Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XLI

Terza parte
Novella XLI

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Varii e bei motti con pronte risposte date a tempo


esser bellissimi e giovare spesse fiate.


Voi, signori miei, sentirete come un povero compagno, che meritava la fune, con una artificiosa risposta si liberò. Era Nicolò Porcinario dottore aquilano, il quale per esser giudice molto giusto ebbe diversi magistrati in Italia, ove severamente castigava i malfattori. Avvenne un dí che egli fece prendere quattro uomini reputati i maggiori ghiotti de la contrada; e come gli furono menati avanti, ne fece porre uno a la corda e dargli quattro collate di fune. Poi fece il medesimo al secondo ed altresí al terzo. Restava il quarto, al quale domandò il giudice come egli avesse nome. – Messere, – rispose egli con un viso ardito, – io mi domando Sestodecimo al piacer vostro. – Di cosí nuovo nome forte si meravigliò il giudice, e gli disse: – Che nome è cotesto che tu hai? – Non vi meravigliate, – rispose il povero compagno, – che io cosí mi chiami, perciò che non è mio nome impostomi al battesimo, ma mi tocca per sorte. Voi, signore, ai miei compagni avete fatto dare dodici tratti di fune, quattro per ciascuno di loro; e poi a me devendone esser dati quattro, che fanno sedici, da questo evento il nome ora è nasciuto. – Piacque meravigliosamente al dotto giudice l’arguto e faceto detto del malfattore e, senza altrimenti farlo porre al tormento, lo liberò. – Ora vederete che effetto buono fece una savia parola d’un uomo literato. Mentre che il re Federico di Ragona tenne il regno di Napoli, fu in quella cittá un gentiluomo che aveva per moglie una assai bella e leggiadra giovane chiamata Paola, ma tanto bizzarra e spiacevole e cosí fastidiosa, che tutto il dí altro mai non faceva che far romore per casa con ciascuno che a le mani le capitava. E se non ci era persona con cui potesse gridare, ella da sé entrava in còlera e fra’ denti mormorava. Guai poi se nessuno le avesse risposto, perciò che saliva in tanto sdegno, che stava dui e tre dí che altro non faceva che garrire. Il marito che era uomo dotto e molto piacevole, ebbe su il principio assai che fare ad accordarsi seco; ma, veggendo che cosa che egli facesse o le dicesse non giovava, deliberò lasciarla gridare e mai non le rispondere. E cosí pazientemente se ne visse seco trenta anni che mai non la sgridò. Avvenne che egli un dí invitò a desinar seco un suo amico. Ora, essendo a tavola e desinando, ella che era dirimpetto a l’amico del marito, veggendo in tavola certa vivanda che non era concia a modo suo, entrò in còlera e quivi cominciò una intemerata di gridare e garrire ora quel servidore ed ora una fantesca. E tuttavia crescevano i gridi, di modo che l’amico invitato non poteva quella seccaggine sofferire, e fu quasi per levarsi da mensa. Di questo accorgendosi, il marito disse: – Oimè, frátemo, che poca pazienza è la tua? Io trenta anni ho sofferto le strida, i gridi, i romori e le molestie insupportabili di costei, e giorno e notte mai altro non sento e pazientemente il tutto soffro, e tu mezza ora sentire non la puoi? – L’amico a queste parole s’acquetò, e la donna tanto vertuosamente trafitta si sentí che tutta la sua vita cangiò, e divenne poi sempre quieta, umana, piacevole e graziosa. – Voglio mò dimostrarvi come un guascone con una bella e pronta risposta si seppe da un vantatore spagnuolo schermire. Andava da Bologna a Firenze Pirrinicolo guascone, il quale, essendo a Bianoro a l’osteria, trovò che l’oste aveva concia una anitra giovane e grassa arrosto, tutta piena d’aglio, che è il pepe dei guasconi. Veduta che egli l’ebbe, disse a l’oste che altra carne per desinare non voleva che quella anitra; e a tavola s’assise e cominciò a smembrare l’augella, che ancora fumava e rendeva un bonissimo odore. Ed ecco in questo che entrò dentro un giovine spagnuolo, grande di persona, con la spada ed il brochiero a lato, il quale, come sentí l’odore de l’arrosto, gittò l’ingorda vista sovra l’anitra e disse al guascone: – Signore, vi piace egli dar luogo in tavola ad un vostro amico? – A questo rispose Pirriniculo e gli domandò come si chiamava. – Io, signore, – disse lo spagnuolo, – mi chiamo per mio proprio nome Alopanzio Ausunarchide Iberoneo Alorchide. – Per le piaghe di Cristo! – soggiunse alora il guascone, – io non credo che sí picciola augella debba bastare ad un desinare a quattro cosí gran baroni come voi m’avete nominato, e tanto meno essendo spagnuoli. Io non mi farei mai questa vergogna. Questa anitra a me, che Pirriniculo sono detto, sará assai. A voi sí gran signori bisogna che l’oste apparecchi vivande convenienti a sí magnifica grandezza. – Udirete adesso come il signor Prospero Colonna argutamente rispondesse al re Federico, del quale s’è parlato. Essendo il re Federico nel castello de l’Ovo, si mise a ragionamento col signor Prospero, alora suo capitano e molto giovine, e diceva d’alcuni segni che hanno gli uomini, per li quali facilmente la natura e i costumi loro questi chiromantici e fisionomisti dicono conoscere. Diceva adunque il re che se l’uomo ha i capelli duri, che egli è audace; se ha il petto largo e debitamente carnoso, che è gagliardo; se di questi segni ha i contrari, che sará timido; se ha la faccia troppo rotonda, che è pazzo e senza vergogna; se ha in faccia il colore troppo rosso, come sono i frutti del gelsomoro non ben maturi, ch’egli è grandissimo ingannatore; e se ha le ciglia congiunte, che è traditore. Mentre che il re queste cose col signor Prospero discorreva, sovravenne Vito Pisanello, segretario di esso Federico, il quale Vito aveva i capelli in capo crespi e cosí ricciuti come veggiamo che hanno i mori. Onde, seguitando il re e, fra mille altri segni detti, dicendo essere impossibile che chi avesse i capelli crespi non fosse o musico o di perverso e maligno animo e di poca stabilitá, subito rispose il signor Prospero ed accennando Vito disse: – Per Cristo benedetto, o re, questo tuo Vito non saperebbe cantar una nota di canto! – Arguta veramente e pungente risposta, perciò che, secondo la openione del re che detta aveva, necessario era dire che Vito fosse ribaldo e sceleratissimo. – E per conchiudere il mio ragionare, vi dico che venendo da Roma passai per Siena e volli vedere il lor tempio molto bello. Vidi anco la superba libraria che Pio secondo ha fatto. Andai poi veggendo molte belle cose che sono in quella cittá, e passando da la loggia dei Piccoluomini, fabrica pur di Pio secondo, ecco venir un garzoncello di dieci in undici anni sovra un cavalluccio tanto mago e disfatto che non si poteva a pena reggere in piedi, ché solamente aveva la pelle e l’ossa. Il fanciullo gridava ad alta voce: – Aita, aita, ché io non posso tener questo ronzone! – Era ne la loggia assai gentiluomini, dei quali uno disse: – Certo questo fanciullo è pazzo. – E rivoltato verso lui gli disse: – Tu farnetichi. Questo cavallo appena si muove, e tu di’ che non lo puoi tenere: che pazzia è la tua? – Tutto ad un tempo rispose il garzoncello: – Cotesto è il male, vi dico io, che non lo posso tenere, perciò che non ho da pascerlo. – Fu da tutti lodata la pronta risposta del fanciullo. E perciò convien dire che i bei motti sono come le medicine, le quali date a tempo a l’infermo sogliono mirabilmente giovare; che, date fuori di tempo, non solamente non giovano, ma piú tosto sono di nocumento.


Il Bandello al magnifico signor


Annibale Attellano salute


Secondo che al signor Lucio Scipione vostro fratello scrissi non è molto, che i bei motti e gli arguti parlari a tempo detti sono di grandissimo ornamento, cosí anco si può dire che un bell’atto usato a luogo e tempo, ben che paia ingiurioso, sará nondimeno, per qualche sua circonstanza che averá, lodato. Il che mi pare che questi dí assai bellamente dimostrasse in una novelletta il nostro gentile e vertuoso signor Giacomo Maria Stampa, il quale la narrò in casa de la signora Barbara Gonzaga contessa di Gaiazzo, essendo quivi a desinare alcuni gentiluomini e gentildonne. E perché a tutti generalmente piacque, io la scrissi, e a voi la mando e dono. Ben vi avvertisco che non la mostriate se non agli amici nostri; perciò che se l’arcifanfalo la vedesse, mi metteria in mala grazia di chi voi cosí bene sapete com’io, e farebbe tanto romore ch’io sarei un’altra volta sforzato mettergli a le spalle madama illustrissima e Mario Equicola, che devete ricordarvi come l’anno passato, essendo in Mantova, lo trattarono. Ed io non vorrei che il pazzarone di dolore se ne morisse, anzi desidero che viva per maggior sua pena, non si potendo ad un maligno invidioso dar maggior castigo che lasciarlo vivere, a ciò veggia l’altrui bene andare ogni dí prosperando; il che assai peggio lo tormenta che la morte stessa. State sano.