Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XXI
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Novella XXI
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La moglie di uno gentiluomo amorosamente si dá buon tempo con il compagno
del marito, e di modo abbarbaglia esso marito che non può credere mal di lei.
Seguendo la materia sopra la quale molte cose dette si sono, io sicuramente vi dico che non bandiamo la croce né sovvra gli uomini né sovvra le donne, perché tutti, chi vuole ben guardarla per minuto, siamo macchiati de una pece. Ci sono degli uomini saggi, e medesimamente ci sono de le donne. E se dirò che ci siano molti uomini senza intelletto e senza giudicio, chi dubiterá che io non dica il vero? Parimente che non ci siano assai donne di poca levatura, sarebbe manifesta pazzia a volerlo negare, veggiendosi ne l’uno e l’altro sesso ogni dí tanti errori quanti si commetteno. Ma che meriti piú biasimo in errando o l’uomo o la donna, se si vorrá dire la veritá, ci sono molte ragioni che ci sforzano a confessare noi uomini essere piú colpevoli e meritare vie maggior gastigo. E se a me non lo volete credere, dimandatene la signora Giulia e sua nipote madama Maddalena Sanseverina, consorte di monsegnore lo generale Ferrero. Ma per non entrare al presente in piú lunga disputazione, e dire di quelli mariti che si lasciano tirare per lo naso come pagolini da le mogliere, vi dico che nel mio paese de la Guascogna fu, e ancora credo che sia, in una populosa villa uno gentiluomo, giovane di cerca ventisette anni e de li beni de la fortuna riccamente agiato, il quale per la sua liberalitá era appo tutti in grandissimo credito e amato dal popolo. E oltra che era amato, era forte da li paesani temuto, perché era soldato molto prode e valente de la sua persona, e non bisognava che nessuno li cercasse di torcere uno capello, perché in qualche modo faceva la vendetta. Questi si innamorò de la moglie di uno suo compagno, gentiluomo del medesimo luoco, che mirabilemente de la caccia si dilettava, e tutto il giorno era a cavallo, ora con cani e ora con falconi. De la moglie di costui essendo il compagno fora di modo innamorato, e tutto il dí in casa dimesticamente da ogni ora pratticando, ebbe in diverse volte agio di manifestare a la donna il suo amore; e sí acconciamente le seppe isporre il fatto suo, che in poco tempo acquistò l’amor di lei, e cominciarono amorosamente a trastullarsi insieme con piacere grandissimo di tutte due le parti. Ma usando poco discretamente la dimestichezza loro, la madre del marito de la donna prese gran sospetto di loro, e cominciò minutamente a porvi l’occhio addosso, di modo che chiaramente si avide come i dui amanti amorosamente insieme si godevano, e a uno altro suo figliuolo uno giorno il fece vedere. Onde tutti dui di brigata ne avertirono il marito, dicendoli che sua moglie li faceva vergogna, e che l’adultero era il suo compagno. Ma il buono uomo, cui la scaltrita moglie avea dato manicare di molto zafferano, aveva fatto sí buono stomaco che non poteva credere male veruno de la moglie, né li poteva cadere ne l’animo che il suo compagno gli avesse mai fatto simile torto. Onde disse a la madre e al proprio fratello che si ingannavano, e che creduto giá mai non averebbe sí gran follia se con gli occhi proprii veduta l’avesse, e che conosceva bene sua moglie non essere donna di cotale sorte. Cosí gli amanti perseveravano a buono giuoco a godersi insieme. Avenne uno dí che il marito de la donna, volendo dopo desinare andare a la caccia, invitò il suo compagno se voleva andare seco. Egli, scusandosi, disse come avea certe facende a fare e che non vi poteva ire. Onde il cacciatore andò con suoi cani fora a cacciar le lepri, e il suo compagno si ridusse in camera de l’amante per cacciare il diavolo in inferno. E cacciando tuttavia gagliardamente, ecco la suocera de la donna con l’altro figliuolo, che erano stati in aguato e veduto avevano l’adultero intrare dentro la camera, cominciâro picchiare a l’uscio e chiamar la donna per nome. Il giovane si retirò dietro le cortine del letto e la donna aperse l’uscio. La suocera allora con voce orgogliosa: – Ove è, – disse, – mala femina, l’uomo che poco fa è qui dentro intrato? – Rispose la giovane che non lo sapeva. Ma la scaltrita vecchia, nol veggendo, per la camera andò e dietro le cortine appiattato il vide. Uscí fore l’innamorato giovane, e non essendo ardito il fratello del marito, e meno la madre, di sgridarlo, essa madre solamente li disse che tanto oltraggio non meritava l’amicizia che mostrava a suo figliuolo, quanto egli ne la moglie di quello li faceva, e che questi non erano scherzi da fare a uno amico. Il giovane, nulla stimando ciò che la vecchia li diceva, faceva vista di non intendere nulla; e cosí se ne uscí fora di casa, come se il fatto non li fosse toccato. Quando poi il marito da la caccia ritornò, a pena era dismontato da cavallo che la madre e il fratello li furono a la presenzia de la moglie, attorno, e li narrarono ciò che era seguíto. Ma la moglie, punto non isbigottita, audacemente negava il tutto, e con le mani su li fianchi, con buon viso li diceva che queste tali imputazioni le mettevano addosso perché le volevano male. Il marito, che fore di misura amava la moglie e del suo amico non poteva credere male, commandò a sua madre e a suo fratello che piú di quella materia non li facessero motto, dicendo che voleva che il suo amico potesse di giorno e di notte venire in casa e starsi in camera sua con la moglie, perché bene li conosceva e sapeva che di loro poteva liberamente fidarsene. Avendo poi preso alcune lepri, due ne mandò a l’amico suo giá detto a donare. Il mattino seguente, essendo insieme con il suo detto galante compagno, li disse quanto gli era stato detto, ma che certamente a loro niente credeva. Al che egli rispose che molto senza fine di core lo ringraziava, e che di lui si poteva fidare come di fratello suo proprio; ma poi che sua madre e il fratello aveano contra di lui a torto sí mala openione di lui, che egli piú per lo avenire non pratticheria in casa. Allora ser non so che mi dire entrò in còlera, e che voleva che come prima ci pratticasse. Non vi pare egli, signore mie e voi signori, che la moglie l’avesse bene acconcio e saputolo galantemente farselo suo? Ma poi che egli cosí voleva, non fu meraviglia se gli amanti si seppero dare buono tempo.
Il Bandello al nobile e cortesissimo
messer Gioanni Comino salute
Veramente il nostro molto festevole e gentilissimo Boccaccio deveva ottimamente sapere ciò che diceva quando egli ci lasciò, ne la novella di Rinieri lo scolare e di monna Elena, scritto che la cattivella non sapeva che cosa fosse mettere in aia con gli scolari. Ci sono alcune donne che piú del devere presumeno del fatto loro e poco conto tengono degli scolari, perché, veggendogli andar in abito quasi da prete, si pensano che siano uomini fatti a l’antica, e di loro si beffano, perché vorrebbero di que’ giovani bravi che portano sovra la berretta il cervello e la spada in traverso, che con la punta menaccia a la stella di Marte, e spesso bravano in credenza. Ma se elleno conoscessero ciò che vagliono gli scolari e quello che sanno fare, giovami di credere che non scherzarebbero con esso loro. Sono per l’ordinario gli scolari buoni compagni, aveduti, scaltriti, e sanno vie piú di quello che la brigata non pensa, e hanno piú malizie sotto la coda che non ha fiori primavera. Ma chi con loro amichevolemente prattica li trova sempre cortesi, umani e gentilissimi. E per dire il vero, in una cosa non bisogna fidarsi di loro, che è cerca la prattica de le donne, onde l’appiccherebbero a chi si sia, pur che le possano godere. E in quelle case ove dimorano, se donne ci sono, guardale quanto tu vuoi, ché se tu avessi piú occhi che Argo, te la accoccheranno. Sono poi liberali, dico in pagare quelli che a lor fanno alcuna ingiuria, perché li pagano a buona derrata, dando cento per uno, come il buono Rinieri fece a monna Elena. Di queste cose me ne parlò assai lungamente uno nobilissimo giovane mio compagno, scolare in Pavia. Ma io porto acqua al mare a dire queste cose a voi, che meglio di me le sapete, e giá lungo tempo in Parigi in quella grande universitá sète stato scolare. Però, avendo questi giorni in Parigi scritto una novella, che in una onorata compagnia, ove io mi ritrovai, narrò il gentilissimo scultore di gemme Matteo dal Nansaro, cosí caro e dimestico del cristianissimo di questo nome re Francesco primo, quando madama Fregosa era in Parigi, e pensando cui donare la devesse, voi mi occorreste; onde, al nome vostro avendola dedicata, resterá testimonio al mondo de la amicizia nostra. Vi pregherei molto volentieri che fussi contento mostrar questa novella al nostro da me amato e riverito filosofo eccellentissimo, il magnifico messer Francesco Vicomercato; ma non ardisco quello rivocare da le altissime e profonde speculazioni filosofiche a queste basse e triviali lezioni. Tuttavia giova molto spesso mescolare tra le cose gravi, per allegrare l’animo, alcuna cosa piacevole e bassa. State sano.