Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XXII

Quarta parte
Novella XXII

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Subita astuzia di uno scolare in nascondersi, essendo


con l’innamorata e volendo il marito intrar in camera.


Parigi, come tutti avete potuto vedere, è molto grande e populosa cittá, ne la quale da tutti si afferma trovarvisi per l’ordinario piú di trenta millia scolari, mettendovi i fanciulli piccioli che imparano la grammatica con gli artisti, e quelli che dánno opera a la teologia. Sapete bene come gli studenti sogliono menar le mani con le donne, acciò che quando si hanno per lungo spazio lambicato il cervello sovvra i libri, possano poi con le donne destillare li mali umori. Non è dunque molto che uno giovane italiano venne a studio a Parigi, e una camera prese a pigione in casa di uno stampatore, il quale aveva per moglie una franciosina di ventitré anni, che era molto bella e gentile, fresca e lieta oltra modo, la quale sempre averia voluto scherzare e dare il giambo altrui e anco pigliarlo. Molte fiate il marito di lei disinava la mattina a la stampa, di modo che lo scolare solo disinava con la donna; onde fecero insieme una gran dimestichezza, la quale a poco a poco cominciò convertirsi in amore. Lo scolare, conoscendosi essere mezzo innamorato de la donna e veggiendola assai bella, deliberò tentare la fortuna e vedere se il suo disegno li reusciva. E perché aveva gran commoditá di parlar con lei senza interpreti, seppe cosí ben dire il caso suo e fare l’appassionato, che la donna, che non era di pietra né di bronzo, cominciò a dargli orecchie e parlare con quello piú che volontieri, parendole il giovane piacevole e discreto; nondimeno stava alquanto ritrosetta. A la fine, pure consigliatasi con la sua fante, che era quella che faceva il mangiare per loro, non ci essendo altre persone in casa, essendo adunque uno voler di tutti dui de venire a le strette e godere de l’amore l’uno de l’altro, non tardarono molto a dare compimento ai loro appetiti amorosi. Alloggiava l’innamorato scolare in una camera che era sovra quella ove lo stampatore con la moglie dormiva. Esso stampatore soleva ogni mattina a l’alba levarsi e andare a la stamparia e lasciar la moglie sola nel letto. Onde, acciò che la buona donna, restando sola, non avesse paura de la fantasma, lo scolare soleva andare a tenerle compagnia e bene coprirla, perché ella non si raffreddasse. Come il marito era uscito di casa, la donna, con la pertica che al capo del letto teneva, solea percuotere nel solaro due e tre percosse. Il che come lo scolare sentiva, si levava e, a basso disceso, andava a corcarsi con lei; e calcava molto bene la facenda de la donna, acciò che ella non avesse invidia al marito, che in quella, forse, ora calcava quella de la stampa. E cosí insieme si trastullavano buona pezza, perché il marito non solea venire a casa sino a ora di desinare. Avenne il giorno dedicato a santo Gioanni innanzi a la porta Latina, che è la festa degli stampatori parigini, che essendo levato il marito secondo il consueto e ito fore, che la donna diede il solito segno a lo scolare, il quale a basso discese e a lato a quella si mise e amorosamente con lei giocava a le braccia. Aveva quella mattina smenticatosi il marito la borsa sotto il capezzale del letto, ed essendo ito a la stampa ove erano gli altri compagni, volendo dar ordine di fare una grossa e grassa collazione insieme, accortosi il buono uomo che non aveva seco la borsa, disse a li compagni: – Oimè, io mi ho scordata la borsa in casa, onde egli mi convien gire per essa, e subito sarò di ritorno. – Ritornò adunque, e arrivato in casa, andò di lungo a la camera, e, trovatala chiusa perché lo scolare fermata l’aveva, cominciò picchiare a l’uscio. La donna, che in braccio avea il suo amante e stretto teneva, disse, mostrando essere mezza sonnacchiosa: – Chi è lá? olá! – Il marito rispose: – Apri, apri, ché io sono tuo marito. – La donna allora disse pian piano a lo scolare: – Oimè, vita mia, come faremo noi, che mio marito vuole intrare? – Non era luoco in camera ove lo scolare nascondere si potesse. E tardando ella ad aprire l’uscio, il marito tuttavia gridava che ella aprisse. Ella teneva pur detto che egli aveva la chiave e che poteva da se stesso aprire; e ben che dicesse cosí, sapeva perciò ella come la chiave era in camera. – Io non ho la chiave, – rispose il marito, e disse: – Apri tu, se vuoi e non me far piú tardare. – Lo scolare, da subito consiglio aiutato, disse a la donna: – Anima mia, mettimi dentro la arca che è qui dirimpetto. – E cosí dentro con li suoi panni vi intrò, e vi si distese, acconciando il coperchio acciò potesse respirare. Teneva pur replicato il marito che ella aprisse, ed ella diceva: – Aspettate uno poco che io prenda una camiscia di bucato, – e presa una camiscia di bucato, senza altrimenti vestirsela, con una mano se la pose dinanzi a la fontana di Merlino e poi aperse l’uscio. Era giá levato il sole e per le vitriate de la finestra allumava tutta la camera. Il perché il buon marito, che vedeva la sua moglie nuda, che era come una nieve bianca e le carni aveva morbidissime e di nativo ostro maestrevolmente colorite, si sentí movere la conscienza, e cominciò baciare la moglie e abbracciare per cacciar il diavolo in inferno, che si era fieramente destato. Ma la donna, che era stata assai bene pasciuta dal suo amante, da sé con le mani lo respigneva, dicendogli: – Oh bella cosa, che oggi, che è la vostra festa, voi non possiate contenervi! so bene che non devete ancora essere stato a messa. – Insomma tanto disse e fece che il buon castrone si partí. E come egli fu partito, lo scolare uscí da l’arca e fece a la donna, intrati in letto, ciò che il marito fare voleva. Commandò dapoi la donna a la fante che ogni volta che il marito usciva di casa, che ella chiavasse la porta de la casa. La sera, essendo il marito con la moglie e lo scolare a tavola a cena, esso marito narrò a lo scolare quanto con la moglie gli era la matina accaduto. Del che ridendo, il giovane disse: – Voi mi devevate chiamare, perché io con la sferza la averei bene gastigata e costretta a compiacervi. – Spesso poi di questo accidente risero tra loro dui e attesero lungo tempo con gran piacere a godere li loro amori.


Il Bandello al molto gentile e leale mercatante


genovese messere Antonio Sbarroia salute


Se io volessi rendervi le convenevoli grazie del vostro magnifico dono, che mandato mi avete, de le olive spagnuole confettate in succhio di limoni, e di tanta grossezza che io le maggiori non vidi giá mai, perché sono grosse a par d’uno ovo nato di una polla giovane, io potrei bene forse cominciare, ma non so come poi sapesse finire, ché in vero il dono era da fare a uno grandissimo personaggio e non a uno par mio. Tuttavia io ve ne rendo quelle grazie le maggiori che per me si ponno, confessando restarvene sempre ubligatissimo. Cosí nostro signore Iddio mi conceda che mi venga una buona occasione, ove il potere sia uguale al mio buono volere, perché io vi farò chiaramente conoscere quanto sia il desiderio mio di servirvi, acciò che veggiate che non avete a fare con uomo a veruno modo ingrato. Ora sovengavi che, essendo una onorata compagnia di alcuni gentiluomini ne l’amenissimo orto de l’eccellente dottore mescer Gieronimo Archinto, e ragionandosi di varie cose, fu uno che mise in campo le piacevolezze fatte dal Gonnella; e si disse che se egli fosse stato al tempo del Boccaccio, che non meno di Bruno e Buffalmacco egli parlato ne averia, essendo le cose piacevoli fatte dal Gonnella tanto argute e festevoli quanto quelle di que’ pittori. Al Gonnella non è mancato se non uno Boccaccio, ben che messer Bartolomeo de l’Uomo, ferrarese, abbia in prosa con stile molto elegante scritto la vita di esso Gonnella. Perciò non sia chi mi condanni se io in questo basso mio dire ho descritto alcuna de le sue piacevolezze. Sará forse chi mi dirá che io non sono mica il Boccaccio, la cui eloquenzia può ogni novella, ben che triviale e goffa, far parer dilettevole e bella. A questo io dico ingenuamente che non sono cosí trascurato che non conosca apertamente che io non sono da esser, non dirò agguagliato, ma né pure posto nel numero di quelli cui dal cielo è dato potere esprimere l’ombra del suo leggiadro stile. Ma mi conforta che la sorte di questi accidenti non potrá se non dilettare, ancora che fosse iscritta in lingua contadinesca bergamasca. Onde, avendo la signora Isabella da Casate, a la presenza de la magnanima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, narrata una beffa di esso Gonnella fatta a uno suo signore, quella ho descritta e al nome vostro dedicata, in testimonio de la nostra amicizia e di tanti piaceri da voi ricevuti. Ricevetela adunque con quello animo che io ve la mando, e state sano.