Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XIX
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Novella XIX
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Paolina romana sotto specie di religione
è da l’amante suo ingannata ed i sacrificii d’Iside disfatti.
Noi siamo, signori miei, trascorsi per un ampio e cupo pelago de la corrotta vita de le persone dicate al servigio di Dio, avendo piú di bisogno i cattivi costumi loro di emenda che di riprensione. Perciò bisognarebbe por le mani, come si suol dire, in pasta e venire a la riformazione de la vita loro, essendo eglino quelli dai quali noi altri deveremmo prender l’esempio del ben vivere e non vedere le disconcie cose e le perverse opere che tutto il dí veggiamo. Io per me, dopo le cure domestiche, familiari e degli amici, non ritrovo assai spesso altro conforto che venir qui e star buona pezza con questi venerabili religiosi o con quelli di Santo Angelo, di San Pietro in Gessate o con simili monaci o frati osservanti, nei quali non si ponno vedere se non buoni costumi, e da loro ricever ottimi consegli per passar il corso di questa nostra perigliosa vita. Ed ancor che si veggiano degli altri che hanno il nome di religiosi e la vita tutta contraria a la professione che fanno, come molti ne sono in questa nostra cittá di Milano, non debbiamo perciò noi altri esser loro imitatori, né anco porre la bocca in cielo, ma fuggendo i tristi costumi loro lasciar la cura a chi appartiene di castigargli e dargli la debita punizione. Facciamo noi il debito nostro ed avvengane ciò che si voglia. Egli è ben perciò vero che i mali essempi sono cagione di grandissimi e strabocchevoli mali. Per questo, come benissimo sa messer Giacomo Antiquario che è qui, se il duca Lodovico Sforza non perdeva questo ducato, aveva giá messo ordine di voler riformare tutto il clero ed ogn’altra sorte de le persone religiose di questo dominio, supplicando il papa che astringesse i capi de le religioni, e i vescovi i loro preti, che ciascuno vivesse secondo gli ordini loro. Ma l’esser egli cacciato e fatto miseramente prigione ha vietato questa cosí santa, necessaria e lodevole opera. E forse che Dio un giorno spirerá la grazia sua al re nostro cristianissimo, che secondo che ha cominciato a far riformare il convento e frati di Santo Eustorgio, fará il medesimo nel resto. Ora sovvenendomi ciò che Tiberio imperadore fece a Roma a certi sacerdoti, dico che non istarebbe forse in tutto male che talora si facesse ad uno o dui di questi malviventi preti o frati, perché saria metter terrore agli altri a ciò che quello che operar non vogliono per amor de la vertú, facessero per téma de la pena. Volendo adunque narrarvi l’istoria, devete sapere che, signoreggiando in Roma Tiberio imperatore, fu un gentiluomo romano molto ricco, chiamato Saturnino, il quale prese per moglie una nobilissima giovine, che era de l’ereditá dei suoi parenti e patrimonii loro rimasa oltra modo ricca, di modo che a la casa del marito portò oro, argento e possessioni grandissime. Era poi tenuta una de le belle giovani che in Roma a quei tempi si trovasse. Ma quello che piú famosa e a tutti riguardevole la rendeva era la sua vera e pudicissima onestá, non pieghevole a qualunque persona si fosse, per argento od oro od altra cosa che sia. E tanto piú alora era in lei meravigliosa e lodevolissima la pudicizia quanto che di giá le donne romane, grandi e picciole e d’ogni grado e qualitá, avevano cominciato allargar il freno senza riguardo alcuno a le lascivie e senza téma di vergogna diventavano adultere, e facevano le cose cosí sfacciatamente come le meretrici publiche. Ed in tanto s’erano lasciate trasportare agli appetiti mal regolati, che se gli avi loro fossero ritornati in vita e avessero veduta la pompa de le vestimenta con tanto oro e sí preziose gemme e perle orientali, e udite le parole non convenevoli a donne e madonne oneste, e considerata la vita lasciva e poco pudica con quei modi ed atti meretricii, averebbero, pieni di meraviglia e insiememente di sdegno, detto quello non esser l’abito, non i costumi, non i modi, non le maniere, non la moderata vita, non la lodevole conversazione che a le figliuole loro avevano per ereditá lasciato. Né crediate che il viver degli uomini fosse in parte alcuna meno lascivo che quello de le donne. Quella creanza romana, quella avita vertú, quello antico valore, quella temperata vita e quei santissimi modi, che gli avevano l’imperio del mondo acquistato e con tanta gloria mantenuto, piú non si trovavano; di modo che l’uno e l’altro sesso era caduto ne la spurcizia d’ogni abominevol vizio. E quelli che romanamente vivessero e imitassero gli antiqui e buoni costumi erano molto rari, travarcando tuttavia il perfetto vivere romano di male in peggio. Di questi rari adunque personaggi, in cui l’antico valore ancora non era estinto, si poteva tra le oneste donne senza dubbio annoverare la bella ed onestissima Paolina, la quale, sinceramente amando il suo marito, attendeva a le cose de la casa che a le femine appartengono, in nessuna parte inferiore a l’antica Lucrezia, né a Cornelia madre de’ Gracchi od a Porzia di Bruto. Avvenne che un giovine romano di famiglia equestre, che Mondo si chiamava, vedute le bellezze e sagge maniere di Paolina, di lei fieramente a poco a poco, veggendola spesso, cosí acceso rimase che come non la vedeva gli pareva, vinto da estrema passione amorosa, di morire. Era l’ordine equestre mezzo tra i patrizii e i plebei, e in questo ordine Mondo di ricchezze era dei primi, e splendidissimamente viveva. Come egli si vide esser di Paolina invaghito e che senza la vista di lei la sua vita era peggio che morte, cominciò tutto il dí ove ella andava, o ai publici giuochi e spettacoli o ai tempii o in qualunque luoco ella andasse, a seguitarla, sperando con l’assiduo corteggiare e con doni d’acquistar l’amore e la grazia di lei. Ma ella, che di cosa che egli si facesse punto non si curava, faceva vista di non vederlo, né piú né meno a lui mettendo mente come ad ogni altro, che veduto avesse o che seco domesticamente si fosse messo a parlare, fatto avrebbe. Del che Mondo menava la vita in pessima contentezza, non li giovando cosa alcuna. Tuttavia, ancora che rigidissima la conoscesse ed aver un core adamantino e pieno di freddissimo ghiaccio, ove fiamma d’amore penetrar non poteva, deliberò con messi ed ambasciate tentare di conquistarla. Onde le scrisse una amorosa lettera e mandolle per messaggiera una scaltrita femina avvezza ad essercitare simili mestieri. Andò la donna e, trovata in casa Paolina che con le sue damigelle faceva suoi lavori, entrò con lei in ragionamento, fingendo certe sue favole. A la fine, dopo diversi parlari, le scoperse l’amore di Mondo, sforzandosi mostrare quanto il misero amante per lei ardesse, offerendole non solamente che egli era prontissimo a fare tutto ciò che ella gli comandasse, ma che di lui e d’ogni suo avere la farebbe padrona. Non sofferí Paolina di lasciar finire la rea femina quanto era per ragionare, ma, di giusto sdegno infiammata, fieramente si turbò e con villane parole da sé la messaggiera discacciò, e a Mondo mandò dicendo che mai piú non fosse cotanto ardito di mandarle né messi né lettere, se non voleva che male gliene avvenisse. E la lettera di Mondo, che la donna voleva darle, non volle né prendere né leggere, né piú udire da lei parole, anzi le comandò che per quanto aveva cara la vita non le venisse mai piú dinanzi. Ché se cosí audace e temeraria fosse che innanzi le ritornasse, che le farebbe fare sí fatto scherzo che ella perpetuamente di Paolina si ricordarebbe. Partí la disonesta messaggera tutta di mala voglia, e con le trombe nel sacco a Mondo se ne ritornò. Al quale, dopo che ebbe riferita la risposta di Paolina e tutto ciò che detto e fatto aveva, con molte parole il persuase a distorsi da questa impresa, perciò che, avendo ella infinite madrone romane tentate, combattute e vinte, non aveva giá mai trovata donna, di qual condizione si fosse, piú salda né piú aliena da cose lascive come era Paolina, e che le donava il vanto de la piú pudica e vertuosa giovane che in Roma fosse giá mai. Onde giudicava esser il tutto buttato via che per indurla ad amare meno che onestamente se le fosse fatto. Mondo, che era, come si dice, de l’amore di Paolina cotto, e che altro diletto od alleggiamento a le sue passioni non conosceva che la vista di lei, con molte parole assai si sforzò indurre la messaggera che con nuove ambasciate ritornar un’altra volta ci volesse e sí facilmente per una repulsa avuta non si smarrisse, e che vederebbe l’utile che da lui de le sue fatiche ne conseguirebbe. La donna, che in simili imprese era pratica e piú e piú volte stata a la prova e cimentata, ed in effetto aveva compreso l’animo di Paolina esser alieno in tutto da cotali maneggi, in questa guisa al giovine rispose: – Mondo, io credo che i miei passi e le mie parole, quanto a te appartiene, mai non sarebbero gittati via, né io indarno per farti alcuno servigio m’affaticherei giá mai, perché conosco che sei cortese e liberale, e sei sí abbondevolmente di beni di fortuna dotato che sempre a chi ti fará piacere potrai largamente donare, ed io di giá n’ho la caparra in mano. Ma io t’affermo, e punto non m’inganno, che certamente io con costei non verrò mai a capo di cosa che ti possa giovamento alcuno recare. Io debbo sapere ciò che mi dico, per le lunghe e continove isperienze che ho di questo mestiero. Sí che fa quello ch’io ti conseglio, e levati fuor del capo questa fantasia. In Roma ci sono de l’altre donne non meno nobili e belle che si sia questa Paolina, ed io non ne conosco nessuna, di qual grado si voglia, che se io me le metto con le mie arti dietro, non la rechi a fare ogni mio volere. Guarda pure qual piú ti va per lo gusto, e poi lascia fare a me. Che io piú ritorni a parlare a Paolina levati di core, perché i fatti tuoi in parte alcuna non acconciarei né ti recarei profito alcuno, e il caso mio anderebbe di mal in peggio e forse saria l’ultima impresa che io facessi. – Intendendo Mondo la deliberazione de la donna, che dopo il ragionamento da lui si partí, restò cosí stordito e tanto di mala voglia, che pareva che la machina de la terra gli fosse mancata di sotto i piedi, e in sí fatto modo invilí e tanto cordoglio ne prese che non solamente quel dí e la seguente notte piangendo e sospirando consumò, ma piú altri ancora, continovando ne la sua malinconia e nel dirotto lacrimare, perseverò senza ricever consolazione alcuna, che il cibo e il sonno perdutone, per debolezza fu costretto a mettersi a letto. Vennero chiamati i medici a visitarlo, i quali per cosa che si facessero, perché egli la cagione del suo male non voleva scoprire, giá mai non s’apposero al vero de la infermitá di quello. Solamente, trovando la vertú naturale molto deietta e prostrata, attesero con loro argomenti e rimedii a ristorare le perdute forze. Ma quanto a fortificare il corpo attendevano, tanto l’animo s’avviliva, e il povero amante tuttavia peggiorava. Aveva Mondo una serva nata in Alessandria d’Egitto, che egli altre volte per ischiava comperata aveva, e poco avanti, trovandosi da lei ben servito, era da lui stata fatta libera e tuttavia se ne dimorava in casa. Ella, che il padrone sommamente amava e lo vedeva sí gravemente infermo, prendeva del male di lui affanno grandissimo e molto se ne doleva, standogli a torno di giorno e di notte, servendolo con tanto amore come se le fosse stato figliuolo. E non si partendo quasi mai da lui, e tuttavia veggendolo piangere e sospirare, s’ingegnava a la meglio che poteva e sapeva di confortarlo con ogni sollecitudine e cura, pregandolo che la cagione de la sua infermitá e malinconia le volesse discoprire. Pareva pure a la donna che il male del suo padrone procedesse da passione d’animo e da mala contentezza di core, e che il miglior rimedio che dare se gli potesse era allegrarlo, ma che questa era cosa difficile a fare, se la cagione de la malinconia non si sapeva. Per questo ella non cessava, con tutti quei modi che piú a proposito le parevano, di pregarlo e supplicarlo chi di lei si volesse fidare, come di serva fedelissima che gli era, e discoprirle l’affanno suo, perché in tutto quello che per lei fare si potesse, ella non mancherebbe già mai d’usar tutto l’ingegno suo e le sue forze per aiutarlo e dargli alcuno rimedio. E piú e piú volte di questo lo pregò ed astrinse molto affettuosamente. A le preghiere de la donna il giovine innamorato e infermo, che quella sempre aveva isperimentata leale, amorevole e fedele, si prepose l’amore e la sua passione manifestarle, ancora che in questo caso poco soccorso da lei sperasse. Fattosi adunque da capo, con lagrime e pietosa voce tutta l’istoria del suo amore con Paolina le discoperse, assicurandola che avendola ritrovata sí ritrosa e superba, deliberato s’era di morire, parendogli esser assai minor pena sofferir la morte che restar in vita con sí fiere ed acerbe passioni e con la disgrazia di colei che tanto amava. Pertanto la pregava che a nessuno questo suo amore manifestasse. La donna, udendo che la moglie di Saturnino era potissima cagione de la morte del suo signore, s’ingegnò a la meglio che puoté di confortarlo ed essortarlo a far buon animo e attendere a sanarsi, mettendo ogni altra cosa da canto, dicendogli che al tutto si trovava rimedio, pure che si conservasse la vita. Soggiunse poi ella che vederebbe pure di ritrovar alcuno compenso a ciò che egli conseguisse l’intento suo, e che molto non tarderebbe a recargli alcuna buona novella. Di questa speranza che gli dava la donna mostrò Mondo molto d’appagarsi, e le disse che farebbe ogni cosa per guarire, ma che ella non mancasse di servargli la promessa. Era la donna, come s’è detto, d’Egitto, ed aveva grandissima consuetudine con alcuni sacerdoti egizii che in Roma servivano al tempio de la dea Iside, fatta condurre da le parti de l’Egitto a Roma. Quando io penso a le faccende e a le gloriose opere fatte da’ romani prima che quella loro republica fosse occupata da la tirannide di Giulio Cesare perpetuo dittatore, e agli atti particolari di molti cittadini, io resto pieno di meravigliosa ammirazione e non posso se non giudicare che fossero savi e prudentissimi. Ma quando poi rivolgo il mio pensiero a le cose de la religione e a la moltitudine dei dèi che adoravano e ai dèi nuovi che tutto il dí portavano di questa e quella cittá, che non erano perciò altro che un pezzo di legno o di pietra in alcuna effigie fabbricato, io rimango stupido né so che mi dire, parendomi pure che fossero di poco giudicio a credere che uomini mortali e femine impudiche acquistassero alcuna divinitá. È ben vero che non si può se non sommamente lodare la religione e la riverenza ed osservanza di quella, che era per l’ordinario in tutti i romani, come chiaramente si vede negli annali ed istorie romane, ove si ritroverá in piú luoghi che quegli uomini avevano molto piú paura a rompere i giuramenti da loro giurati che a rompere le loro leggi ed ordini del senato. E questo non si causava da altro se non che stimavano molto piú l’offendere Iddio e la potenza divina che disprezzare gli uomini, avendo in loro tuttavia posta la riverenza de la religione. E di quanto peso fosse la religione appo romani nel tempo che quasi tutti i buoni costumi erano guasti, a mano a mano nel mio dire udirete, perché io non voglio per ora dir altro de le sciocchezze di tanti loro dèi, convenendomi ne la narrazione de la mia istoria raccontarne una di non picciolo momento. Era dunque, tornando a parlare de l’ancilla di Mondo, ella familiare di quei sacerdoti egiziani, e massimamente era domestica molto del capo d’essi sacerdoti. Onde andò a parlargli e narrargli il male di Mondo e la cagione che la infermitá gli aveva generata, e con efficaccia grandissima il supplicò a voler fare ciò che ora intenderete. Al che il buon sacerdote, mosso da le preghiere, e da l’oro che la donna gli diede accecato, in tutto ubidire si dispose. Onoravano i romani in quei tempi mirabilmente la dea Iside e con grandissima solennitá e meravigliose cerimonie i sacrificii d’essa dea celebravano, i cui sacerdoti erano tenuti in gran prezzo. Andò il capo d’essi sacerdoti un giorno a casa di Paolina e, mostrando nel venerabile aspetto ed atti umili e modestissimi grandissima santimonia, disse di voler parlar seco. Venne la donna e, riverentemente ricevuto l’ippocritone sacerdote, gli fece portare da sedere ed appo lui ella altresí tutta riverente s’assise, aspettando ciò che egli dire le volesse. Cominciò il padre santo, col collo torto e parole gravi sputando, a dir una sua lunga intemerata de la divinitá del dio Anubi, che appo gli egizii era in venerazione grandissima; e che sapendo esso dio come ella molto brama d’aver un figliuolo, che per esser una de le piú oneste donne di Roma, che esso dio Anubi, innamorato de la sua pudicizia e di tante altre sue virtú voleva esser il padre e giacersi seco dentro il tempio de la dea Iside, ove verrebbe a trovarla in forma d’un giovine, perché se fosse comparso in forma divina ella non averebbe potuto sofferire lo splendore de la divinitá. Facile cosa fu ingannare la semplice e buona madrona, e tanto piú facile quanto che appo i romani era ferma credenza i dèi e le dèe aver figliuoli tra loro ed ancora assai sovente mischiarsi con gli uomini e donne mortali. Cose nel vero piene d’ignoranza e di sciocchezza e di sacrilegio, a fare i dèi amatori di donne, di maschi, adulteri ed incestuosi; ma la cosa stava pure cosí. Portavano i romani ferma opinione il lor padre Enea essere stato figliuolo di Venere e d’Anchise, e i fondatori Romulo e Remo esser stati generati da Marte e nodriti da una lupa. Era poi fama Alessandro Magno esser figliuolo di Giove Ammone, e di mille altri eroi s’affermava l’origine esser venuta dai dèi. Si teneva anco per fermo che il maggior Scipione Affricano era stato generato da uno dio che in effigie di serpente si trasformava, ed ingravidò la madre d’esso Scipione. Egli ne sono pieni gli antichi libri di queste pappolate, onde non fu gran meraviglia se Paolina al falso sacerdote indubitata fede prestò. Ella il tutto al marito disse. Saturnino, che de la onestá de la moglie punto non dubitava e che anco egli era immerso in cotal superstizione che i dèi ingravidassero le donne, stimando questa cosa esser lodevole ed onorata, e che mai creduto non averebbe che sotto specie di religione tanta sceleratezza si fosse nascosa, fu contento che la moglie il dí ordinato andasse a giacersi col dio Anubi. Venuta la notte a le divine nozze statuita, essendo di giá Mondo per opera del sacerdote nel tempio ascoso, andò Paolina e da le sue damigelle fu messa in un letto che in un canto del tempio era preparato. Le lampade, che ardevano, tutte furono ammorzate; ed il sacerdote, uscito con le donzelle di Paolina fuori, serrò le porte del tempio e con la chiave le fermò. Mondo, uscito del luogo ove era ascoso, a canto a Paolina si corcò. Ed avendo tanto bramata quella notte, per mostrarsi cavaliero divino e non umano, fece prove grandissime de la persona; di modo che Paolina affermò il dio Anubi aver seco fatta altra giacitura che non faceva il suo marito. E cosí tutta la notte amorosamente Mondo con Paolina si trastullò e di lei fece ogni sua voglia, come piú le aggradí. Poco poi dinanzi l’alba, Mondo, uscito di letto, nel solito luogo si nascose; e nel levar del sole vennero le donne di Paolina, ed aperto il tempio dal sacerdote, accompagnarono quella a casa. Ella disse al marito come tutta la notte era stata in braccio al dio Anubi. Mondo, a cui non pareva il suo piacer esser compíto se Paolina l’inganno non sapeva, mosso da giovanile leggerezza, indi a pochi dí incontrandola, le disse: – Paolina, voi non mi voleste del vostro amore a modo nessuno compiacere, e il dio Anubi m’ha fatto grazia che in vece sua io mi sono vosco tutta una notte preso amorosamente piacere. – E datole alcuni contrassegni, le narrò la cosa come era seguíta. Di cosí vituperoso accidente fuor di modo Paolina turbata, con amarissime lagrime il tradimento al marito fece manifesto. Egli, tanto di mala voglia quanto mai fosse, andò a Tiberio imperadore, e di Mondo e dei sacerdoti dimandò giustizia. L’imperadore, udita tanta scelleratezza e con tormenti cavata la veritá e trovato che di simili adulterii molti se n’erano nel tempio per opera dei sacerdoti fatti, essi sacerdoti tutti e la donna serva di Mondo fece porre in croce e miseramente morire. Il tempio, sentina di vizii, fu sino ai fondamenti rovinato a terra e la statua di Iside gittata a bere nel Tevere. A Mondo s’ebbe piú compassione: fu nondimeno a perpetuo esilio condannato. E ritornando al nostro principio del parlare, se ai tempi nostri fossero le persone religiose secondo i demeriti castigate, noi averemmo le cose de la religione piú monde, immaculate e sante; e chi si dedicasse al cólto divino, lasciate tutte l’altre cure, attenderebbe a servire a Dio e pregarlo per la pace e quiete dei cristiani.
Il Bandello al gentilissimo messer
Domenico Campana detto Strascino
Ancora che quello instinto, che naturalmente è impresso negli animi del piú degli uomini, de l’orrore e téma che s’ha dei corpi morti e degli spiriti, massimamente nel tempo notturno, ove l’oscuritá de le tenebre ed il silenzio fanno la paura maggiore, sia appo le menti bene instituite non picciolo argomento de la immortalitá de l’anime nostre e che ci sia un’altra vita da essere per noi bramata, senza questa, ne la quale ora viviamo anzi pure di continovo a sciolta briglia a la morte corremo; io ora mosso non mi sono a scrivervi per entrar in questi ragionamenti, ma per aver materia di mandarvi questa mia novella, la quale avvenne subito dopo che voi partiste da Milano e ve ne ritornaste a Roma. La novella fu recitata a la presenza de la gentile e vertuosa signora Clara Pusterla, in casa de la quale voi, essendo qui in Milano, foste ben veduto ed accarezzato; perciò che nel vero essa signora Clara, tra le molte e rare sue doti che la fanno mirabile e singolare, ha questo: che festeggia meglio e raccoglie gli stranieri e massimamente i virtuosi, che altra che ci sia. La novella fu narrata dal molto gentile e prode messer Girolamo Screciato Guidone, de la banda del signor Galeazzo Sanseverino gran scudiero di Francia. E perché ne la novella intervengono cose di spiriti e paure che per téma di quelli s’ebbero, ho io cominciato a dire degli spiriti, e tanto piú che si vede che talora l’imaginazione fa quello che farebbe il vero, come in questa novella intervenne. Ed anco perciò che al carrattiero de la detta signora in quei dí con maschere in forma di demonii fu fatta una beffa che molto fece rider la brigata, e fu cagione che messer Girolamo narrasse questa, che io ora vi mando a ciò non possiate dire che io di voi non abbia piú memoria. Ma chi sarebbe quello sí smemorato, che avendo avuta la pratica vostra, Strascino mio soavissimo, si potesse i fatti vostri smenticare? Io per me, fin che viverò, sempre di voi e de le vostre piacevolissime feste sarò ricordevole. Or in questa novella riderete voi d’una nuova beffa che fece per via di spiriti una donna a suo marito. E certamente sono pure alcune donne, che trovano di strane invenzioni per mandar i mariti in Cornovaglia e fargli varcare il mare senza barca. Ma venendo a la novella, altro non vi dico. State sano.