Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella I

Terza parte
Novella I

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Terza parte - Il Bandello ai candidi ed umanissimi lettori salute Terza parte - Novella II

Pandolfo del Nero è sepellito vivo con la sua innamorata,


ed esce per nuovo accidente di periglio.


Non è ancora guari di tempo passato che io, andando a Loreto a compire un mio voto, pervenni ne la cittá d’Arimini, ove essendo dal sommo pontefice stato messo governatore il molto vertuoso e gentil dottor di leggi, ne le lettere umane latine e greche uomo di grandissimo giudizio, messer Antonio Cappo gentiluomo mantovano, fu necessario che ad albergar seco me n’andassi. Egli mi tenne dui giorni, e volle che io per l’antica nostra amicizia gli promettessi nel ritorno di starmi seco quattro o sei dí. Quivi adunque essendo, intesi un’altra novella che poco innanzi dicevano esser accaduta, la quale, per la sua novitá e per il periglio grande che vi intervenne, mi parve degna d’esser puntalmente ne la memoria tenuta. Ed anche ch’io sappia i veri nomi, nondimeno per convenienti rispetti m’è piacciuto, tacendo i propri, di finti prevalermi. Io ora in questa onorata compagnia la narro, perciò che a proposito mi pare di quella materia di cui si ragiona. Era in Arimini un giovine nobile ed assai ricco, chiamato Pandolfo del Nero, il quale una gentildonna di quella cittá sí fieramente amava che senza la vista di lei non sapeva un’ora starsi. Ella, che Francesca aveva nome, era d’un gentiluomo ricco, ma piú attempato che ella non averebbe voluto, moglie. Il perché essendo di continovo da messi, lettere ed ambasciate di Pandolfo molestata, e parendole che il marito spesso la metteva in appetito di mangiare e poi non era potente darle conveniente cibo come in letto si suol manicare, cominciò a prestargli orecchi. Né troppo stette che, piacendole assai il giovine, ella che ancora venti anni non passava, col mezzo d’una sua fante con Pandolfo si ritrovò. Egli, che prima amava, dopo l’aver gustato i dolci abbracciamenti de la sua Francesca, tutto ardeva. Medesimamente ella, avendo gustato i saporiti cibi di Pandolfo, non sapeva senza lui vivere, biasimando mille volte l’ora chi l’aveva ad un vecchio maritata. Amandosi adunque l’un l’altro senza misura, Pandolfo si metteva assai spesso a periglio de la morte per goder la sua amante, la quale non perdeva mai occasione di ritrovarsi con lui, nulla stimando la vita pur che col suo Pandolfo si potesse ritrovare. Perseverarono circa dui anni godendosi insieme ogni volta che potevano, e di continovo pareva che il lor amore piú s’accendesse e divenisse maggiore. Ora avvenne che la Francesca gravemente infermò e in poco di tempo, avendo un frusso fastidiosissimo, peggiorò di maniera che i medici giudicarono che ella non poteva molto vivere e che in un subito, parlando, si morirebbe. Il povero vecchio del marito, che sommamente l’amava, non lasciò cosa a lui possibile per sanarla che egli non facesse. Mandò a Bologna per medici eccellenti, non risparmiando in conto alcuno lo spendere; ma il tutto era indarno. Ella di giorno in giorno andava di mal in peggio e si consumava come la neve al sole. Pandolfo, poi che intese il mortal periglio ove la sua donna si trovava, fu per morir di doglia, e non sapeva ove dar del capo, tenendo per fermo che, se ella fosse morta, egli averebbe la vita avuta in odio. Ebbe modo per via de la fante, che era del lor amore consapevole, di mandarla a confortare e pregarla che per amor di lui volesse far buon animo e attendere a ricuperare la sanitá. A la donna le salutazioni e conforti de l’amante furono di meraviglioso piacere, come a colei che il suo Pandolfo amava piú che la vita propria. Le pareva poi che il morire tanto non le devesse dispiacere, se ella avesse potuto averlo a starsi seco e con lui ragionare. E conoscendosi di punto in punto mancare, entrò in tanta gelosia che altra donna dopo lei devesse goder Pandolfo, che questo pensiero molto piú la tormentava che l’istessa morte; onde s’andava imaginando come potesse avvenire che di compagnia morissero e fossero insieme sepelliti. E lungamente essendo in questi pensieri dimorata, deliberò prima che morisse di parlar con Pandolfo, con speranza che devesse succedere, come conietturar si può, ciò che poi successe. Ella aveva una cassa in camera capace d’un uomo, la quale a posta era stata fatta per celarvi dentro l’amante in qualche caso fortuito che fosse avvenuto quando egli era seco, come piú volte avvenne che Pandolfo vi si ascondeva per quattro e cinque ore. La cassa, come il coperchio calava giú, si fermava di tal sorte che senza chiave aprirsi non poteva, ed aveva qualche buco per ispiraglio. In questa cassa teneva ella tutte le sue piú care cose. Mandò, dopo molti pensieri fatti, pregando Pandolfo che la seguente notte devesse andar a vederla; il che al giovine fu sommamente grato. Il quale ci andò a l’ora determinata, e fu da la fante in casa intromesso e indi a poco ne la camera condutto. Il marito de la Francesca, dopo che ella infermò, s’era ridutto a dormir di sotto in una camera terrena, e soleva talora mandar la notte o venire a vedere come stava la moglie, a la cura de la quale non mancava di quanto era il bisogno. Ella, che quella notte voleva liberamente per una buona pezza ragionar con l’amante, si sforzò, prima che Pandolfo in camera entrasse, di mostrar un poco di star meglio, e disse che non voleva altra donna in camera, per quella notte, che la fante. E cosí restarono elle due sole. Ivi adunque essendovi Pandolfo arrivato, furono molte lacrime sparse prima che gli amanti si potessero dir una parola. A la fine, dopo l’essersi mille volte piangendo basciati e dettosi mille parolucce amorose, come in simili accidenti suol avvenire, la donna, dopo un grandissimo sospiro, disse: – Pandolfo, vita mia cara ed ultimo termine d’ogni mio desiderio, dimmi la veritá: non averai tu dolore de la morte mia? Non ti rincrescerá egli che tu non possa a la tua Francesca piú ritornare? – Come? – rispose alora piangendo l’amante: – hai forse dubio, anima mia ed unico mio bene, del mio amore? Se io potessi con la vita propria e con mille, se mille n’avessi, a la tua vita provedere, tu puoi esser sicura che tutte ad ogni rischio per tuo compenso le metterei. E quando, che Dio nol voglia! avvenisse che tu di questa infermitá mancassi, non so giá io ciò che di me io stesso mi facessi, ché solamente a pensarci mi sento morire. Ma confortati e fa buon animo, ché ancora giunta non sei a tanto estremo fine che al mal tuo non si possa dar rimedio. Tu sei giovane, e la giovanezza passa di grandissimi perigli di male. Attendi pur a star di buona voglia. – Pandolfo mio, – disse la donna, – la vita mia è ita, e quel poco di vivere che m’avanza è sí debole che nulla piú. Io sensibilmente sento di punto in punto mancarmi gli spiriti vitali e proprio come nebbia al vento disfarmi. E sallo Iddio che il morir per altro non mi duole se non per te: ché pensando lasciarti di qua senza me, e che col tempo debbia altra donna possederti, m’è cagione di tanta doglia che il morire a par di questo non mi par pena. Almeno sapessi io fare in modo che tu meco in un medesimo punto morissi, a ciò che essendo noi in vita per amore stati uniti, per morte ancora in una stessa sepoltura fossimo insieme sepelliti. Io morirei pur contenta se questa certezza potessi avere. – A questo, tuttavia lagrimando, rispose Pandolfo che ella deponesse questi pensieri, perciò che guarirebbe, e che ci sarebbe tempo pur assai da star insieme e allegramente vivere; e quanto piú poteva si sforzava consolarla. Mentre che gli amanti con lagrime e singhiozzi questi ed altri parlari fecero, il marito, a cui i medici avevano detto che sua moglie tuttavia mancava, essendo poco piú di mezza notte, si levò e, chiedendo a’ servidori del lume per andar a veder ciò che l’inferma faceva, fu da la fante sentito; la quale di subito avvisò gli amanti e andò incontro al padrone per tenerlo a parole e dar tempo a Pandolfo che potesse per la solita via di casa uscire, avendo ella lasciata la porta aperta, de la quale di giá la padrona aveva fatto far le chiavi, simili a quelle che il padrone teneva. Come gli amanti udirono che il marito veniva, Pandolfo voleva di camera uscire e, come era consueto, partirsi; ma la donna, che vedeva il tutto succedere secondo che ella s’era imaginata, lo pregò che ne la cassa s’appiattasse, a ciò che, quando il marito se ne fosse andato, potessero anco insieme ragionare. Egli, che troppo volentieri seco ragionava, entrò ne la cassa, che da se stessa, come il coperchio fu giú, si chiuse. Il marito venne di sopra, avendo prima da la fante inteso che la madonna aveva assai quietamente riposato. Entrato che fu in camera, andò al letto e domandò la moglie come si sentiva. Ella gli rispose che ancora che fosse alquanto riposata, che nondimeno credeva che oggimai poco piú viverebbe, perché si sentiva tuttavia mancare. Il marito la confortava, dicendole che facesse buon animo, e che era ottimo segno l’aver quietamente riposato; e molte parole le disse sforzandosi di confortarla quanto piú poteva. Fra questo mezzo la fante, credendo Pandolfo essersi di giá partito, andò a chiavar destramente la porta de la casa e poi di sopra se ne venne ove il marito e la moglie ragionavano; a la quale disse la padrona che fuor di camera aspettasse. Fatto questo, la moglie cosí al marito disse: – Marito mio caro e da me senza fine amato, io sono, come tu puoi vedere, giunta a l’ultimo passo de la vita mia, al quale conviene che per tempo o tardi ciascuno arrivi, non avendo nessuno privilegio da Dio di restare perpetuamente in vita. Questi pochi anni che teco stata sono, sempre m’è paruto conoscere che tu ferventemente amata mi hai e ti sei di continovo ingegnato di compiacermi, perciò che tutto quello che io da te ho voluto m’è stato liberamente concesso, né mai cosa che io chiedessi mi fu negata. Il perché in questa mia ultima partita giovami credere che il simile da te mi sará fatto. Per questo con maggior ardire ti voglio chieder una grazia e caramente pregarti che tu me la voglia fare. E di questo vorrei che tu mi dessi la fede tua per pegno. Che mi rispondi tu? – Non ti metter ora, moglie mia cara, – rispose il marito, – nel capo questa fantasia di morire; ma fa buon animo, ché io spero che tu guarirai. Nondimeno e ora e sempre t’impegno la fede mia che tu mai non mi chiederai cosa che sia in mio arbitrio, che io, per quanto si stenderanno le forze mie, non essequisca. Chiedi pur liberamente tutto quello che ti pare che da me adempir si possa, ché mai indarno non chiederai, perciò che io vorrei col sangue mio sodisfarti. – Io ti prego, – disse ella,– che dopo che io sarò morta, che certamente sará in breve, questa cassa che è qui dinanzi tu faccia meco ne la medesima sepoltura porre ove io sarò sepellita. In quella sono le mie cosette e certe novellucce che montano nulla, che non varrebbero però dieci fiorini, che a te fia di poco danno e a me sará di grandissima contentezza cagione. Ella è chiavata, né altro accade se non farla portar meco quando io sarò a la sepoltura portata. Se questa grazia mi fai, io morrò contentissima. – Il marito, che nel vero sommamente amava la moglie, le promise giurando che in questo e in ogn’altra cosa che fosse in suo potere le compiacerebbe, non si potendo imaginare che in quella cassa fosse cosa di momento, ma che ella le averebbe posto dentro qualche suo abbigliamento ed altre cosette donnesche che forse non voleva che fossero vedute. Ma che diremo noi di Pandolfo, che chiuso dentro la cassa ogni cosa aveva puntalmente sentita? Quanto è vero quello che communemente si dice: beato esser colui che di saggia donna innamorato si truova, e veramente colui esser infelicissimo che in donna sciocca e di poca levatura s’abbatte! Stava lo sfortunato amante tra l’incude e ’l martello: con ciò sia che, tacendo, si vedeva vivo esser sepellito senza speme d’aita; e scoprendosi, era certissimo che a brano a brano sarebbe stato smembrato, essendo de la fazione contraria a quella del marito de la donna, oltra questa nuova ingiuria d’averlo fatto cittadino di Corneto. Egli tra sé pensò mille cose, e non sapendo imaginarsi argomento di poter vivo scampare, poi che come il topo si vide ne la trappola preso, deliberò per minor male pazientemente in quella cassa morire. Io, signori miei, ho piú volte su questo caso pensato, e tra me ho conchiuso che la Francesca, essendo cascata in umore malinconico di voler che il suo amante seco fosse sepellito, facesse questo pensiero di farlo entrar ne la cassa, parendole che se egli cosa alcuna non diceva sarebbe con lei sepellito, e se voleva far movimento alcuno, che non poteva scampare, perciò che il marito e i suoi l’averebbero crudelissimamente ammazzato. O il misero amante ne la cassa si suffocasse o fosse da nemici morto, la Francesca aveva l’intento suo, parendole morir contenta pure che Pandolfo dopo lei in vita non restasse. Guardi Iddio tutti gli uomini da le mani di simili pazze femine! Ora avendo la donna avuta la fede del marito e tenendo per fermo che l’amante sarebbe seco sepellito, deliberò non voler piú restar in vita, e ristretti in sé quei pochi e deboli spiriti che rimasi le erano, tenendo il fiato quanto piú poteva e non rispondendo a cosa che le dicesse il marito, se ne morí. Il pianto del marito fu grandissimo, il quale, dopo l’aver assai lagrimato ordinò che l’essequie il dí seguente sul tardi si facessero. Come fu giorno, vennero i parenti ed amici, uomini e donne a consolar il marito de la perdita de la moglie e porre ordine ai funerali. Il marito de la donna morta, avendo deliberato che quanto ella circa la cassa gli aveva chiesto s’essequisse, lo communicò con alcuni dei suoi parenti. Tutti erano di parere che egli la cassa facesse aprire, ché forse vi trovarebbe tal cosa dentro che sarebbe mal fatto averla sepellita; ma egli, che era disposto serbar la data fede a la moglie, non volle in modo alcuno che fosse aperta. Venuta la sera, fu levato il corpo e portata dietro al corpo la cassa, con meraviglia grandissima di tutta la cittá. Quando Pandolfo si sentí levare e indi cantare quel Requiem aeternam, non è da domandare come si sentisse. Egli fu piú volte vicino a gridare e discoprirsi, rompendo il proposito che aveva fatto di voler pazientemente morire. Ma conoscendo certamente che alora alora sarebbe stato in mille pezzi tagliato dai parenti del marito e de la donna che il corpo accompagnavano a la sepoltura, e rivolgendo ne la mente l’amore de la donna e pensando che questo ella fatto avesse vinta da soverchio amore, fece l’ultimo proponimento di morir tacendo, a ciò che non infamasse in morte quella che tanto in vita aveva amata. E con questo pensiero si lasciò portare a la venerabile chiesa di San Cataldo, che è dei frati predicatori. Mentre che sovra il corpo si cantavano i soliti mortuarii, la cassa fu dentro la sepoltura deposta in un canto, perciò che la sepoltura era assai grande. Dopoi fu messo dentro il corpo de la donna. E perché giá era notte oscura, non fu altramente il buco del sepolcro con calce turato, ma solamente fu la pietra di sopra messa, volendo poi la matina acconciarla come è costume. Sentendosi il povero Pandolfo esser sepellito, il quale mai non s’era, da che ne la cassa si chiuse, mosso, si volle metter su un gallone e, con le mani toccando, trovò certe cose, in tela avviluppate, esser ne la cassa; ma non volle cercare ciò che si fosse, attendendo ad acconciarsi di maniera che con men doglia che fosse possibile si morisse. Aveva, come si è detto, la cassa certi spiragli; ma perché il sepolcro era mal turato, ancora che un poco d’aria entrasse, nondimeno egli sentiva ingrossarsi il fiato, ed il puzzo v’era grande di quello umido de la sepoltura. Ora Iddio, piú pietoso verso Pandolfo che egli di se stesso stato non era, a la salute di lui in questo modo provide. Aveva un nipote del marito de la morta donna inteso da la fante come tutte le preziose cose di quella erano ne la cassa che con lei deveva sepellirsi. Il perché, dopo finiti i funerali, trovò dui suoi compagni e loro scoperse quanto intendeva di fare, i quali dissero che erano presti ad accompagnarlo; onde d’una pezza innanzi che i frati levassero a matutino, ebbero modo d’entrare nel convento e poi ne la chiesa, ove entrati e trovato che la pietra sovra il buco non era fermata, quella di leggero dal suo luogo smossero. Questo sentendo Pandolfo, che era mezzo soffocato, e dirittamente imaginandosi il fatto come stava, si confortò tutto. Levata via la pietra, il nipote del marito con uno dei compagni entrò ne la sepoltura e con certi ingegni che recati avevano subito la cassa apersero. Come Pandolfo sentí la chiavatura rotta, saltò con gran furore su, scotendosi con fierezza e urlando stranamente, di maniera che i dui giovini che erano dentro entrati si gettarono in un tratto fuori, e quanto le gambe gli puoterono portare, dietro a quello che di sovra era rimaso e via smarrito fuggiva, se ne fuggirono. Veggendosi poi Pandolfo in libertá, quanto in cosí alta ventura si ritrovasse lieto, pensilo ciascuno. Egli uscí del sepolcro e, presa una torchia di quelle che si accendeno quando il sacerdote leva il corpo di Cristo, rientrò dentro e volle veder la sua donna morta. Bramando poi sapere che cose fossero ne la cassa, ritrovò tutte l’anella e catene d’oro de la donna con assai buona somma di danari. Egli si pigliò il tutto e uscí fuori, e con un palo che quivi era, avendo prima riserrata la cassa, ritornò la pietra sul buco come prima era, e de la chiesa e del convento dei frati per via de l’orto uscito, a casa se n’andò, ove molti dí senza lasciarsi vedere stette, parendogli d’esser tuttavia sepellito. Io porto ben ferma openione che se egli poi s’innamorò di donna alcuna, che divenisse di maniera saggio che a simili rischi piú non si lasciasse accogliere. Ché in vero non sono cose da usar troppe fiate, e si deve guardar ciascuno d’amar donne che piú amino gli appetiti loro disordinati che la vita degli amanti.


Il Bandello al dotto messer


Marco Antonio Sabino


So che vi sarete meravigliato, Sabino mio candidissimo, de la mia epistola latina, che io ho scritta al signor conte Lazaro Tedesco piacentino in lode de la Calipsichia del nostro Radino, che egli ha fatto stampar in fronte di essa sua Calipsichia. Io, pregato da lui, non gli seppi negare di spender un poco d’inchiostro suso un foglio lodando l’opera, la quale nel vero è mirabile, artificiosa, cristiana, e composta con ingegno grandissimo, e tutta cosparsa di begli ornamenti poetici e filosofici. Il Radino s’è sforzato in quella, quanto piú gli è stato possibile, d’imitare ed effingere la frasi e il filo de lo stile apuleiano, dicendo che cotal materia ama e ricerca piú tosto quel modo di scrivere che altro ci sia, onde anco volle che io ne toccassi alcuna parola. Il che, per dir il vero, feci io molto mal volentieri e contra ogni mia voglia. Ma egli m’era sopra quando io scriveva, e mi sforzava a dir a suo modo, o bene o male ch’io dicessi. Sapeva ben io che il reverendissimo e dottissimo monsignor Domenico cardinale Grimani, in una sua lunga epistola impressa in Roma, vitupera questa frasi apuleiana come molto allontanata dal candore e maestá de la lingua latina, e questo dir apuleiano chiama egli la «feccia de l’eloquenza latina», e senza fine riprende coloro che cercano d’imitarlo, come riprensibili meritamente si rendeno tutti quelli che, avendo generoso e odorato vino in casa, vanno ricercando agresto od aceto per bere, o vero uno che caminando si senta aver grandissima sete, e abbattutosi ad una chiara e fresca fontana a cui sia vicino un fetido e torbido pantano, lasciate le dolci e saporose acque fontanili, beve le guaste del pantano. In questo numero si deveno metter tutti quelli che, lasciato il candido e purissimo latte de l’eloquenza ciceroniana, si vogliono pascere e nodrirsi de l’amarissimo fele del dire apuleiano. Essi almeno considerassero ciò che Apuleio scrive nel principio de l’opera de l'Asino de l’oro, ove egli si scusa de lo stile che usa, se non è latino. E nondimeno molti si trovano che l’ammirano, amano e cercano con ogni studio d’imitarlo. Or ecco che mentre che io a voi scrivo, don Aurelio Gallina nostro m’ha portata la vostra ingegnosa e dotta elegia, la quale voi, parlando di questa materia, a me intitolate e avete fatta stampar qui in Milano da maestro Gottardo da Ponte stampatore. Io senza fine vi ringrazio de le lodi che in quella mi date. E se bene conosco non esser in me quelle parti di dottrina che voi, la vostra mercé, cantando mi date, forse vinto da l’amore che mi portate, e dal desiderio adombrato che avete di vedermi tale quale mi predicate, giovami nondimeno d’esser piú tosto da voi falsamente celebrato che sentir che un altro con veritá mi vituperasse. L’esser poi da voi lodato non può se non recarmi gloria e a grande onore essermi attribuito, con ciò sia che finalmente quella sia vera lode che da un lodato uomo procede come sète voi, di lettere e di buon costumi ornatissimo. Io m’era posto a scrivervi per mandarvi una mia novella che non è molto io scrissi, la quale, ancora che non sia la piú onesta del mondo, è almeno faceta e da ridere, e può insegnar ai vecchi che debbiano misurar le forze loro e non credere in tutto ai disordinati appetiti loro. Devete adunque sapere che questi dí passati, essendo una compagnia di giovini nel giardino del signor Roberto Sanseverino, conte di Gaiazzo, in porta Vercellina, dove di brigata avevano desinato, avvenne che si entrò a ragionare d’un vecchio, il quale, essendosi ritrovato a stretto ragionamento con una donna, se gli mosse il concupiscibile appetito molto fieramente. E volendo dar compimento ai suoi poco onesti desidèri, non ci fu mai ordine che egli, con ogni sforzo che facesse, entrasse col suo messer Mazza in possessione del Montenero; del che il povero vecchio rimase grandemente scornato. E ridendo, come in simili ragionamenti si suole, tutta la compagnia di quei giovini, Aristeo da Bologna, sescalco de l’umanissimo signor Alessandro Bentivoglio, che quivi di brigata si ritrovava, narrò loro una picciola ma ridicola novella a questo stesso proposito. Essa novella fu da me, secondo che egli la narrò, scritta. E sapendo quanto voi sète festevole, e che volentieri dopo gli studii vostri pigliate spesso piacer d’alcuna cosa piacevole, per trastullarvi e rendervi piú forte ad essi studii, quella al nome vostro ho dedicata, rendendomi certo che di buon animo l’accetterete. Se poi sará alcuno critico che dica, come gli spigolistri dal collo torto sogliono assai sovente dire, che queste cosí fatte ciance né a voi leggere né a me scriver si convengono, si risponderá loro il verso del poeta:


È ’l dir lascivo, ed è la vita onesta.


State sano.