Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XIV

Terza parte
Novella XIV

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Bellissima invenzione a confutare l’indiscreta devozione


ed affetto non sano d’alcuni ignoranti frati.


Io vi vo’, padri miei venerandi, al proposito di che s’è parlato una breve istoria narrare, a ciò veggiate il male che fanno coloro che, lasciato il sacro vangelo, predicano sui pulpiti le fole, avendo il Salvatore nostro detto ai suoi discepoli: – Andate e predicate il vangelo ad ogni creatura. – Essendo io assai giovine, predicava nel duomo di questa nostra cittá di Milano un frate minore marchiano, con tanto e sí frequente concorso d’ogni sorte d’uomini e donne che era una cosa incredibile. Disse questo frate marchiano piú volte in pergamo che san Francesco aveva ottenuto da Dio un gran privilegio, che era che tutti quelli che portavano il cordone cinto, in vita, quando poi morivano non andavano a lo inferno giá mai, ma sí bene secondo i peccati al purgatorio, dove esso san Francesco una volta l’anno discendeva e mandava giú il suo cordone, al quale tutte l’anime che in vita portato l’avevano s’attaccavano, ed egli le conduceva in cielo. Sí bene seppe egli questa sua favola adornare e colorire, che non ci fu persona che non si cingesse il cordone. Io, per non esser piú savio degli altri, lo cominciai a portare. Nel fine de la quadregesima che il marchiano predicava, cominciò a crescer la peste e in breve fece un grandissimo progresso, di modo che d’aprile sino al settembre e ottobre affermarono gli ufficiali de la peste che tra la cittá e il contado morirono circa ducento trenta mila persone. Ma per la buona guardia che vi s’ebbe, essendo la cittá benissimo purgata fu mandato dai nostri superiori a predicar in duomo la seguente quadragesima il padre fra Girolamo Albertuzzo bolognese, cognominato da tutti «il Borsello», che era uomo di gran presenza, dotto, molto eloquente e nei suoi sermoni pieno di bonissima grazia. Intese egli, non saprei dir come, ciò che il marchiano aveva predicato del cordone, e si meravigliò forte di tal pazzia; onde si deliberò levar i milanesi da sí folle credenza, né altro aspettava che una onesta occasione. Avvenne che, predicando una domenica dopo desinare per certi giubilei a profitto de lo spedale maggiore, che il duca Lodovico Sforza, alora governatore del nipote, con tutta la corte e la nobiltá di Milano si ritrovò a la predica, di modo che il duomo, che sapete pure quanto è largo e spazioso, era tutto pieno. Il Borsello, parendogli esser prestata ottima occasione a quanto voleva fare, dopo che ebbe assai commendati quei giubilei, si rivolse al duca e gli disse: – Egli sono, eccellentissimo signore, molti dí che io debbo dare una mala nuova al vostro popolo milanese; ma fin ora ho tardato, perché mi duole d’attristar nessuno. Tuttavia essendo il caso di grandissima importanza, e quanto piú si tace tanto esser piú peggio, ho io deliberato a la presenza vostra scaricarmi de l’obligo mio. – Quivi incominciò a dir quanto inteso aveva esser stato detto dal marchiano; soggiunse poi: – Avendo io, signor mio, inteso sí eccellente privilegio d’esso cordone, mi era deliberato mandar a Roma ed ottener un breve del papa che mi dispensasse, che ancora ch’io fossi frate di santo Domenico, mi fosse lecito portare quel beato cordone. Ma una notte, essendo io a l’orazione, m’apparve un angelo che mi disse: – Borsello, vien meco. – Andai con esso lui non molto lunge e sentii tremare tutta la machina de la terra e scuotersi con gran romore. Ecco che vidi quella innanzi ai piedi miei aprirsi, facendosi un’alta e larga voragine. M’inchinai per comandamento de l’angelo, e quivi entro mirai e vidi il purgatorio aperto, ove l’anime in quel penace fuoco purgavano. Né guari stetti che vidi scender dal cielo il padre san Francesco col suo cordone in mano. Sapete, signor mio, per la passata pestilenza esser morte migliaia di persone, di cui la maggior parte per le prediche del marchiano si cingevano il cordone; il perché ritrovò san Francesco il purgatorio del solito assai piú pieno. Onde mandò giú il cordone, al quale tante anime s’attaccarono che non potendo egli sostenere la ponderosa gravezza del peso che a basso il tirava, per non traboccare in quei fierissimi tormenti e provar cotante acerbissime pene da lui non meritate, sentendo giá ardersi la mano, quella il benedetto padre allargò, e lasciò cadere il cordone con l’anime insiememente dentro il fuoco, in cui subito il cordone come un’arida paglia da le voraci fiamme fu arso e consumato. Comandommi alora l’angelo ch’io annonziassi ai miei creduli ambrogiani il caso come era occorso e facessi loro intendere che non ci è piú cordone che tenga. Perciò al presente a la presenza vostra, eccellentissimo signore, ho voluto annonziar il tutto al popolo, a ciò che ciascuno si sganni e s’avveggia de l’errore ove era intricato. – E su questo l’eloquente e facondo Borsello cominciò a riprender coteste indiscrete superstizioni, anzi piú tosto dannose e nocive openioni, e disse di molte belle e utili cose, facendo con evidentissime ragioni a tutti toccar con mano che a voler acquistare il reame del cielo non basta esser bianco, bigio, nero o turchino o di qual si sia colore, ma convien fare la volontá del Padre eterno e aver la grazia sua, senza la quale nulla si può far di buono né di meritorio a vita eterna. E quivi l’ingegnoso ed eloquentissimo Borsello disse sí bene e cosí buone cose, e con tanta veemenzia nei cori degli audienti impresse le sue sante parole, che alora alora quasi tutti, cosí uomini come donne, che cinto portavano il cordone, se lo discinsero, riconoscendo l’error loro ove sino a quell’ora erano stati immersi. Indi finito il fruttuoso e salubre sermone e partitosi dapoi il popolo fuor de la chiesa, si trovarono caduti in terra piú di sette mila cordoni. Ed io, per dirvi il vero, fui uno di quelli che me lo discinsi e gettai per terra, parendomi che fra Girolamo ci avesse a conoscer la veritá aperti gli occhi. Il duca Lodovico e tutti i signori e gentiluomini e universalmente il piú degli auditori rimasero ottimamente sodisfatti, e dai saggi fu giudicato che esso Borsello aveva mostrato buon giudicio e fatto prudentemente a gabbarsi de le superstiziose invenzioni di coloro che si persuadono, per vestirsi di tal e tal colore, o di cingersi il cordone o la correggia di cuoio, e non far l’opere de la caritá e ubidire ai comandamenti di Cristo, di deversi salvare.


Il Bandello al gran monarca de le leggi


il signor Giason Maino


Non essendo cosa a l’uomo, mentre in questo mondo vive, piú certa de la morte, né piú incerta de l’ora e sorte o sia maniera di morire, meravigliosa cosa mi pare che sia generalmente quella a cui meno che ad altro che ci sia si pensa. Io non dico giá che di continovo debbiamo esser fitti col pensiero su la malinconia del morire, ché sí severamente non voglio astringer nessuno; ma bene sono di parere che di grandissimo profitto a ciascuno sarebbe, di qualunque condizione egli si sia, sovente ricordarsi che è uomo e consequentemente mortale. Né voglio ora che entriamo in sagrestia, volendo dir quello che dice la Scrittura: «Rammemora il fine de la tua vita che è la morte, e in eterno non peccarai»; e meno voglio per ora che abbiamo la mente al detto di quel santo dottore, il quale ci ammonisce dicendo: «Facilmente disprezza ogni cosa chi pensa che deve morire». Lasciando adunque da parte il bene e utile de l’anima, io voglio che parliamo politicamente e veggiamo di quanta utilitá e profitto, a chiunque si sia, sarebbe d’aver spesso dinanzi agli occhi la téma ed orrore de la morte, e che egli non può saper il tempo di morire, né in che luogo debbia ultimare i giorni suoi, né di qual maniera di morte debbia a l’altra vita passare, e che forse, mentre che egli è in cotal pensiero, potrebbe di leggero avvenire che in quell’ora qualche strano accidente, (ché tanti e sí diversi ce ne sono sempre apparecchiati), gli troncarebbe lo stame vitale, e d’uomo restarebbe uno spaventoso cadavero. Oh di quanto bene cotal pensamento sarebbe a tutte le sorti d’uomini cagione! Credete voi, se i grandi e quelli che cosí volentieri, disprezzate le divine ed umane leggi, straziano questi e quelli, pensassero di morire, che commettessero tanti errori come commettono e che bene spesso non raffrenassero i loro disordinati appetiti? Ché ancora che l’uomo fosse di quella reprobata setta che vuole che da l’anima nostra a quella degli animali irrazionali non sia differenza, e che il fine de l’uno e de l’altro sia uno stesso, deverebbe nondimeno vivere politicamente e lasciar dopo sé buona fama. E se gli sgherri e quelli che di continovo stanno su le disconce e malvagie opere si ricordassero de le croci, de le mannare, del fuoco e di tanti altri tormenti che le leggi hanno ordinato a’ malfattori, io porto ferma openione che cosí facili e presti non sarebbero a far tante sceleratezze come tutto il dí fanno. Dal che nascerebbe che la vita umana sarebbe assai piú tranquilla di quello che è, e ritorneria a’ nostri tempi la tanto lodata e da noi non veduta etá de l’oro. Ma perché l’uomo pensa ad ogni altra cosa fuor che al suo fine, e si crede sempre restar di qua, avvengono tanti mali quanti ogni dí veggiamo. Di questo ragionandosi qui in Milano nel palagio de l’illustrissimo e reverendissimo signor Federico Sanseverino, cardinale di santa Chiesa, questi dí, quando egli si fece cavar fuor de la vesica una pietra di meravigliosa grossezza, un navarrese suo cameriero, che Enrico Nieto si chiama, narrò la crudelissima morte d’un re di Navarra, la quale mi parve di sorte mai piú non udita. Ed invero io cosí fatto accidente non sentii giá mai. E per questo subito lo scrissi e al numero de le mie novelle accumulai. Sovvenutomi poi che essendo io questi dí in Pavia nel vostro museo, che è proprio l’oracolo non solamente di Lombardia ma di tutta Europa, e parlandosi di questo morire per l’improvisa e immatura morte del nostro eccellentissimo dottore messer Lancillotto Galiagola, – giovine, se lungamente viveva, da esser senza dubio agguagliato a qual mai piú eccellente iureconsulto sia stato, – che voi assai cose diceste de l’utile che apporta il pensare di dever morire; l’orrendo caso d’esso re di Navarra ho voluto mandarvi, a fine che appo voi resti per pegno de la riverenza che il Bandello vi porta e de l’obligo che v’ho di molti piaceri da voi ricevuti. State sano.