Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LVI

Seconda parte
Novella LVI

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Infelicissimo amore di due dame reali e di dui giovini


cavalieri che miseramente furono morti.


Egli mi pare, signori miei, che tutti siate pieni di meraviglia che queste reine e nobilissime donne, che ricordate avete, abbiano aperto il petto a le fiamme amorose, essendo in cosí alto grado poste come erano, quasi che elle non fossero di carne e d’ossa come le donne di bassa condizione sono, e in loro non devesse destarsi il concupiscibile appetito come ne l’altre. Ma se bene considerate, ci parrá certamente che l’ammirazion vostra non meriti titolo di meraviglia, perciò che quanto piú la donna è nodrita dilicatamente, quanto piú si pasce di cibi nobili e preziosi, e quanto piú si dá a l’ozio, a le lascivie, a le delicatezze, e morbidamente dorme, e tutto il dí vive in canti, suoni e balli, e di continovo di cose amorose ragiona ed ascolta volentieri chi ne parla, tanto piú sia facile ad irretirsi nei lacci amorosi che non sono quelle il cui stato è basso, e bisogna che pensino al governo de la casa e come ne la strettezza dei beni de la fortuna onoratamente vivano e mettano i figliuoli a l’onore del mondo. Ché in vero, se voi levate l’ozio a le donne, indarno in quelle l’amorose saette s’avventano, perché, spuntate, non hanno forza accendere in quelle fiamma alcuna; ove per lo contrario le morbide, delicate e gran donne, nodrite di lascivia e d’ozio, in un subito s’accendono e s’invischiano. È ben vero che un solo freno hanno queste donne di stato, che è che, essendo negli occhi de l’universale, il peccato loro è piú manifesto e chiaro che de le donne di bassa condizione. Ma questo freno molto di leggero da loro si sfrena e rompe, facendosi elle a credere che nessuno veggia i loro errori o debba esser oso quelli mordere o publicare. Del che elle meravigliosamente restano ingannate, avendo sempre il peccato che si fa maggior enormitá e piú macchia in sé quanto colui che pecca è di stato piú sublime e grande. Ed a questo proposito mi sovviene d’aver letto ne le croniche nostre di Francia di due grandissime donne di stato reale, le quali, rotto il freno de l’onore, precipitarono ne l’abisso de la morte, come ascoltandomi intenderete. Dico adunque che Filippo il Bello re di Francia ebbe tra gli altri tre figliuoli maschi, che tutti l’uno dopo l’altro furono regi, ma nessuno di loro tre ebbe figliuoli maschi; di modo che la corona pervenne poi ne le mani di Filippo di Valois, di cui il legnaggio oggidí ancora regna. Questi figliuoli di Filippo Bello furono molto mal avventurati ne le mogli loro, perché due furono provate adultere e punite, e la terza accusata, ma, non si provando l’adulterio, fu assolta. Era il primo dei figliuoli Luigi re di Navarra, sovranominato Utino, il quale ebbe per moglie Margarita figliuola di Roberto di Borgogna. Il secondo, chiamato Filippo il Lungo, fu marito di Giovanna figliuola d’Ottone conte di Borgogna e di Matelda d’Artois, e fu esso Filippo fatto conte di Poiterí e di Tolosa. Il terzo, che si chiamò Carlo, anco egli ebbe il cognome di Bello e fu conte de la Marca a d’Angolesme. A costui fu data per moglie Bianca figliuola del sovradetto Ottone. Ebbe Filippo, padre di questi tre, dura ed aspra guerra con Edovardo re d’Inghilterra, figliuolo di Enrico quarto, e contra Guido conte di Fiandra, e diverse volte vennero a le mani facendo fatto d’arme, ove morirono uomini assai, cosí de l’una parte come de l’altra, avendo perciò per lo piú i fiamengi il peggiore. Durò, mentre che Filippo visse, la guerra, e morendo la lasciò ereditaria a Luigi primogenito e a tutti gli altri suoi figliuoli. Essendo adunque il padre con tre figliuoli in campo, e guerreggiando in un medesimo tempo contra gli inglesi e fiammenghi, che erano insieme collegati a la destruzione de la Francia, avvenne che la reina di Navarra Margarita e Bianca, moglie, come s’è detto, di Carlo, essendo un giorno insieme e lamentandosi de la lontananza dei mariti che erano ne l’oste, dissero che non cercavano giá che quelli si stessero con le mani a la cintola, ma che portavano ferma openione che devessero darsi buonissimo tempo e prendersi piacere con ogni donna che loro venisse a le mani. E di questo piú e piú volte ragionando tra loro, la reina di Navarra, che era alquanto piú baldanzosa de la cognata, disse: – Signora cognata e sorella, noi tutto il dí non facciamo che dire de le parole, e i nostri mariti fanno de’ fatti. Io so bene ciò che mi vien detto da chi viene da l’oste. Pensate pure, se bene sono su la guerra, che attendono ai diletti e trastulli, e non mancano loro femine con cui menano vita chiara; e di noi che qui siamo nulla loro sovviene, anzi quando hanno alcuna bella figliuola dicono che noi niente vagliamo a pari di quelle che si godono. Ma io so bene ciò che, per l’anima mia! meritarebbero. Non so mò quello che a voi ne paia, che quando a voi ne paresse ciò che a me ne pare, mi darebbe l’animo che noi faremmo che qual dá l’asino in parete, tal ricevesse. Essi non si curano di noi, e noi deveremmo render loro pane per ischiacciata, e meno curarsi di ciò che si facciano. Eglino fanno pur tutto quello che gli piace, o ne pigliamo dispiacere o no. E certamente che sarebbe lor fatto il dovere che, poi che essi risparmiano quello di casa, noi con aita d’altrui lo logorassimo. Che ne dite voi, signora cognata? Parv’egli che noi in questa nostra fiorita giovanezza debbiamo esser trattate di questa maniera? – Madama Bianca, udendo cosí ragionare la reina di Navarra, essendo anco ella desiderosa di giocare a le braccia con un gentiluomo che ella amava, disse: – In buona fé, madama, che voi dite il vero, ed io piú e piú volte ci ho pensato, ma non ci veggio modo che possiamo far le cose nostre che non si sappiano, avendo tanti occhi a torno. E se mai si risapesse o ne venisse indizio ai nostri mariti, noi saremmo arse. – La reina, sentendo la disposizione di madama Bianca, e per innanzi avendo giá pensato ciò che fosse da fare e che modo tener si devesse che il fatto non si scoprisse, lo narrò a la cognata, la quale, trovatolo buono, deliberarono non dar indugio a metterlo ad essecuzione. Erano in corte dui giovini cavalieri, dei quali l’uno era quello che a madama Bianca molto piaceva, che era chiamato Gualtieri di Dannoi, ed aveva un suo compagno e parente che aveva nome Filippo di Dannoi, i quali di continovo praticavano insieme e tutti dui erano assai belli e di costumi e grate maniere ornati. Come la reina intese Gualtieri piacer a la cognata, conoscendolo molto bene, pose l’animo al compagno, e le parve, al modo che pensato aveva, che questi dui verrebbero troppo bene a proposito. Consigliatesi adunque tutte due, cominciarono ogni volta che vedevano i cavalieri, che tutto il giorno gli vedevano, a far loro grate accoglienze e lietissimo viso. Né guari in lungo andò la bisogna che i dui compagni, che non erano punto melensi, s’accorsero de l’amore de le due dame, e, mostrando di questo esser lietissimi, si sforzavano quanto loro era possibile di fare ogni cosa che loro conoscessero esser a grado. Aveva la reina di Navarra un suo fidatissimo usciero, col quale parlando, lo instrusse a pieno di ciò che voleva che facesse. Egli, desideroso di sodisfare a la sua padrona, trovati i dui cavalieri insieme, gli manifestò l’intenzione de le due dame, e tali diede loro contrasegni che eglino s’assicurarono del fatto; del che reputandosi i piú aventurosi uomini del mondo, attendevano ciò che loro le dame comandassero. E perché ove le parti sono in tutto d’un volere non si dá molto indugio a condurre la cosa al desiderato fine, col mezzo de l’usciero si trovarono i novelli e lieti amanti in una camera, ove tutte due le dame senz’altra compagnia, piene di gioia ed allegrezza infinita, gli aspettavano. Le accoglienze furono gioiose e piene d’amorevolezze, e da quelle si venne ai baci ed amorosi abbracciamenti ed ultimamente a dar compimento ai loro disii con grandissima contentezza di tutte le parti. Quivi piú e piú volte giocando amorosamente a le braccia, con tutti quei dolci scherzi che sogliono costumarsi, e toccando di continovo a le dame a restar di sotto, si diedero buona pezza grandissimo piacere. Cercavano esse dame di ristorar il perduto tempo, a cui i giovani fieramente di quelle accesi non mancavano, essendo di duro e forte nerbo. Perseverarono in questi loro felici amori alcuni mesi, ed ogni volta che commodamente potevano si ritrovavano insieme. E cosí andò la bisogna che mai nessuno se n’avvide, né sospetto alcuno in corte nacque. Ritornavano talora i mariti loro a casa e vi dimoravano otto o dieci giorni; poi se n’andavano in campo. In quel tempo si guardavano gli innamorati di far cenno o atto nessuno che potesse dar sospetto dei casi loro. Ora la Fortuna invidiosa del bene altrui, e che non suol permettere che alcuno lungo tempo in felicitá viva, ma sempre s’ingegna ne l’altrui felicitá mischiare disgrazie ed infortunii, e un dolce stato per lo piú de le volte con suoi veleni amareggia ed avvelena, fece che del godimento dei quattro innamorati si cominciò non so come in corte a bucinarsi e nascerne alcune parole. Onde d’uno in un altro andando il romore, ed aprendo molti cortegiani gli occhi che prima non vi mettevano fantasia, diligentemente, parte per onor mossi de la casa reale e parte stimolati da maligna invidia, spiando le azioni e movimenti de le donne e dei cavalieri, s’accorsero troppo bene come il fatto stava. Il perché segretissimamente diedero avviso ai mariti de le dame, minutamente di quanto spiato e veduto avevano rendendogli consapevoli. Di cosí tristo e vituperoso annunzio i dui fratelli fuor di modo restarono dolenti e pieni di mal talento e fellone animo contra le mogli e i dui cavalieri, veggendosi esser passati senza barca il mare ed acquistato il vituperoso stato di Cornovaglia. E comunicato il tutto col re Filippo loro padre, ed insieme conchiuso ciò che far si devesse, posero gli agguati agli adulteri, di maniera che il primo giorno di maggio mille trecento tredici, ne la badia di Malbusson presso Pontoisa, gli amanti, amorosamente insieme prendendo piacere, furono dal prevosto de la magione del re tutti quattro a man salva presi, e insieme con loro l’usciero col cui mezzo i dui amanti le due dame si godevano. Il romoreggiar di questo fatto per la corte e per tutto fu grande e la meraviglia grandissima. La reina di Navarra e la cognata furono prigioniere, per comandamento del re, condotte subito a Castello Gagliardo d’Andelí, ove, lungo tempo de la prigionia e dal duro vivere e altri disagi che soffrivano, si morirono in miseria grandissima, e senza onore alcuno di sepoltura furono poveramente interrate. In quel medesimo tempo che l’adulterio de le due dame si scoperse, a ciò che parte nessuna de la casa reale non restasse senza biasimo, fu Giovanna di Borgogna, moglie di Filippo Lungo, anco ella accusata d’adulterio e nel castello Dourdan imprigionata; ma essendo innocente, fu giuridicamente dal parlamento di Parigi assoluta e giudicata donna onesta e d’onore. I dui altri adulteri, Gualtieri e Filippo di Dannoi, formato il processo loro dai signori de la corte del parlamento parigino, avendo senza tormento alcuno l’adulterio confessato, furono per finale sentenzia condannati che publicamente fussero loro i membri genitali tagliati via e le persone loro da capo a piedi scorticate, di modo che tutta la pelle se gli levasse: il che dal manigoldo fu subito publicamente, con grandissimo dolore dei dui giovini, essequito. Furono poi vituperosamente condutti ad una forca e quivi per la gola impiccati. L’usciero medesimamente che agli adulteri teneva mano fu anco egli impiccato. Morta che fu in carcere Margarita, Luigi Utino prese ne le seconde nozze Clemenza, figliuola di Carlo Martello, primogenito di Carlo secondo re di Sicilia. Medesimamente Carlo, morendo Bianca, sposò per sua moglie Maria, figliuola di Giovanni di Lucemborgo, figliuolo d’Enrico imperadore.


Il Bandello a l’illustre signor Enea Pio da Carpi


Sí come tutto il dí veggiamo per prova avvenire che tutti quei fanciulli, che sono dai parenti loro mandati a le scole per imparare grammatica, non riescono tutti buoni grammatici, anzi il piú di loro restano ignoranti e a pena sanno talora legger una lettera che loro sia da alcuno amico scritta, e meno sanno riscrivere e sottoscrivere il nome proprio e bisogna che ad altrui facciano scrivere; cosí anco avviene di quei giovini che a Pavia, a Padova, a Bologna od altrove vanno per farsi filosofi o de la ragione civile o pontificia o di medicina dottori. Ché se tutti, che negli Studii generali se ne stanno e vanno ad udire ogni giorno due e tre lezioni, facessero profitto e divenissero dottori, diverrebbero, come si dice, piú gli sparvieri che le quaglie, cioè che piú sarebbero i dottori che i clientoli. Ma pochi son coloro che riescono dotti, come anco negli altri essercizii avviene, dove se in una cittá o castello si trovano dui o tre eccellenti in un mestiero è bene assai. Ora tra gli altri mestieri, a me pare che ne l’arte de la cortegiania infiniti si mettano, ma che molti pochi come ella deve esser essercitata l’apparino, perciò che ne le corti di varii prencipi, cosí in Italia come fuori, si trovano uomini pur assai che professione fanno d’esser cortegiani, e chi loro con diligenza essaminasse, si vederebbe che ancora non sanno ciò che importi questo nome di «cortegiano». Bene si spera che il nostro signor conte Baldessar Castiglione fará conoscer l’errore di questi magri cortegiani come faccia imprimer l’opera sua del Cortegiano. E di questo ragionandosi, non è molto, qui in Milano in casa de la gentilissima signora vostra sorella, la signora Margarita Pia e Sanseverina, vi si ritrovò il costumatissimo e splendidissimo cavaliero messer Angelo da Santo Angelo, che a caso era da Crema venuto per certi suoi affari. Era la signora Margarita a stretto ragionamento con l’eccellente iureconsulto messer Benedetto Tonso ed altri avvocati consultando sovra i meriti d’una lite, quando d’alcuni inetti cortegiani si favellava; onde messer Angelo a questo proposito narrò una ridicola e piacevole novella a molti gentiluomini che presenti erano, che fece insiememente e ridere e meravigliare chi l’udí. Il perché avendovi io sempre trovato gentile e pratico cortegiano, avendo voi i meglior anni vostri consumati in corte, m’è paruto, avendola scritta, di farvene un dono, non perché ella sia degna cosa per voi, ma perché leggendola veggiate quanta sia talora la melensaggine e trascuratezza di molti che si pensano d’esser Salomoni. State sano.