Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XLVII
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Novella XLVII
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Uno diviene geloso de la moglie, la quale s’innamora
d’un trombetta e con lui se ne fugge, e poi torna al marito.
Niccolò Piccinino fu da Perugia, nel principio beccaio, che datosi poi a l’arme divenne famosissimo capitano e fu quello che le reliquie dei bracceschi a sé raccolse, e fu appo il magnanimo Filippo Vesconte duca di Milano in grandissima riputazione. Egli, essendo stato rotto a Monte Alloro dal gloriosissimo Francesco Sforza, si ridusse cosí spogliato, con quei soldati che salvati s’erano, a le stanze qui in Pavia, e vi stette tutta una invernata, attendendo a mettersi in arnese e far che i soldati si mettessero ad ordine d’arme e cavalli. Aveva il Piccinino un trombetta toscano, gran parlatore e d’animo gagliardo, il quale, veduta la gentildonna moglie di messer Bernardo dei Fornari, fieramente di lei s’innamorò. Il marito di lei, che era un poco attempato, oltra ogni credenza geloso, non teneva in casa altro che un servidore, ed egli non mai o di rado si partiva di casa. Il famiglio provedeva a tutti i bisogni de la casa. La donna, che giovane era e di poca levatura, veggendosi tener a simile miseria, arrabbiava, né altro trastullo aveva che starsi a le finestre; di che ogni dí col marito faceva romore. Ella molto bene s’accorse che il trombetta la vagheggiava amorosamente. Il perché, o piacendole la bellezza del trombetta, che era bellissimo giovine, o credendosi, perché lo vedeva in ordine di vestimenta, che egli fosse qualche gran gentiluomo, o che altro se ne fosse cagione, ella medesimamente di lui s’accese ed altro non desiava che potersi trovar seco. Ma tanta era la solenne guardia che il marito geloso le faceva, che ella non sapeva trovar modo d’esser con lui. Tuttavia, con buon visi e cenni che gli faceva, gli diede di leggero ad intendere che lo amava. Del che egli avvedutosi, le passava venti volte il dí dinanzi la casa, che era in una contrada non molto frequentata. Onde il geloso entrò subito in sospetto e con la moglie ebbe disconce parole per questo; ma ella di niente si curava. Il trombetta ebbe modo di farle parlare da una buona donna, e cosí andò la bisogna, che ella fece intenderli che volentieri seco se ne saria fuggita, per la mala vita che il marito le faceva fare. Sentendo questo il trombetta, e conoscendo che era un poco in disgrazia di Niccolò Piccinino, pensò menarla via e andarsene seco in Toscana; ma voleva prima vedere che ella rubasse i danari al marito, il quale era molto ricco, ma geloso e avaro. Ora, continuando egli la pratica di passarle spesso innanzi la casa, e il marito di lei non potendo sofferire questo fastidio, andò a dolersene al Piccinino, che alloggiava in cittadella. Udita che egli ebbe la querela, si fece chiamare il trombetta, ed agramente lo riprese, minacciandolo di peggio se altro piú ne sentiva; di che messer Bernardo rimase molto ben sodisfatto. Il trombetta, che si vedeva solo e straniero, e sapeva come in casi d’amore il Piccinino era severo e rigido, e dubitava di qualche scorno, deliberò entrar in casa di lei e levarnela e andarsene via. Ed avendo pensato molti modi ed uno preso per ispediente, veggendo una matina messer Bernardo andar in San Tomaso a messa, egli subito andò in piazza e, trovatovi assai carra di legna, ne comprò tre e quelle fece condurre a casa del geloso, ed avendo giá dato questo ordine con la donna, ella gli aprí la porta. Il trombetta volle che tutte le legna fossero riversate dinanzi la porta, di maniera che quasi tutto l’uscio restava coperto. Come il trombetta fu dentro, cosí cominciò amorosamente con la donna a prendersi piacere e da tre volte in su caricò l’orza. Poi, fattosi insegnare la cassa dei danari, quella ruppe e prese tutti quei danari che vi trovò, che era assai buona somma. Messer Bernardo, che mai non istava mezz’ora che a casa non venisse, udita che ebbe messa e fatti alcuni fatti suoi, mandò il servidore in certi servigi ed egli se ne venne a casa. Quivi giunto, trovò il villano che numerava i danari de le legna e diceva che gli mancavano quattro ambrosini, e gli domandò che legna erano quelle e perché l’aveva dinanzi a la porta sua scaricate. – Messere, – rispose il contadino, – io non so chi voi siate; ma il padrone di questa casa è entrato dentro, e m’ha fatto riversare qui le legna, ed io mi truovo mancare quattro ambrosini. – Qual padrone? – chiese messer Bernardo. – Io sono il padrone, e non altri. – Oh, questa sarebbe bella, ch’io avessi da un’ora in qua venduta la casa e nol sapessi! Leva via queste legna di qua e non mel far dire due volte. Che diavolo è questo? io voglio entrar in casa mia, se vuoi e se non vuoi. – Il villano non si moveva, e meno i suoi che avevano le legna condotte. Di che messer Bernardo entrò ne la maggior còlera del mondo e cominciò a gridare: – Guarda che si muovano questi asini gaglioffi! che vi vengano mille cacasangui! Fo voto a san Siro, se non levate subito queste legna, che io svenerò questi buoi! – Egli non aveva né spada né coltello a lato, e bravava di voler far gran cose. Ma per quanto gridasse, le legna non si movevano; di modo che, volendo egli dar un pugno a uno di quei villani, essi, che erano cinque, se gli voltarono a dosso e con le lor pugna, dure come pietra, gliene diedero piú di nove, tanto che egli ebbe di grazia a far la pace. Vennero molti de la terra al rumore e cominciarono a sgridare i villani, i quali per téma di peggio menarono via le carra, e restò quello che aveva fatto il mercato. Fra questo mezzo i dui amanti che s’erano trastullati a modo loro, cominciarono a pensare che via devevano tenere per fuggire. E poi che molto v’ebbero pensato, il trombetta disse a la donna: – Vita mia, spogliatevi tosto le vostre vestimenta e vestitevi questi miei panni; ed io di quelli di vostro marito, che veggo qui, m’abbiglierò. Come siano levate le legna da l’uscio, voi uscirete con questa mia spada in mano. Vostro marito non ha arme e, non vi conoscendo, vi lascerá andare. Tiratevi la berretta su gli occhi e andate di lungo a la chiesa del Carmino, ed io tosto vi verrò dietro; e di me non pigliate cura, ché io so bene come farò. – Fece la donna come il trombetta le aveva ordinato. Come messer Bernardo la vide fuggire, pensando che fosse il trombetta, le cominciò a gridare dietro e dire: – Va va, ché io verrò bene a trovar il capitano e gli farò intendere le tue poltronerie. – Come il trombetta vide la donna uscita, pose il fuoco ne la camera di messer Bernardo, che tutta era foderata d’asse, e, chiuso l’uscio, salí suso un solaro e uscí da lo spiraglio sovra il tetto, e senza esser veduto andò di tetto in tetto fin ad una casa che era rovinata, e quivi per un pezzo s’appiattò. Il geloso, attendendo a gridare dietro a la moglie, pensando che fosse il trombetta, poi che ella gli uscí di vista, entrò in casa con animo di far un malo scherzo a la moglie. In questo, avendo il fuoco fatto del mal assai e in altri luoghi de la casa giá essendosi acceso, il caliginoso fumo cominciò per le finestre a dimostrarsi. Onde gridandosi: – Al fuoco, al fuoco! – concorse de la gente assai ed in breve le fiamme furono ammorzate. Nondimeno la camera e tutte le cose che in camera erano s’abbrusciarono; di modo che, non si trovando la moglie e credendosi che con l’altre cose fosse arsa, il misero geloso, che pur l’amava, amaramente la pianse. La donna, fuggendo tuttavia con la spada ignuda in mano verso il Carmino, s’incontrò nel maestro di stalla di Niccolò Piccinino, il quale, pensando che fosse il trombetta, disse: – Ove diavolo vai cosí in furia? chi ti caccia? non vedi tu che nessuno ti perseguita, e tu fuggi come una puttana? Fermati meco. – La povera donna, sentendo questo e veggendo che chi la sgridava era soldato e l’aveva presa in fallo, si fermò e non sapeva che dire. Il maestro di stalla se le accostò e, guardandola in viso, s’accorse che non era il trombetta, onde le domandò che cosa era quella mutazione di vestimenti. La donna, tremando e tutta sbigottita, le disse la cagione perché s’era di panni d’uomo vestita. Egli, sentendo questo e sapendo che il capitano voleva male al trombetta e che giá per rispetto di costei l’aveva agramente sgridato, la condusse a l’alloggiamento in cittadella del capitano e gli disse come il fatto stava. Niccolò Piccinino, che alora era in altre cose di grandissima importanza occupato, disse al maestro di stalla che la tenesse celatamente nel suo albergo fin che egli altro dicesse; poi comandò che si usasse ogni diligenza possibile per ritrovare il trombetta. In questo fu detto che messer Bernardo dei Fornari gli voleva parlare; il perché il maestro di stalla condusse la donna al suo alloggiamento, di modo che non fu da nessuno conosciuta. Entrò poi messer Bernardo in camera del Piccinino e gravemente si lamentò del trombetta, che gli aveva arsa la casa e la moglie, con molti mobili che in casa erano. Il Piccinino gli disse: – Gentiluomo, e’ mi incresce assai dei vostri dispiacieri, ma a le cose fatte non si può fare che fatte non siano. Pigliate il mio bargello e andate per tutta Pavia cercando quel ghiotto del trombetta, e sia ove si voglia, fatelo pigliare, ché al cul di Dio! lo farò sonar le trombe d’una maniera che mai piú non si metterá tromba a la bocca. – E cosí fece comandare al bargello che andasse con messer Bernardo e usasse ogni diligenza di pigliar quel ghiotto del trombetta, e metterlo in prigione e tenerlo sotto buona custodia. Il maestro di stalla, veggendo la donna giovane e bella, e sapendo la natura di Niccolò Piccinino, che troppo non era di donne vago, deliberò non perder questa ventura. Onde tutto il dí in camera la tenne, ove la fece disinare e cenare, ed anco egli seco mangiò e due volte seco si prese amorosamente piacere. E perché de le fantasme che di notte vanno a torno ella talora non avesse paura, tutta la notte le tenne nel letto buona compagnia, e volle che anco ci stesse un cancegliero del capitano, che era buon compagno. A la donna parve un nuovo mondo questo, perciò che il marito non le scoteva il pelliccione due e tre volte il mese, e alora tra il dí e la notte da tre uomini aveva avuto piú di diciotto prevende di biada. Sono alcuni che dicono che quella notte tutti i palafrenieri di stalla si giacquero con lei e che tutta la notte fu tenuta svegliata; ma io ho pur inteso che la cosa fu come v’ho narrato. La matina convenne a Niccolò Piccinino andar a Milano per parlare col duca Filippo, ove stette quattro o cinque giorni, nei quali il maestro di stalla e il cancegliero sempre fecero a la donna buona compagnia. Sí che ella fu tutte quelle notti benissimo trattata con grandissimo suo piacere, non avendo mai simil diletto provato. Ora, essendosi a Milano Niccolò Piccinino spedito, se ne tornò a Pavia al suo solito albergo. Era sempre stato il detto capitano alieno da l’amore de le donne, onde il maestro di stalla deliberò dirgli il fatto come stava, a ciò che se da altri poi l’avesse saputo, egli seco non si fosse adirato. Andò adunque a trovarlo e il tutto che de la donna era seguíto gli raccontò. Niccolò Piccinino sentendo questa favola, disse al suo maestro di stalla: – Buon pro a te e al cancegliero! Io ti aveva fatto ritener la donna per farle far la pace col marito; ma l’essermi stato bisogno andar a Milano me la cavò di fantasia. Ora non so mò come si potrá comodamente fare, essendo oggimai otto dí che ella è ne le mani nostre. Come faremo noi? – Signore, – rispose il maestro di stalla, – ella non vuole a patto nessuno tornar col suo marito, sí perché è vecchio e le fa far digiuni che non sono in calendario, ed altresí perciò che dubita che poi il marito non l’ancidesse. Ella è forse de le belle giovani di questa cittá e la piú gentil figliuola del mondo, ed è un gran peccato che sia a le mani di questa bestia. – Niccolò Piccinino, sentendo tanto lodare la beltá e costumi di Margarita, – ché cosí aveva nome la donna, – la volle vedere e fece che con destro modo senza saputa dei ragazzi, Margarita gli fu in camera condotta. Come egli la vide, giudicò per certo che era bellissima e colma di molta grazia; onde sentí destarsi tal che dormiva e deliberò provare se era cosí dolce cosa il giacersi con una donna, come altri diceva. Volle adunque che ella seco nel letto entrasse. Il che fatto, ella, che sapeva costui esser il signore di tutti, si dispose, se con gli altri era stata buona mugnaia, con il capitano esser ottima e far una sí trita e perfetta macinatura, che Niccolò Piccinino non cercasse piú altro mugnaio che lei. Il macinare si fece di sorte che il buon capitano, che non era avvezzo a simil bocconi, non si poteva saziare di starsi seco. Egli fieramente di lei s’innamorò e volle che segretamente la donna fosse guardata, e ogni notte seco si giaceva; ed ella, che tanto tempo era stata a le mani del vecchio marito, si sforzava d’emendar tutti i danni passati. Messer Bernardo insieme col bargello usò diligenza assai per ritrovar il trombetta e non lasciò buco in Pavia che non ricercasse. Ma il povero uomo, che sapeva che il capitano gli voleva male, stette fin a la sera appiattato in quella casa guasta, che non era molto lontana da la porta di Pavia che va verso Lodi. Egli era vestito de le vesti di messer Bernardo ed aveva di molti ducati e anella di valuta. Onde ne l’imbrunir de la sera, senza che fosse conosciuto, se n’uscí di Pavia e andò verso Lodi, non si potendo cavar di fantasia l’amore che a la donna portava. E non si tenendo sicuro ne le terre del duca Filippo, se ne passò in Toscana; ove poi, presa moglie, attese con lei a vivere allegramente. Il che poteva egli comodamente fare, avendo, dei danari e gioie che da Pavia recati aveva, compro a Cortona, – ché egli era cortonese, – una possessione. Messer Bernardo fece purgar la casa, e, non ritrovando né ossa di donna né vestigio de la sua cassa ove teneva i danari, pensò che il tutto si fosse fuso in cenere; e molto gli doleva de la moglie, credendo che il trombetta l’avesse ancisa ed arsa. Venne il tempo di primavera, che Niccolò Piccinino, che aveva messo ad ordine i suoi soldati, deveva cavalcare ne la Marca d’Ancona. E non gli parendo di dever menar seco la sua Margarita, andava pur pensando che modo egli deveva tener a farla restituire al marito e dargli a credere che con nessuno ella si fosse giaciuta. E parlatone con lei e col maestro di stalla, tennero diversi propositi. A la fine disse la Margarita: – Signore, l’animo mio era mai non v’abbandonare, ma seguitarvi in ogni luogo. Ma poi che volete che io resti col marito, vi dirò ciò che ora mi sovviene per mia salvezza. Io ho in un monastero in questa cittá una mia zia badessa, che molto m’ama: se si trovasse modo che ella dicesse che il dí che io fuggii di casa andai a trovarla e che sempre seco m’ha tenuta, il tutto anderebbe bene. – Piacque questo a Niccolò Piccinino, onde mandò il maestro di stalla a parlar a la badessa; che seppe sí ben fare, che la badessa promise affaticarsi, con speranza che sua nipote sarebbe dal marito per bella e buona accettata. La notte seguente, secondo l’ordine ne de la badessa, fu Margarita menata al monastero. Era la badessa donna di quaranta anni, e di tre o quattro mesi innanzi questo s’aveva molto spesso fatto venire un prete a starsi seco la notte, e talvolta lo teneva dui o tre dí in camera; di che n’era un poco di scandalo fra le monache. Ella con questo mezzo de la Margarita pensò sodisfare a le monache ed a suo nipote messer Bernardo. E mandatolo a chiamare, ordí cosí bene la sua favola che a messer Bernardo fece credere che la moglie sempre era stata seco e che niente gli aveva voluto dire, perciò che aveva mandato a Roma per far dissolvere il matrimonio e far Margarita monaca, ma che non s’era potuto ottenere se egli non si contentava, e che contentandosi non poteva piú prender moglie. Poi gli fece un gran romore in capo de la mala compagnia che a la moglie aveva fatta. Il pover uomo, d’allegrezza d’aver trovata la moglie in cosí santo luogo, piangeva, e la ritolse per casta e buona. Le monache si domandarono in colpa, credendo che tutto quel tempo che la badessa faceva portar cibi in camera, la Margarita ci fosse stata. Messer Bernardo, pensando aver santa Cita per moglie, [lasciò d'esser geloso] quando gli era piú di bisogno, ed anche la badessa piú liberamente faceva ciò che piú l’era a grado.
Il Bandello al gentilissimo messer
Giacomo Filippo Sacco dottore
Erano, non è molto, adunati a Pavia in casa del vertuoso e dottrinato messer Antonio di Pirro alcuni giovini scolari che quivi avevano desinato, e ragionandosi dopo desinare di varie cose, si venne a dire d’alcune parole che il Monarca, buffone dei signori di Beccaria, quella mattina aveva detto ne la chiesa del Carmino per far favore al signor Tomaso Maino ed al signor Lucio Scipione Attellano, che per la chiesa dinanzi a le loro innamorate passeggiavano. Ed in effetto si conchiuse che erano state troppo disoneste e indegne che di loro nessuno gentile spirito parlasse; ma che, essendo il Monarca pazzo publico, meraviglia non era se da pazzerone aveva parlato. Onde messer Antonio disse che i motti e le risposte pronte date a tempo e luogo conveniente, rintuzzando gli altrui detti o con debito morso riprendendo gli altrui vizi con qualche bella coperta di parole, erano meravigliosamente da esser lodati. Né meno giudicava esser lodevoli quelle risposte, le quali con pronto avvedimento, senza morder nessuno, argutamente ribattevano, quando talora alcuno si sentiva mordere. Ed a questo proposito disse che il re di Francia Lodovico undecimo, veggendo un giorno il vescovo di Catres, che anticamente si dicevano carnuti, che era su una bellissima mula guarnita di velluto, col morso e borchie dorate, lo chiamò dicendogli: – Monsignor, i vescovi santi al tempo passato non andavano con queste pompe, ma si contentavano d’andar suso un asinello, con la cavezza di corda, senza briglia né sella. – Il vescovo alora, punto non sbigottito, ridendo, arditamente gli rispose dicendo: – Sire, io conosco che voi dite il vero; ma ciò era quando i re erano pastori e guardavano le pecore. – Il re commendò assai il vescovo di cosí pronta risposta. Onde, seguitando messer Antonio il suo ragionamento, ed essendosi alcuni altri bei motti detti, il signor Giovanni da la Corda, nobilissimo spagnuolo, che era stato qualche dí in Pavia e quel giorno quivi aveva desinato, disse: – Signori, se vi piace d’ascoltarmi, io vi dirò alcuni bei motti d’un argutissimo spagnuolo, che da fanciullo fu condotto a Napoli, ove lungamente visse con i re di Ragona. – Pregato che dicesse, narrò alcuni bei motti, i quali, essendomi paruti degni di memoria, annotai. Ora rivedendogli, ho voluto che sotto il vostro nome dai morsi dei malevoli siano sicuri. E meritevolmente mi pare che a voi piú che a nessun altro questa novella convenga, perché ho conosciuto molto pochi uomini, che siano cosí presti a le pronte risposte, a le argute proposte, a’ motti ingegnosi ed arguti detti, come voi, che tutto sète arguto, pronto, festevole ed avvedutissimo e scaltrito quanto altro che ci sia. State sano.