Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LIX
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Novella LIX
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Sciocca semplicitá d’un tedesco che avendo mandato
il padrone a Corneto glielo manifesta con sue sciocche parole.
Poi che io, per farvi legger l’artificiosa novella del Boccaccio, de lo strazio fatto de la giovane dei Traversari, sono stato cagione di contristarvi, a ciò che debita penitenza ne faccia e con medicina contraria curi la vostra malinconia, forza m’è di farvi ridere. Onde per ora non ci essendo altro che dire, farò che la mano che ha fatto la piaga, quella anco la sanerá. A ciò adunque che rider possiamo, vi dico che nel tempo che Massimigliano Cesare era con quella numerosissima oste a torno a Padova, un gentiluomo vicentino, che con la famiglia in Mantova s’era ridutto, m’affermò che non molto innanzi la guerra e rotta di Giara d’Adda venne un tedesco giovine e s’acconciò in Vicenza con un gentiluomo per famiglio di stalla, perché altro essercizio non sapeva fare che acconciar cavalli. Egli era d’assai piacevole e buon aspetto, ma tanto sempliciotto che ogni cosa se gli saria data ad intendere. Il gentiluomo con cui s’era messo, sopra ogni cosa si dilettava d’augelli, ed al tempo suo ogni giorno era a cavallo a far volare; e veggendo che il tedesco non attendeva ad altro che a la stalla, gli diede anco la cura di tener netti gli stivali e rendergli, ungendogli di grasso, molli. Del resto nessuno lo molestava. Era Arrigo, – ché cosí il tedesco si chiamava, – di ventiquattro in venticinque anni, né ancora aveva provato che cosa fosse rimetter il diavolo ne l’inferno. E perché egli mangiava da lavoratore e beveva a la tedesca, il guardiano degli orti gli dava grandissimo impaccio, e quasi di continovo teneva l’arco teso, non sapendo che rimedio far al suo male. Ma poi che vide ed alcune volte provò che gli stivali del suo padrone, essendo durissimi, per esser unti di grasso e messi al sole, divenivano pastosi e molli, s’imaginò il semplice giovinaccio d’aver trovato il modo d’intenerire e far molle la sua facenda. Onde cominciò col grasso, essendo sbracato, al sole ungerla; ma per questo niente faceva e la piva stava piú gonfia che mai e punto non si mollificava. Di che egli di malavoglia si ritrovò, pensando perciò che bisognasse perseverare e ogni dí adoperar de l’unto. Ora avvenne che una volta la moglie del vicentino, essendo andata nel cortile a far certe sue bisogne, vide dietro la stalla Arrigo al sole con la lancia in resta, che quella di grasso ungeva, e parvele pure la piú dolce cosa e bella del mondo, perché era bianca come neve: e le venne grandissima voglia di provarla e veder come la si manteneva su la giostra, e tanto piú quanto che quella del marito non era appresso la metá cosí grossa né nervosa. Onde non istette molto che fece domandare Arrigo e cominciò seco a ragionar del governo de la stalla. E veggendo che non ci era persona presente, gli disse: – Arrigo, io non so quello che di te mi dica, quando penso che in quindeci giorni hai consumato piú grasso intorno agli stivali di messere che non farebbe un altro famiglio in tre mesi. Che cosa è questa? Io dubito che ne faccia altro e che lo vendi. Dimmi la veritá, ch’io la vo’ sapere: che cosa ne fai tu? – Intendeva Arrigo quasi ogni cosa che se gli diceva, ma non sapeva poi in italiano ben isprimere il suo concetto; pure semplice anzi scioccamente a la padrona rispondendo, le confessò il fatto come stava. E per meglio farsi intendere, si slacciò il braghetto e prese la sua lancia in mano, e a lei, che giá tutta gongolava ed aveva la saliva a la bocca di provar come a le bòtte reggesse, mostrò come il grasso adoperava soggiungendo che quella medicina giovamento né profitto alcuno gli recava. – Mai sí, – disse alora la donna, – che tu sei un bel fante! Ben sai che codesta è una sciocchezza e nulla vale a questa tua infermitá. Ora io ti vo’ insegnare un ottimo rimedio; con questo patto: che tu altrui non lo ridica giá mai. Vieni, vieni meco, e vederai quanto tosto io te lo farò, questo tuo piviolone, dico, divenire piú molle che una pasta. – Era il marito fuor de la cittá e in casa non si trovava di chi la donna avesse a temere; onde conduttolo in una camera, seco amorosamente trastullandosi, volle che egli cinque volte nel suo grasso s’ungesse. Questa medicina, oltra che mirabile al tedesco parve, piacque meravigliosamente a tutti dui; ed ogni volta che commoditá v’era, e sentiva crescersi roba a dosso, con l’unto de la padrona ammorbidava il fatto suo. Ed avendo Arrigo l’animo piú a questo unto che a quello degli stivali, volendo andar il padrone a far volare, avvenne che un giorno trovò gli stivali non esser né netti né unti, di che fieramente entrò in còlera. Il buon Arrigo non sapeva che dire. Ed il padrone a lui: – Come vuoi tu, – disse, – che io faccia, tedesco ubriaco che tu sei? come farò mò io, brutto poltrone? Questi stivali sono tanto duri e secchi che né tu né altri me gli potrá calzare giá mai. Che ti vengano mille cacasangui, asino da basto! – Temendo Arrigo non avere de le busse: – Non vi turbate, – disse, – non vi turbate, messere, ché io in un tratto gli farò venir molli. – Tu farai il gavocciolo che ti venga, sozzo cane, unto, bisunto! – rispose il padrone. Arrigo alora, che lo vedeva di piú in piú accendersi in còlera, mezzo fuor di sè, scioccamente gli disse: – Sí farò io, messere, se voi avete un poco di pazienza, perché un tratto solo che io gli metta nel ventre di madonna, vi so dire che si mollificheranno. – Volle il padrone intender il modo di cosí subita mollificazione; il che l’ubriaco tedesco puntalmente gli scoperse. Onde veggendosi esser fatto signor di Corneto, per alora altro non disse se non che piú non voleva cavalcare. Indi poi, passati alcuni pochi dí, disse al tedesco che andasse a trovarsi padrone, perché piú di lui servir non si voleva.