Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XI

Terza parte
Novella XI

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Dui giovini vestiti di bianco sono con una burla da un altro giovine beffati.


L’aver veduto questo vostro servidore che in parole cosí brusco ed acerbo si mostra e che non può patire di vedere sui suoi panni una minima festuca, m’ha fatto sovvenire una novella che non è ancora molto in una cittá di Lombardia avvenne. E poi che mi pregate ch’io ve la dica, io molto volentieri vi ubidirò. Erano dui giovini assai di buon sangue, i quali tenevano del simpliciotto anzi che no, perché il prete dando loro il battesimo pose pochissimo sale in bocca a l’uno e a l’altro. E per essere, come si costuma dire a Milano, parrocchiani de la parrocchia di San Simpliciano, avevano contratto per la somiglianza de le nature una gran familiaritá insieme, e sempre di brigata andavano e vestivano per l’ordinario d’una medesima foggia. Se poi si trovavano con altri giovini, dicevano le maggior pappolate del modo, e non potevano sofferire che altri che essi parlasse, e spesso senza rispetto veruno rompevano i ragionari degli altri. E trovandosi aver cattivi vicini, tutti i ragionamenti che facevano erano per la piú parte in lodarsi e commendar tutte le cose proprie, di modo che fastidivano qualunque persona che gli ascoltasse, e mal volentieri erano ricevuti in compagnia. Ora avvenne che essendo di state, essi si vestirono di zendado bianco, cioè il giuppone e il robone; le calze erano di panno bianco e le scarpe e la berretta pur bianche, di velluto, con pennacchini bianchi ne le berrette. Con questo abito comparsero in publico, e come pavoni andavano facendo la ruota, e a passo a passo riguardandosi e contemplandosi da ogni banda, e tuttavia con la coda de l’occhiolino sotto vista mirando s’altri guardava loro, parendogli pure che ciascuno di questo loro abbigliamento devesse tener proposito. Quando poi erano in compagnia d’altri, fuor d’ogni proposito entravano sul pecoreccio di questo lor abito, di modo che ciascuno fuggiva la pratica loro piú che si poteva, parendo a tutti aver sempre negli orecchi: – Mirate questo passamano come profilatamente sta su questo giubbone! vedete queste penne finissime come ad ogni picciolo soffiare di poco vento si moveno e fanno un tremolare il piú bello del mondo! che dite voi di questi puntali e di questa maestrevolmente fatta impresa? Certo che il tutto campeggia per eccellenza. E vi so dire che pochi, eccetto noi, averebbero sí bene accompagnato il tutto. – Con queste e altre simili ciancie erano a noia a tutti. Eravi un giovine molto galante, accorto e avveduto, al quale questi fecciosi modi di questi dui ganimedi meravigliosamente dispiacevano. Questi andava pur tuttavia imaginandosi come potesse lor far una berta e levar quella seccaggine de le orecchie di tutti. E cadutogli ne la mente ciò che far intendeva e al tutto messo buon ordine, aspettava l’occasione di poter mandar ad effetto ciò che imaginato s’aveva. Era, come di giá v’ho detto, di state; onde avendo egli avvertito che quasi ogni sera questi pavoni bianchi passavano per la contrada ove egli aveva la sua casa, perciò che colá vicino erano due belle giovanette con le quali eglino facevano l’amore, si mise un giorno dopo cena a star in porta a prender del fresco. E non essendo guari dimorato, ecco che i dui innamorati pavoneggiandosi arrivarono, ai quali fattosi incontra e presogli ambidui per le mani, disse loro: – Voi sète miei prigioni, e quindi non partirete senza ber un tratto. – Accettato l’invito dai dui, entrarono in casa; ove volendo i servidori lavar i bicchieri, disse il galante giovine: – Io vo’ che noi andiamo giú nel rivolto a bere, perché averemo piú fresco. – E fatto accender un torchio, essendo l’ora tarda e la cava scura, scesero a basso. Mentre che i bicchieri si lavavano, si posero tutti tre i giovini a passeggiar per la cava, che era assai grande e spaziosa. Era quivi un gran vaso pieno d’acqua, che il giovine v’aveva fatto metter a posta. E perché pareva di grandezza tale che un uomo nol potrebbe levare, egli ai convitati disse: – Io ho un mio uomo che si mette questo vaso su le spalle e lo porta di sopra. – Uno dei ganimedi, che si pensava esser molto gagliardo, nol potendo a pena movere: – Io non credo, – disse, – che un uomo possa portar tanto peso. – Che sí, che no, disputandosi tra loro, giocarono sei para di pernicioni. In questo bebbero, e venne uno che a questo effetto aveva il giovine fatto venire, e cominciò a mover il vaso e porselo in collo. Il giovine senza dir altro s’avviò su per le scale per montar in alto. Dopo lui andò il servidore che portava il torchio, e lui appresso quello ch’aveva il vaso in su le spalle. Seguivano i cavalieri bianchi ridendo. Le scale erano alte, e colui che portava il peso andava assai piano, fingendo esser molto gravato. Come egli fu quasi in cima de le scale, mostrò di intoppare in non so che e lasciò andare il vaso con tal modo che, percotendolo al muro, ciò che dentro il vaso era spruzzò di sorte che stranamente dipinse gli abiti dei dui giovini. Ma di tanto fu avveduto il portatore che ritenne sempre il vaso, ché se l’avesse lasciato andar in giú, faceva altro che imbrattar i panni. L’acqua che dentro v’era stata posta era stemperata con inchiostro e fango, di tal sorte che quelli, che erano prima bianchi come armellini, alora parevano pantere, cosí erano zaccherosi dagli schizzi de la percossa acqua e de le mesture che dentro v’erano. Mostrò il padrone de la casa di fieramente adirarsi con quello che il vaso portava e volerlo stranamente battere, ma egli adoperò le calcagna. E i dui giovini rimasero con il danno e le beffe, e fu necessario che d’altri vestimenti si provedessero, perché quelli che indosso avevano erano tutti guasti.


Il Bandello al reverendo padre


fra Girolamo Ticione de l’ordine predicatore


Il reverendo padre frate Eustachio Piatesio da Bologna, de le sacre lettere gran dottore e negli studi d’umanitá molto eccellente, soleva, quando era il tempo de le ricreazioni, e talora dopo le lezioni che di teologia o filosofia aveva letto, ed anco cavalcando, aver sempre per le mani alcuna piacevol novelletta da intertenere allegramente la compagnia. Egli era bello e faceto dicitore, di maniera che quando cavalcavamo ci diportava buona pezza con una de le sue novelle. Ora sovviemmi che tra l’altre volte, essendo fuor de la cittá di Napoli a Poggio reale mio zio, di santa memoria, maestro Vincenzo Bandello, generale di tutto l’ordine, essendo noi altri assisi in quegli amenissimi giardini, e passeggiando esso mio zio con maestro Barnaba da Salerno, general inquisitore del Regno; sovviemmi, dico, che il Piatese narrò una piacevole novella che a tutti sommamente piacque. Io, come fummo a Napoli, la scrissi, parendomi che meritasse d’essere consacrata a la posteritá. Ora, poi che le mie novelle vo ricogliendo, per serbarvi quanto giá, quando eravamo a diporto a le castella del signor vostro padre, vi promisi, vi dono essa novella. So che essendovi le cose mie sempre care, vi sará grata. Fate mò voi vicendevolmente che io de le cose vostre veggia, o latina o volgare, alcuna cosa. State sano.