Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XVI

Seconda parte
Novella XVI

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Bell’atto di giustizia fatto da Alessandro Medici


duca di Firenze contra un suo favorito cortegiano.


Devete sapere, signori miei, che ciascuno che occupa il dominio de la sua patria, e massimamente che fin alora sia stata libera, che conviene che faccia molte cose e stia piú vigilante che non farebbe uno che s’insignorisse de la patria o d’altro luogo che giá fosse avvezzo aver signore. Questo dico perciò che avendo il duca Alessandro preso in sé il dominio di Firenze che era in molti, è necessario che non solo quelli che attualmente erano de la Signoria, ma che anco gli altri che speravano ascendere, chi ad esser gonfalonieri, chi degli «otto» e chi d’altro ufficio, si tengano offesi, e che giorno e notte pensino a la ricuperazione de la lor antica libertá. Bisogna poi che consideri che communemente i cittadini piú facilmente si metteranno soggetti ad uno straniero che ad un cittadino, parendogli che essi meritino cosí bene quel grado come quell’altro, e gli pare non dever sofferire che uno che era lor uguale gli debbia cosí leggermente diventar padrone. Per questo il duca Alessandro che non solo si sodisfá aver messo il freno a la patria sua e fattosene signore, ma vorrebbe cotesto dominio stabilire e lasciarlo ben fondato e fermo ai suoi figliuoli e nipoti, è astretto tutti quelli che conosce contrarii a questo suo desiderio, o con morte o con essilio o con dar loro quei confini che gli paiono, levarsi dinanzi, e tanto tenergli da sé lontani quanto che conosca essersi di tal maniera proveduto che piú non gli possano nuocere. Né solo i manifesti nemici ed avversarii deve levarsi dinanzi e render deboli, ma deve ben considerare tutti gli aderenti, e questi tali anco tener per qualche tempo allontanati da la pratica de gli altri cittadini, il che a me pare che egli molto saggiamente faccia. E come giá s’è detto, egli si sforza che la giustizia in ogni cosa si essequisca. Vi dico adunque che essendo Andrea Marsupini, tra’ cittadini onorati di Firenze uomo di molta stima venuto in qualche sospetto al duca Alessandro, fu da lui confinato in contado, e si ridusse a Prato ove dimorò qualche tempo. Il duca dapoi per qualche sospetto che ebbe, o che a questo fosse da altri stimolato, non volle che piú Andrea si tenesse a Prato, ma gli diede i confini in Casentino, in una villetta vicina a Bibiena che da’ paesani si chiama Rassina. Quivi si condusse il Marsupini e vi menò la moglie e i figliuoli, e come colui che non si sentiva colpevole, attendeva questo essiglio a sopportare piú pazientemente che fosse possibile, sperando pure d’esser un dí a la patria restituito. Egli era creditore d’un cittadino, cortegiano d’esso duca, il cui nome m’è uscito di mente, e deveva da quello aver circa cinquecento ducati o poco piú o poco meno. E veggendosi esser poco grato al duca del quale il debitore era molto favorito, non ardiva fargli molta instanza per riaver i suoi danari, ma cosí freddamente glieli faceva richiedere. Il giovine, che poca voglia mostrava di volerlo pagare, gli dava parole e con quelle lo menò circa quattro o cinque anni. Ora veggendo il Marsupini che l’amico non era disposto a pagarlo cosí di leggero, pensò per via di parenti ed amici fargliene parlare, e quando pure lo ritrovasse come al solito renitente, aver con una supplicazione ricorso al duca. Fatta questa deliberazione, mandò Amerigo suo figliuolo, che era di dodici in tredeci anni, verso Firenze, informato del caso e con lettere a’ suoi parenti ed amici. Amerigo, prima che parlasse né desse lettere a nessuno, come fu a Firenze se n’andò a ritrovar il debitore e per commissione di suo padre gli domandò i danari. Il debitore mostrò curarsi poco di lui, di che il fanciullo, che era d’ingegno e di spirito, non si smarrí punto, ma disse che se non pagava il debito che deveva al padre, che se n’anderebbe a querelar al duca. Il giovine, sdegnato che un garzoncello avesse ardire di dirgli simil parole, lo minacciò che se piú di parole lo molestava, che gli romperebbe il capo, e da sé con agre parole lo licenziò. Il fanciullo veggendo questi contegni del debitore, senza mettervi su né piú oglio né piú sale, se n’andò di lungo al palazzo ove il duca dimorava, e detto ad uno degli uscieri che aveva bisogno di parlar con il signor duca, fu intromesso. Il duca veggendo il fanciullo di buona presenza, gli domandò ciò che voleva. Amerigo alora disse di cui era figliuolo e la cagione per la quale suo padre l’aveva mandato a Firenze, e le male parole che il debitore gli aveva detto col minacciarli di rompergli il capo. Supplicò dopoi molto umilmente il duca che degnasse fargli giustizia e non volesse permettere che se ben suo padre era confinato, che perciò il debitore di questo modo lo straziasse, essendo giá piú di cinque anni che era vero debitore. Il duca udita la proposta del fanciullo, essendogli mirabilmente piaciuto il ragionar di quello, considerato che non domandava se non cosa che licitamente non se gli poteva negare, disse che non si devesse partire e che in breve lo spedirebbe. Onde commise che il debitore fosse domandato, al quale venuto a la sua presenza domandò s’era debitor d’Andrea Marsupini, e di quanta somma e da quanto tempo in qua. Non seppe il cortegiano negar la veritá e liberamente il tutto confessò. Il duca alora: – Adunque, – disse, – vuol il devere che tu gli sodisfacci senza indugio, essendo tanti anni che questa somma gli déi dare, assicurandoti che se piú tosto mi fosse stato detto, che tu giá l’averesti pagato. E perché io intendo che tu hai bravato e minacciato di battere e romper il capo a cotesto garzone, io ti ricordo per profitto tuo che tu lo guati e lasci stare, non gli dando molestia in qual si voglia maniera, per quanto hai cara la vita, perché io non ti averei in questo caso un minimo rispetto. E per Dio tu sei divenuto uno gran bravo a volerti porre contra un fanciullo. Va, e provedi che stamane Andrea Marsupino abbia il suo come è il devere, e fa di modo che io non ne senta piú motto alcuno. Io non vo’ né sono per sopportare che uomo del mondo sotto l’ombra mia faccia nocumento a persona. – Cominciò il debitore a scusarsi, dicendo che non era possibile che cosí tosto potesse trovar tanta somma di danari, e domandava che il termine a lui si prolungasse tre o quattro mesi, e che daria idonea cauzione di pagare. – No, no, – disse il duca, – tu hai avuto tempo assai, e a farti il debito tuo, meritaresti che gli interessi ti fossero fatti pagare. E certo Andrea Marsupini si diporta troppo civilmente teco, e non mi par onesto che tu piú lo meni d’oggi in domane. – Stringevasi ne le spalle il debitore e ripregava il duca che almeno d’un mese gli facesse temine, non sapendo per alora dove dar del capo. – Per questo non resterá, – rispose il duca, – io te gli presterò e dal mio tesoriero te gli farò dare, con questo che in termine d’un mese e mezzo tu gli paghi poi al tesoriero. E guarda non fallire. – Promise il giovine pagargli al tempo ordinato, onde il duca, fatto chiamare un zio del fanciullo, gli fece sborsare dal tesoriero tutta la somma de la quale il giovine era debitore, a ciò che fidatamente al suo parente la facesse avere; il che fu messo in essecuzione. Questo atto divolgato per Firenze, accrebbe mirabilmente la riputazione d’esso duca e fu cagione di rappacificare gli animi di molti che forse non si contentavano di quel nuovo dominio, veggendo nel prencipe loro tanta giustizia col cui mezzo speravano di giorno in giorno andar di bene in meglio. E nel vero tra l’altre lodevoli e necessarie parti che ogni prencipe deve avere, io credo che la giustizia sia una de le prime.


Il Bandello al signor Lelio Filomarino


colonnello del re cristianissimo


Io ho molte fiate notato, – ché di rado avviene che cosí non sia, – che la maggior parte degli uomini i quali anzi che no hanno un poco de lo scemo, ma si tengono esser avveduti e credeno che non ci sia persona che ingannar gli possa, che questi sono quelli che ogni dí incappano in mille errori e fanno i piú strabocchevoli falli del mondo. Tutto quello poi che fanno par loro il meglio che far si possa. E se talora alcuno gli ammonisce e si sforza fargli capaci quanto eglino s’ingannino, non la vogliono intendere e si beffano di chi i lor misfatti ripiglia, dando sempre l’ordinaria risposta degli sciocchi, che ben sanno ciò che si fanno e che non temeno esser ingannati, di modo che ne l’errore, che essi avviluppati sono, non vogliono vedere. Quando poi parlano, si ascoltano, e se l’uomo de le sciocchezze che dicono, ché pur assai ne dicono, si ride, pensando molto spesso cotal risa venire perché abbiano alcuna bella e notabil cosa narrata, se ne tengono assai da piú. E quanto meno sanno parlar e discorrer dei maneggi del mondo, piú si metteno a parlare e non lasciano mai che il compagno finisca una ragione, ché sempre lo interrompeno. Se per sorte poi tu non lodi ciò che dicono, ti biasimano e ti chiamano uomo senza ingegno. Di questi tali non è molto che ne l’alloggiamento del conte di Pontremoli si ragionava, poco dopoi che l’essercito del re cristianissimo sotto la cura ed imperio del signor conte Guido Rangone, luogotenente generale d’esso re, partí da la Mirandola passando per mezzo Lombardia a la volta di Genova; passato e ripassato l’Apennino, attraversò il Monferrato ed in Carignano si fermò, che voi col vostro colonello avevate da le mani degli imperiali levato. Ragionandosi adunque di costoro che nulla sanno e si persuadono saper il tutto, e de le beffe che talora a quelli si fanno, il signor Antonio Maria capo di fanterie narrò una piacevole e ridicola novella, la quale essendomi paruta festevole descrissi. Ora sotto il valoroso vostro nome l’ho al numero de le mie novelle annoverata, a ciò che resti, appo coloro che dopo noi verranno, testimonio de l’amicizia nostra. State sano.