera del padrone quei servidori che Filippa aveva corrotti, i quali al cominciamento del romore, veggendo che il loro padrone s’era levato e messosi in ginocchione a dir sue orazioni innanzi ad un crocifisso, avendo sempre il lume in camera acceso, gli dissero bravando: – Padrone, a noi pare che sia una gran vergogna la nostra e disonor vostro, che non abbiate servidore in casa a cui basti l’anima di voler vedere che cosa sia questa di tanti rumori che ogni notte si fanno. Io credo che sia ben fatto che quattro o cinque di noi usciamo e veggiamo ciò che questi spiriti sanno fare. – Il maestro di casa, che era buon vecchio e gli pareva la prima volta non aver ben veduto, desiderava veder meglio che cosa questa fosse; onde essortò il padrone che si contetasse che egli con coloro uscisse. Ma Ferrando non la voleva intendere. Tuttavia tanto fecero e dissero che si contentò. Apersero adunque l’uscio e saltarono fuora con loro arme in mano. Ma a pena erano usciti che i mascherati, che che troppo mai non s’allontanavano da quel luogo ma quivi d’intorno trescavano, gli vennero incontro urlando e facendo i piú strani atti del mondo, di modo che quelli che s’erano mostrati sí arditi ad uscire, fingendo morir di paura, corsero in camera e si lasciarono a posta cader su l’uscio, come gli era stato commesso. In questo le mascare, gettatti suoi fuochi artificiali, mandarono la fiamma fin in camera e passarono via di lungo, tirando dopo loro per terra alcune catene di ferro, che facevano tanto romore che pareva che il mondo volesse finire. Furono per forza tirati dentro quei servidori e chiuso l’uscio, avendo giá veduto quelli che in camera erano passar quelle mascare, che proprio parevano diavoli d’inferno. Ferrando, piú morto che vivo, diceva sue orazioni con piú segni di croce che non ha fiori primavera. Cessarono di far strepito gli spiriti mascherati e solamente s’udiva il canto di Gabbadio. Ma chi potria dire il piacere di Vittore e de la Filippa, i quali, per non aver paura, cacciavano piú che potevano il diavolo in inferno e del pauroso Ferrando si ridevano? Ora questi romori andarono tanto innanzi che Ferrando, non si ricordando di mai essere stato cresimato ne la sua fanciullezza, si fece cresimare dal suffraganeo de l’arcivescovo e pigliò Vittore per suo padrino, con speranza di non sentir piú romori. Ma il tutto fu indarno, non cessando le mascare di far l’ufficio loro. Il povero maestro di casa, che aveva voluto far il bravo ed uscir di camera del padrone con quelli che sapevano la rasa, ebbe tanto spavento che gravemente infermò, e non solo si pelò, lasciandovi la barba e i capelli, ma, come fanno le bisce, vi lasciò anco a poco a poco la pelle, e quasi se ne morí. Ebbe in quei dí Vittore da sua moglie un figliuolo e per commare prese Filippa, non cessando perciò, sempre che poteva, di giacersi con lei, credendo forse che fosse vero ciò che Tingoccio disse a Meuccio quando in sogno gli apparve. Ora andando la pratica di questa maniera, e per Milano non si ragionando d’altro che degli spiriti che in casa di Ferrando si sentivano, vi fu qualche gentiluomo che, sentendo questa baia e sapendo che per innanzi nulla mai s’era sentito dentro quel palagio, cominciò pensare ciò che era in effetto. Onde, communicato questo suo pensiero ad un altro gentiluomo suo carissimo compagno, deliberarono mettersi in aguato a quelle parti de la casa ove pareva loro che vi potesse entrar dentro. Onde una notte, veduto chiaramente venire Vittore con i compagni, che senza maschera ed abito erano, perché in casa si mascheravano, attesero l’uscita loro e gli diedero a dosso a colpi di buone cortellate. E andò cosí la bisogna che Vittore ebbe due ferite, e a uno dei suoi cadde l’abito da mascherarsi, che fu da li gentiluomini assalitori preso. Fu anco stranamente ferito Gabbadio, dandosi fine a la mischia senza che Vittore conoscesse chi l’avesse assalito, né che anco quegli altri conoscessero Vittore. Ma il dí seguente, sapendosi come il signore ambasciatore era ferito, vennero i gentiluomini in cognizione de la cosa e la tennero molto segreta. Da l’altra banda, sapendo Vittore che l’abito era perduto, non volle piú tenere quella via, non sapendo da chi guardarsi e dubitando di molti. Onde cessò quello romore che gli spiriti facevano, di modo che il buon Ferrando attribuí la cessazione di cosí malvagia tribolazione a le orazioni che ai monasteri di frati e monache faceva fare, che per questo avevano guadagnato di buone pietanze.
Il Bandello al prode e gentil signore
il signor Vincenzo Coscia patrizio napoletano
Egli mi sovviene d’aver altre volte letto in certe opere latine del nostro divino poeta messer Francesco Petrarca, che gli uomini che tengono servidori non ponno fallire a far modestamente sferzare i paggi fin che sono piccioli e non passano quatordici o quindeci anni, quando fanciullescamente errano, perciò che le battiture sono cagione di fargli emendare e divenire, di buoni, megliori. Onde disse il savio Salomone che chi non adopera la verga ha in odio il figliuolo; ma i servidori, che non si vogliono battere se non una volta: subito, pagandogli il loro servizio, mandargli con Dio e mai piú non gli ripigliare. Con i mori poi o schiavi comprati si faccia il medesimo, perciò che sono di pessima natura. Il che esser vero ci dimostrò a questi dí passati il moro di monsignor di Negri, abbate di San Simpliciano; il quale, avendo ricevuto un buffettone da esso abbate, la seguente notte gli segò le vene de la gola e l’ancise, ed era stato seco piú di trenta anni. E quando il perfido moro fu su il Broletto vecchio di Milano menato per farne publica giustizia, egli, ridendo, barbaramente diceva: – Squartatemi e fatemi peggio che sapete, ché se io ho avuto uno schiaffo, io me ne sono altamente vendicato. – Onde si può di leggero veder quanto periglioso sia ad impacciarsi con simil generazione. E di questa materia ragionandosi non è molto in casa de la signora Camilla Scarampa, e dicendosi che i genovesi l’intendono benissimo, perciò che avendo qualche schiavo o schiava che faccia cosa alcuna degna di castigo gli vendono o mandano in Evizza a portar il sale; il nostro piacevole messer Lione da Iseo narrò un mirabil caso avvenuto ne l’isola di Maiorica, che, nominandola a l’antica, è una de le isole Baleari. Il qual caso avendo io scritto e sapendo che voi, signori napoletani, mirabilmente vi dilettate di tenere schiavi, ve l’ho voluto mandare e farvene un dono. Io mi rendo certo che non a la picciola novelletta guarderete, ma che accettarete il buon volere de l’animo mio, avendo giá voi in altri affari ottimamente conosciuto quanto io v’ami e di che maniera feci con l’illustrissimo signor Prospero, nostro commune padrone, ne la cosa che voi e il nostro gentile messer Girolamo Gargano mi commetteste. Saperete ancora questa istoria essere stata latinamente descritta dal gran Pontano, né perciò debb’io restare di darvela tale quale l’Iseo la narrò. State sano.