Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XIII

Terza parte
Novella XIII

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Leonzio da Castrignano ama la Neera


e poi l’abbandona, ed ella in un pozzo si affoga.


Ne la provincia d’Otranto, in un castello chiamato dai paesani Castrignano, non molto dopo che Alfonso duca di Calabria con gloriosa vittoria cacciò dal Regno i turchi che Otranto gli avevano rubato, fu una giovane assai bella e avvenente, ma di mezzani parenti discesa, il cui nome era Neera. Di lei un giovane de la contrada assai nobile e ricco, vinto da le bellezze di quella, s’innamorò. E perché era nobile e dei beni de la fortuna ben provisto, ed essendo senza padre spendeva largamente, ebbe grandissima commoditá di farle parlare e manifestarle il suo amore. Ella, che pur avveduta e di grande animo era, conoscendo il giovane, che Leonzio si chiamava, esser dei primi del luogo, e sé di basso legnaggio nasciuta e a lui non uguale, non dava troppo orecchie a l’ambasciate e messi di quello. Leonzio, che ardeva e averebbe voluto venire a la conchiusione d’amore, non cessava di continovo con messi ed ambasciate di tentarla e tutto ’l dí ricercarla che volesse di lui aver compassione, promettendole che sempre l’amerebbe e mai non l’abbandoneria. Ella, quantunque Leonzio le paresse degno di essere amato, nondimeno, conoscendolo ricco, dubitava forte che, come egli avesse avuto l’intento suo, non l’abbandonasse ed altrove rivolgesse il suo amore. E per questo mai non mandò buona risposta a l’amante, anzi si mostrò sempre piú dura e piú rigida. Il che fu cagione che il giovine piú s’accese e deliberò di fare o per una via o per un’altra tanto che venisse a fine del suo desiderio. E trovata una ribalda vecchia, quella mandò a Neera; la quale tanto seppe dire e far con lei, che ella s’indusse a volger l’animo a Leonzio e poco a poco ad amarlo. A lungo andare, col mezzo de la scaltrita vecchia si trovò Leonzio a parlamento con Neera, la quale, ancora che a lui volesse gran bene, nondimeno mai non gli volle di sé far copia, fin che egli in presenza de la vecchia non le promise di prenderla in moglie. Ma ella fu mal avvista, perciò che prima deveva farsi sposare e non credere a semplici promesse de l’astuto amante, il quale per conseguire l’intento suo le fece mille promesse. Ma noi veggiamo tutto il dí infinite povere donne, – povere, dico, di conseglio e di prudenza, – rimaner ingannate, perciò che gli amanti largamente promettono, pur che abbiano quello che cercano. Ora, essendosi Leonzio con Neera molte fiate amorosamente giacciuto e sí domesticamente seco praticato che per tutto il castello si teneva che fossero per marito e moglie, Leonzio d’un’altra giovane s’innamorò, e, piacendogli piú questa seconda che la prima, cominciò a lasciar Neera da parte. Di che ella si ritrovò senza fine mal contenta, non sapendo che modo tenere a reconciliar il suo amante. Egli a poco a poco, scordatasi del tutto Neera e la promessa a lei fatta, di maniera de l’altra s’accese, che publicamente la sposò e a casa condusse. Il che a Neera fu per tutta la terra grandissimo scorno, sapendosi da ciascuno che di lei Leonzio aveva preso amorosamente piacere. La povera giovane assai la disgrazia sua pianse e assai senza fine se ne rammaricò, e quasi disperata molti dí in casa se ne stette. Essendo poi passati alcuni giorni, avvenne che essendo Neera un giorno di festa dinanzi la casa a sedere in compagnia di molte donne de la vicinanza, come è di costume, e parlandosi di varie cose, parve che una donna di non so che a Neera contradicesse; di che ella, rispondendole con la voce un poco alta, entrò alquanto in colera. E l’una parola tirando l’altra, vennero a dirsi ingiuria insieme. Quell’altra, che non portava di groppa, levatasi in piede e mettendosi le mani sui fianchi, a Neera con grandissima còlera disse:– Va, va, putta sfacciata, in chiazzo, ché tu sei bene stata concia da Leonzio come meriti. Non sai che tutto questo castello sa che tu sei stata sua femina? e non ti vergogni comparire fra le donne da bene? – A questa voce l’infelice Neera, senza rispondere un motto solo, si levò fuor de la brigata, e in un pozzo profondissimo che quivi era si gettò col capo innanzi e subito vi s’affogò. E volendo i vicini, corsi al romore, darle aita, dopo gran fatica del pozzo fuori morta la cavarono.


Il Bandello al reverendo e dotto padre


fra Leandro Alberto da Bologna


de l’ordine predicatore.


Molte fiate, essendo voi, Leandro mio, in Milano, abbiamo ragionato de l’ignoranza d’alcuni che sui publici pergami predicano assai cose che sono fuor d’ogni ragione, e massimamente che cercano con finti miracoli di voler eccitare gli auditori a divozione. Questi tali vogliono le cose de la fede catolica, predicate e confermate col sangue e testimonio di tanti gloriosi martiri, con le loro magre fizzioni far piú ferme e non s’avveggiono che s’affaticano d’accrescere con un picciolo lumicino la luce e il calor del sole. E perché la religione cristiana non ha bisogno di bugie, essendo vera e catolica, s’è ne l’ultimo concilio lateranense, cominciato sotto Giulio secondo e finito sotto Lione decimo, espressamente proibito che nessuno, di che grado si sia, presuma predicar queste chimeriche invenzioni di falsi miracoli; il che nel vero santissimamente è stato fatto. Ora, non è molto, ragionandosi di questa materia ne l’orto de le Grazie, ove essendo da Roma venuto a Milano frate Salvestro Prierio, maestro del sacro palazzo, vi si ritrovò anco messer Francesco Mantegazzo, patrizio milanese ed uomo di grandissima gravitá, quivi dissero alcuni che gli errori che seminava Martino Lutero, e senza dubio in grandissima parte, hanno avuto origine da la indiscreta superstizione di molti religiosi e da la avara ingordigia d’alcuni chierici e da la poca provigione che al principio gli era stata fatta. E ciascuno diceva ciò che piú gli pareva a proposito. Il magnifico Mantegazzo alora, rivolto al maestro del sacro palazzo, e preso di parlar licenza, narrò una istorietta a questo proposito che tutti ci fe’ ridere. Era io presente al suo parlare e, parendomi l’istoria degna d’essere scritta, quella subito scrissi. Ed intervenendo ne l’istoria quasi per principale un bolognese, voi m’occorreste a cui meritamente ella da me dedicar si devesse, essendo voi nato in Bologna d’onorata ed antica famiglia, e scrivendo tutto ’l dí gli annali de le cose dai bolognesi fatte, con tante altre vostre opere che componete. Questa adunque istoria vi mando e dono in testimonio de la nostra cambievole benevoglienza. State sano.