Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LV
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Novella LV
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Seleuco re de l’Asia dona la moglie sua al figliuolo che n’era innamorato
e fu scoperto dal fisico gentile con ingegnosa invenzione.
Poi che io ogni cosa m’averei creduto oggi di fare se non se questa di dire in cosí onorata compagnia alcuna novella, per ubidire a chi mi comanda, io farò come fa il gentiluomo a cui la sera a l’improviso viene qualche caro amico a casa per cenar seco, che, sapendo che al macello carne non si truova né su la piazza è salvaticume da vendere, con i polli di casa e con la carne salata si sforza il suo amico onorare. Io non so ora ove provedermi di novella se non ricorro a l’istorie che tutto ’l dí si tengono in mano, onde una ne vo’ dire, de la quale il nostro coltissimo Petrarca nel Trionfo d’Amore fa menzione. Il perché vi degnarete, perdonandomi, avermi per iscusato se cosa nuova non vi dico, perciò che di ciò che aver mi truovo vi metto innanzi. Ma per non tenervi a bada, dico che Seleuco, re di Babilonia, uomo che in molte battaglie s’era gloriosamente affaticato, fu tra i successori d’Alessandro Magno fortunatissimo. Egli ebbe un figliuolo d’una sua moglie, il quale in memoria del padre chiamò Antioco. Morí la moglie e crebbe il figliuolo, dando di sé grandissima speranza di riuscir giovine valoroso e degno di tanto padre. Ed essendo giá d’etá d’anni ventiquattro, avvenne che suo padre Seleuco s’innamorò d’una bellissima giovane d’alto legnaggio discesa, il cui nome fu Stratonica, e quella per moglie prese e fece reina, e da lei ebbe un figliuolo. Antioco veggendo ogni dí la matrigna, che era, oltra la somma bellezza, leggiadra e gentilissima, sí fieramente, senza alcuno sembiante mostrare, di lei s’accese ed oltra ogni credenza s’innamorò, che altro amante di donna tanto non s’infiammò giá mai. E parendogli che egli contra il natural devere facesse amando lascivamente la moglie di suo padre, e per questo non osando a compagno né amico scoprirsi, ché di se stesso aveva vergogna non che d’altrui, quanto egli piú tacitamente seco di lei pensava tanto piú accendendosi, di giorno in giorno s’andava consumando. Ma perché egli s’avvide d’esser ito tanto innanzi che piú tornar a dietro non poteva, deliberò con lunghi e faticosi viaggi vedere se egli qualche tregua a le sue pene trovasse. Aveva il padre molti reami e provincie infinite sotto il suo imperio; il perché, sue scuse trovando, ebbe dal padre licenza d’andar qualche mese per quelle a diporto. Ma egli non fu fuor di casa che si ritrovò mal contento, perciò che essendo egli privo di veder la sua bella Stratonica, gli pareva d’esser privo de la vita. Nondimeno volendo, se era possibile, vincer l’indurato affetto, stette alcuni dí fuori, nei quali chiusamente ardendo e non avendo con cui sfogarsi, menava una pessima e sconsolata vita. A la fine, vinto da le sue passioni, al padre se ne ritornò. Vedeva egli ogni dí colei che era quanta gioia e quanto diletto egli avesse. Conoscendo poi quanto il padre la moglie amasse e tenesse cara, diceva molte fiate tra sé: – Sono io Antioco figliuolo di Seleuco? sono io quello cui il padre mio tanto ama, cosí magnificamente onora e sovra ogni reame apprezza e stima? Oimè, se io son quello, ov’è l’amore e la riverenza che io gli porto? È questo il debito del figliuolo verso il padre suo? Misero me! ove ho io l’animo, la speranza e l’amor mio collocati? Può egli essere che tanto ceco e fuor del vero senso io sia, che io non conosca deversi da me la bella matrigna in luogo di vera madre tenere? Se cosí è, ché pur il conosco, che adunque amo io? che bramo? che cerco? che spero? Ove mi lascio cosí scioccamente a l’ingannevole e ceco amore e a la lusinghevole speranza trasportare? Non veggio io che questi miei desiderii, questi mal regolati appetiti e queste mie sfrenate voglie hanno del disonesto? Io pur lo veggio e so che quello che vo cercando non è convenevole, anzi è disonestissimo. E che biasimo ne riceverei io, se questo mio sí poco ragionevole amore si publicasse? Non deverei io piú tosto elegger la morte che pensar giá mai di privar il padre mio di quella moglie che egli cotanto ama? Lascerò adunque lo sconvenevole amore, e, ad altro rivolgendo l’animo, farò ufficio di buono ed amorevole figliuolo verso il padre. – Cosí fra sé ragionando, deliberava totalmente lasciar questa impresa. Ma egli a pena non aveva fatto questo pensiero, che subito a la fantasia se gli appresentava la beltá de la donna, e in modo si sentiva infiammare che, di quanto determinato avesse, pentito, domandava mille perdoni ad Amore d’aver pensato d’abbandonar cosí generosa impresa. E contrarii pensieri ai primi facendo, seco stesso diceva: – Dunque io, perché costei è di mio padre moglie, non debbo amarla? perché ella m’è matrigna, io non la vo’ seguire? Deh, quanto è sciocco il mio pensiero! Non sono le leggi che Amore ai suoi seguaci prescrive, come l’altre umane e scritte leggi: le leggi d’Amore e le umane e le piú che umane rompono. Quando Amore lo comanda, il fratello ama la sorella, la figliuola il padre, e l’un fratello la moglie de l’altro ed assai sovente la matrigna il figliastro. E se ad altri lece, a me perché non lece? Se a mio padre, che è di me assai piú attempato, non è stato ne la sua vecchiaia disdicevole innamorarsi di costei, io, che giovine sono e tutto sottoposto a le fiamme de l’amore, per qual cagione debbo, amandola, esser biasimato? E se altro in me non è biasimevole se non che io amo una che per sorte è di mio padre moglie, accusisi la Fortuna, che a mio padre piú tosto che ad un altro l’ha data, perciò che io l’amo e l’amerei di chiunque ella stata fosse consorte. Ché, a dir il vero, la sua bellezza è tale, i suoi modi son sí fatti e i costumi sí leggiadri, che da tutto il mondo ella merita esser riverita, onorata ed adorata. Conviene adunque che io la segua e che per servirla lasci ogni altra cosa. – Cosí il misero amante, d’uno in altro pensiero travarcando e di se stesso beffe facendo e non durando lungamente in un pensiero, mille mutazioni l’ora faceva. A la fine, dopo infinite dispute tra sé fatte, dato luogo a la ragione, giudicò di non potersi da lui cosa piú disconvenevole fare quanto era d’amar costei. E non potendo lasciar d’amare, e piú tosto morire deliberando che cosí scelerato amor seguitare o ad altrui discoprire, a poco a poco come neve al sole si struggeva; onde a tal venne che, perdutone il sonno e il cibo, cascò in tanta debolezza che fu costretto a mettersi a letto, di maniera che per soverchio di noia egli infermò gravissimamente. Il che veggendo, il padre, che teneramente l’amava, n’ebbe cordoglio infinito. E fatto venir Erasistrato, che era medico eccellentissimo ed appo tutti in grandissimo prezzo, Seleuco quello affettuosissimamente pregò che del figliuolo prendesse quella diligentissima cura che a la gravezza del male conveniva. Venuto Erasistrato, e tutte le parti del corpo del giovine ritrovate sane, e segno alcuno ne l’orina né accidente ritrovando per cui si potesse giudicare il corpo esser infermo, fece, dopo molti discorsi, giudicio, quella infermitá esser morbo e passione de l’animo, a tale che egli di leggero ne morrebbe. Il che fece intender a Seleuco, il quale amando il figliuolo, sí perché era figliuolo – che tuttavia sono amabili e portano seco vincolo grandissimo d’amore – e sí ancora perciò che per vertú e meriti assai valeva, portava di questa infermitá sí gran dolore e tanta malinconia n’aveva che maggiore non si sarebbe potuto dire. Era il giovine di natura sua costumato e piacevole, era valoroso e prode de la persona quanto altro di sua etá e bello de la persona; il che a tutti lo rendeva amabile. Il padre ogni momento d’ora gli era in camera, e la reina medesimamente spesso lo visitava e di sua mano, quando egli si cibava, lo serviva; il che non so io, che medico non sono, se al giovine recasse giovamento o che forse piú di male facesse che bene. Crederò ben io che egli molto volentieri la vedesse e che mai non averebbe voluto che ella partita dal letto si fosse, come colui che ogni suo bene, ogni speranza, ogni pace ed ogni diletto in quella metteva. Ma poi veggendosi sí sovente innanzi agli occhi quella bellezza che tanto disiava godere, sentendo parlar colei per cui moriva, e ricevendo servigio e cibandosi di mano di quella che piú che le pupille degli occhi suoi amava e a cui mai non era stato oso di porger una preghiera; che la sua doglia ogni altra doglia avanzasse e che di continovo ne languisse, mi pare che io possa ragionevolmente credere. E chi dubita che egli, sentendosi da quelle delicatissime mani di lei talvolta toccare, e quella appo lui sedere e tal fiata per pietá di lui sospirare, e con dolcissima favella dirli che egli si confortasse e che, se cosa alcuna voleva, a lei la dicesse, ché ella il tutto per amor di lui farebbe; chi dubita, dico io, che egli in queste cose da mille pensieri combattuto non fosse, ed ora sperasse ed ora si disperasse, sempre poi conchiudendo prima morire che le ardenti sue fiamme manifestare? E se a tutti i giovini, quantunque di mediocre bassa condizione siano, duole ne la loro giovinezza lasciar la vita, che debbiamo d’Antioco pensare, il quale, giovine e di tanto e di cosí ricco e potente re figliuolo, che aspettava, se campato fosse, esser dopo la morte del padre del tutto erede, eleggeva volontariamente morire per minor male? Io porto ferma openione che la sua doglia fosse infinita. Combattuto adunque Antioco da pietá, da amore, da speranza, da disio, da paterna riverenza e da mille altre cose, come nave in alto mare da contrarii venti conquassata, a poco a poco mancava. Erasistrato, che il corpo sano e libero ma la mente gravemente inferma e l’animo da le passioni in tutto vinto vedeva, poi che assai tra sé ebbe sovra questo strano caso pensato, conchiuse a la fine che il giovine per amore e per soverchio disio ardeva e che del male di quello altra cagione non ci era. Pensava egli che assai sovente dagli uomini prudenti e saggi l’ira, l’odio, lo sdegno, la malinconia e gli altri pensieri facilmente si ponno e simulare e dissimulare, ma che l’amore, se celato si tiene, sempre piú ascoso nòce che fatto palese. E ben che da Antioco mai non potesse che egli amasse intendere, nondimeno, essendogli entrato in capo questo pensiero, deliberò per chiarirsi meglio di stargli di continovo appresso e con sommissima diligenza osservare tutte le azioni sue, e sovra il tutto avvertire a le mutazioni che il polso facesse e per qual accidente si cangiasse. Fatta questa deliberazione, s’assise propinquo al letto e prese il braccio d’Antioco e le dita pose ove il polso ordinariamente suol farsi sentire. Avvenne in quel punto che la reina Stratonica entrò in camera, la quale come l’infermo amante vide verso sé venire, subito il polso, che depresso e languido giaceva, se gli destò e cominciò per la mutazione del sangue a levarsi e prender vigore, sentendo con piú forza risorger le debolissime fiamme. Sentí Erasistrato questo rinforzamento del polso, e per veder quanto durava, al venir della reina non si mosse, ma sempre tenne le dita sovra il battimento del polso. Mentre che la reina in camera stette, il batter fu sempre veloce e gagliardo; ma come ella partí, cessò la frequenzia e la gagliardezza del moto, e a la solita debolezza il polso se ne ritornò. Né stette troppo che la reina rivenne in camera, la quale non fu sí tosto da Antioco veduta, che il polso, ripreso vigore, cominciò a saltellare, e continovamente saltellando si stette assai vigoroso. Partí la reina ed il vigore insiememente del polso con lei se n’andò. Veggendo tal mutazione il fisico gentile e che solamente a la presenza de la reina avveniva, si pensò aver trovata la cagione de l’infermitá d’Antioco; ma volle aspettare il dí seguente per averne maggior certezza. Venne l’altro giorno, e il buono Erasistrato appresso al giovane si pose e il braccio in mano gli prese. Entrarono molti in camera, e mai il polso non s’alzò. Il re venne a veder il figliuolo, né per questo punto si levò. Ed ecco venir la reina, e subito il polso saltò su e si destò e cominciò a fare un movimento gagliardo, quasi volesse dire: «Ecco colei che m’arde, ecco la vita e la morte mia». Tenne alora Erasistrato per certo che Antioco fosse de la bella matrigna focosamente acceso, ma che per vergogna non ardisse le sue ardentissime fiamme dicelare e farle altrui manifeste. Fermato che egli fu in questa openione, prima che cosa alcuna ne volesse dire, pensò che via deveva tenere in farlo conoscere al re Seleuco; e poi che tra sé ebbe diverse cose imaginate, tenne questo modo. Egli sapeva molto bene che Seleuco amava senza fine la moglie, ed anco che quanto la vita propria Antioco gli era carissimo; onde cosí gli disse: – Seleuco, tuo figliuolo è grandissimamente infermo e, che peggio mi pare, io giudico l’infermitá sua esser incurabile. – A questa voce cominciò il dolente padre, piangendo, a far un pietoso lamento ed amaramente de la fortuna querelarsi. Soggiunse alora il medico: – Io vo’, signor mio, che tu intenda la cagione del suo male. Hai adunque a sapere che il morbo che il tuo figliuolo ti ruba è amore, e amore di tal donna, la quale non potendo avere, senza dubio egli morrá. – Oimè – tuttavia forte piangendo disse il re; – e che donna è questa che io, che re d’Asia sono, non possa con preghiere, danari, doni, e con qual arte si voglia, ai piaceri di mio figliuolo render pieghevole? dimmi pure il nome de la donna, perciò che per la salute di mio figliuolo io sono per metterci ogni mio avere e tutto il reame ancora, quando altrimente far non si possa. Ché se egli more, che voglio io fare del regno? – A questo Erasistrato rispondendo disse: – Vedi, re, il tuo Antioco è fieramente de la mia donna innamorato; ma parendogli questo amore esser disconvenevole, non è mai stato oso manifestarlo e per vergogna piú tosto elegge morire che scoprirsi. Ma io per evidentissimi segni avvisto me ne sono. – Come Seleuco udí queste parole: – Adunque, – disse, – tu che sei quell’uomo cui pochi di bontade parangonar si ponno, e meco sei d’amore e benevoglienza congiuntissimo, e porti nome d’esser di prudenza albergo, il mio figliuolo, giovine che ora, sul fiore de la giovinezza, è de la vita dignissimo e a cui di tutta l’Asia l’imperio meritevolmente è riserbato, non salverai? Tu, Erasistrato, il figliuolo di Seleuco amico tuo e tuo re, che amando e tacendo a morte corre, e il quale vedi che di tanta modestia ed onestá è che in questo ultimo e dubioso passo piú tosto di morire elegge che in parte alcuna, parlando, offenderti, non aiuterai? Questa sua taciturnitá, questa discrezione, questa sua riverenza che egli ti mostra deve piegarti ad avergli compassione. Pensa, Erasistrato mio, che se egli ardentemente ama, che ad amare è sforzato, perciò che indubitatamente se egli non potesse amare, farebbe il tutto per non amare, e farebbe piú che volentieri. Ma chi pone legge ad Amore? Amore, come sai, non solamente gli uomini sforza, ma ai dèi immortali comanda, e quando ei vuole, poco contra lui vale ingegno umano. Il perché, quanto il mio Antioco meriti pietate, chi nol sa? ché essendo sforzato, egli non può altrimenti fare. Ma il tacere è ben evidentissimo segno di chiara a rara vertú. Disponi adunque l’animo tuo in aita di mio figliuolo, perciò che io t’avviso che se la vita d’Antioco non amerai, Seleuco sará insiememente da te odiato. Non può esser egli offeso che io parimente offeso non sia. – Veggendo il sagacissimo medico che l’avviso suo andava com’egli pensato aveva, e che Seleuco per salute del figliuolo cosí caldamente lo pregava, per meglio ancora spiar ’animo di quello e la voluntá, in questo modo gli parlò: – E’ si suol dire, signor mio, che l’uomo quando è sano sa dare a l’infermo ottimo conseglio. Tu non fai se non dire, e vuoi che la mia cara e diletta moglie dia altrui, e di quella mi privi la quale io ferventissimamente amo; e mancando di lei, mancarei de la propria vita: se tu la moglie mi levi, mi levi a vita. Ora io non so, signor mio, se Antioco tuo figliuolo fosse de la tua Stratonica innamorato, se tu di lei fossi a lui cosí liberale come pare che tu voglia che io de la mia gli sia. – Volessero gli dèi immortali, – rispose subito Seleuco, – che egli de la mia carissima Stratonica fosse acceso, ché io ti giuro per la riverenza che a la sempre onorata memoria di mio padre Antioco e di mio avo Seleuco porto, e per tutti i nostri sacri dèi, che liberamente essa mia, quantunque a me carissima, moglie subito al mio figliuolo darei, di maniera che tutto il mondo conoscerebbe qual debbia esser l’ufficio di buono ed amorevole padre verso tal figliuolo, qual è il mio da me sommamente amato Antioco, il quale, se il giudicio mio non falla, è d’ogni aita dignissimo. Oimè, questa tanta sua bontá che egli dimostra in celar cosí gagliarda passione come è uno intensissimo affetto d’amore, non è ella degna che ciascuno gli porga soccorso? non merita ella che tutto il mondo abbia di lui pietá? Certamente egli sarebbe bene piú che crudel nemico, anzi piú che inumano e fiero, che a tanta moderazione come il mio caro figliuolo usa non avesse compassione. – Molte altre parole disse, chiaramente manifestanti che egli per la salute del figliuolo non solamente la moglie ma la vita volentieri averebbe data; onde non parendo piú tempo al medico di tener celata la cosa, tratto da parte il re, in questo modo gli disse: – La sanitá di tuo figliuolo, signor mio, non è in mia mano, ma ne la tua e di Stratonica tua moglie dimora, la quale, sí come io manifestamente per certi segni ho conosciuto, egli ardentissimamente ama. Tu sai ormai ciò che a fare ti resta, se la sua vita t’è cara. – E narrato il modo che tenuto aveva in avvedersi di tal amore, lo lasciò tutto pieno d’allegrezza. Restava solamente un dubio al re, di persuadere al figliuolo che Stratonica per moglie prendesse e a lei che quello per marito accettasse; ma assai di leggero a l’uno e a l’altro il tutto persuase. E forse che Stratonica non faceva buon cambio prendendo un giovine e lasciando un vecchio? Ora, poi che Seleuco ebbe la moglie col figliuolo accordata, fatto congregar l’essercito che aveva grandissimo, cosí disse ai soldati suoi: – Commilitoni miei, che meco dopo la morte del magno Alessandro in mille imprese gloriosamente stati sète, giusta cosa mi pare che voi di quanto io intendo fare siate partecipi. Voi sapete che io ho sotto l’imperio mio settanta due provincie, e che, essendo io vecchio, male a tanta cura posso attendere; il perché, cari commilitoni miei, e voi di fatica e me di fastidio intendo liberare. Per me solamente voglio il reame dal mare a l’Eufrate; di tutto il resto la signoria dono a mio figliuolo Antioco, al quale per moglie ho data la mia Stratonica. A voi deve piacere ciò che a me n’è piacciuto. – E narrato l’amore e l’infermitá del figliuolo e la discreta aita del fisico gentile, a la presenza di tutto l’essercito fece sposar Stratonica ad Antioco. Incoronò poi l’uno e l’altra per regi de l’Asia, e con pompa grandissima gli fece far le tanto da Antioco desiate nozze. L’essercito, udendo e vedendo queste cose, sommamente la pietá del padre verso il figliuolo commendò. Antioco poi con la diletta sposa in gioia e in pace continovamente stando, in lunga e grandissima felicitá seco visse. Né fu questi quello che ebbe per le cose d’Egitto guerra con romani, come pare che il nostro divino poeta nel Trionfo d’Amore accenni. Questi solamente ebbe guerra con i gallati che d’Europa erano in Asia passati, i quali cacciò e vinse. Di lui e di Stratonica nacque un altro Antioco; di questo nacque Seleuco, il quale fu padre d’Antioco chiamato «magno». E questi fu che ebbe guerra grandissima con romani, non il suo bisavolo Antioco che la matrigna sposò; il che assai chiaramente vederá chiunque con diligenza le antiche istorie rivolgerá. E ciò che il divino poeta disse si deve intendere come noi siamo detti figliuoli d’Adamo. Cosí questo Antioco fu figliuolo per dritta successione del nostro Antioco, del quale la novella v’ho narrata. Facendo adunque fine, dico che in dare Seleuco la moglie al figliuolo fece un atto mirabilissimo e degno nel vero d’eterna memoria, e che merita di questo esser molto piú lodato che di quante mai vittorie egli avesse dei nemici, ché non è vittoria al mondo maggiore che vincer se stesso e le sue passioni. Né si deve dubitare che Seleuco non vincesse gli appetiti suoi e se stesso, privandosi de la carissima moglie.
Il Bandello al magnifico ed eccellente
dottor di leggi messer Benedetto Tonso
Venni, questo verno prossimamente passato, per commessione di madama Isabella da Este marchesana di Mantova, a Lodi, a parlare a l’illustrissimo ed eccellentissimo signor Francesco Sforza, duca di Milano, a fine che col mezzo d’esso duca il marchese Federigo di Mantova liberasse di prigione messer Leonello Marchese, che a requisizione de la signora Isabella Boschetta ne la ròcca d’Ostiglia aveva imprigionato. Il duca, conoscendo quanto di grazia e d’autoritá voi, per le molte vostre rare doti e singolari, aveste appo il marchese, volle che voi veniste a Mantova e che con l’ingegno e destrezza vostra in nome suo diligentemente procuraste essa liberazione. Ora, venendo noi di compagnia a Mantova, passammo per Gazuolo, ove lo splendidissimo signor Pirro Gonzaga cortesissimamente ci raccolse e ci tenne un giorno, facendone tutte quelle amorevoli dimostrazioni che di suo costume suole agli amici suoi fare. Cenandosi adunque in ròcca ove eravamo alloggiati, avvenne non so come che si parlò de la reina Giovanna seconda di Napoli, sorella di Ladislao re, la quale a’ suoi dí, poco curando la fama e l’onor feminile, fece assai piú nozze, e piú uomini seco a giacere prese, che non provò Alathtiel figliuola di Meminedab, soldano di Babilonia, secondo che ne le sue piacevolissime novelle descrive il Boccaccio. E dicendosi che era pur gran cosa che alcune donne, massimamente di stato sublime e reale, avessero tenuto cosí poco conto de l’onestá loro, si raccontarono anco gli adulterii de la prima Giovanna, pure reina di Napoli, e di Buona di Savoia duchessa di Milano, e di molte altre grandi prencipesse. Era quivi messer Gifredo da San Digiero franzese, uomo d’arme, il quale lungo tempo era stato in Italia, venuto al tempo di Carlo ottavo re di Francia quando cacciò del regno di Napoli gli Aragonesi. Egli poi che buona pezza ebbe ascoltato ciò che si diceva senza mai far motto alcuno, ultimamente cominciando a parlare narrò una novella a proposito di ciò che si ragionava; la quale essendo a tutti piaciuta, prima che da Gazuolo partissimo, io cosí di grosso l’annotai. Avendola poi scritta, quella al nome vostro ho dedicata. Vi piacerá adunque, come tutte le cose mie solete, di leggerla ed accettarla, come mi rendo certo la vostra mercé che farete, a ciò che resti, appo quelli che dopo noi verranno, testimonio de l’amicizia nostra, e restino senza ammirazione quando talora intendono alcuna donna, oltra gli abbracciamenti del marito, averne voluto provar degli altri. State sano.