Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella X

Quarta parte
Novella X

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Francesco da Carrara, signore di Padoa, si innamora di una sua cittadina


e la gode. La moglie di Francesco se ne avede e il dice al marito


de la innamorata del signore, e, con lui accordata, amorosamente si godeno.


Come giá ho detto, non è cosa nova che due innamorati godano le moglie l’uno de l’altro, anzi pare che una certa ragione il voglia; ché, come una de le assise de li duchi del grasso Milano, quella, dico, del buratto, dimostra, «avvenga tale a te, quale a me». Però si suole dire: «Chi ne fa, ne aspetti». Vi dico adunque, signora sorella e voi signori, che essendo signore di Padoa il signor Francesco da Carrara, che fu grande amico del Petrarca, che egli aveva una bellissima e nobilissima moglie, la quale oltra ogni credenza amava il suo signor consorte, e altro non pensava giorno e notte che di ubedirlo e fare tutto ciò che pensava devergli essere grato. Se ella stava una ora che nol vedesse, parea che si sentisse sterpare il core e miseramente languire. Il signor Francesco amava anco egli la bella moglie, ma non di tanto fervente amore di quanto era da lei amato, perché non vi era parangone tra loro. Viveva allora in Padova uno de li nobili e ricchi gentiluomini che ci fosse, chiamato Vitaliano, il quale aveva una moglie giovane, fore di misura bella, gentile e molto vertuosa, di cui la fama per tutta la Marca trivigiana e per Lombardia volava, che ella senza parangone di beltá, di leggiadria, di costumi e aggraziate maniere e di vertú a quello tempo unica viveva. E perché Vitaliano altresí era il piú bello giovane che in Padova fosse, e di lettere molto si dilettava, e di ogni cara e bella vertú che a gentiluomo appertenesse era adornato, e splendidamente e con gran liberalitá viveva, tutta quella cittá l’amava e onorava, di modo che si diceva publicamente da grandi e piccioli non essere in que’ paesi la piú compíta e bella coppia di loro lui. Sentendo il signor Francesco tutto il dí tanto lodare Vitaliano e la moglie, uno giorno, cavalcando con suoi cortegiani e altri gentiluomini, come si costuma, per la cittá, e passando dinanzi al palazzo di Vitaliano, che era uno de li belli di Padoa, quivi giú da cavallo con la compagnia dismontò e intrò dentro; e sentendo che nel giardino alcuni belli mottetti si cantavano, si imaginò Vitaliano colá essere con la moglie, avendo udito dire quanto tutti dui del cantare e sonare di varii stromenti si prendevano piacere. Erano tutti quelli nel giardino a l’ombra di alcuni allori, cosí intenti a la musica che il signore, con la compagnia chetamente andando, quasi a l’improviso li sovvragiunse. Cantavano, secondo che vi ho di giá detto, alcuni belli mottetti a libro Vitaliano, la moglie, che Dianora aveva nome, e alquanti altri cantori, e facevano uno soavissimo concento, cosí maestrevolemente le sonore voci a le parole accommodavano. Ma come si accorsero che il signore Francesco quivi era, tutti, lasciato il dolce canto, si levarono e riverentemente l’accolsero, massimamente il cortese e gentile Vitaliano. Volle il signore e disse loro che cantando tornassero tutti a li loro luoghi e seguitassero quella dolce armonia; e appresso loro per iscontro a la bella Dianora, per meglio vagheggiarla, si assise. Cosí con amoroso e ingordo occhio rimirando la beltá de la donna, che cantando parea che si facesse piú bella, non potea saziarsi di rimirarla e contemplar con quanta grazia ella maestrevolemente cantava, parendogli assai piú bella e aggraziata di quello che gli era stato detto. Mentre che si cantava, li servitori di Vitaliano, per uno cenno che egli fece loro, apprestarono una bella collazione di varie sorti di confetti, di ciregie e altri frutti che la stagione portava, e di generosi vini; e cosí, poi che si fu finito di cantare, fecero collazione, essendo il signore gentilissimamente e con gran cortesia servito. Era quello giardino molto bello e bene tenuto in ordine, e fu mirabilmente dal signor Francesco lodato. Vitaliano quanto piú seppe e puoté ringraziò esso signore de la cortesia che usata aveva, essendo degnato cosí familiaremente smontare in casa di uno suo servitore, supplicandoli che spesso degnasse farli di questi favori. Il signore disse che, passando per la contrada e avendo sentito la dolce melodia del canto, era per meglio goderla smontato e intrato dentro. Cosí diportatosi buona pezza per lo giardino, e tuttavia mirando la bella Dianora, non se ne accorgendo, bevea per gli occhi l’amoroso veleno; di modo che, dopoi l’aver detto addio a tutti e partitosi, conobbe il meglio di se stesso essere rimasto in potere de la bella sovra tutte l’altre e leggiadrissima Dianora. E pensando a li casi e novo amore suo, tanto piú si sentiva ardere de l’amore di quella, quanto che meno sperava di poter pervenire al godimento e fine di questo suo amore, essendo publica voce e fama che, se mai marito e moglie insieme si amarono, che nessuno in questo avanzava Dianora e Vitaliano. Nondimeno, quanto piú in lui mancava la speranza, piú cresceva l’ardente disio. Faceva assai spesso il signore Francesco fare de le feste in palazzo per amore de la moglie, che molto si appagava a vedere danzare, e sempre Dianora vi era stata invitata; e, che che ne fosse stata la cagione, egli mai a le bellezze de la Dianora non aveva messo fantasia. Ma poi che l’amorosa vespa gli avea punto e trafitto il core, cominciò vie piú spesso ordinare de le feste. Onde, ballando con lei, a poco a poco cominciò tentarla d’amore, mostrandosi, come in effetto era, di lei fieramente innamorato. Ma Dianora, che a par de gli occhi suoi il marito amava, non dava orecchie a cosa che il signore le dicesse, anzi li rispondeva che d’altro le parlasse, non essendo ella acconcia a far cosa meno che onesta. Il che era a lui, che averebbe voluto venire a la conchiusione de l’amore, di fierissimi tormenti cagione; e quanto piú ella ritrosa si mostrava, egli tanto piú innamorato di lei si discopriva. Onde, non cessando tutto il dí con ambasciate e lettere tenerla sollecitata, tanto fece che tutta Padoa chiaramente si accorse da quale tarantola egli fosse tarantolato, essendo questa infermitá amorosa, quando in alcuno è radicata, che molto male si può celare, bisognando che in qualche parte si discopra ed esali, né piú né meno come fa il fuoco che sia stato qualche tempo coperto. E perché non è sí ostinato e adamantino core, che, pregando, amando, onorando e servendo, non divenga molle e non si pieghi al fine, cominciò Dianora prestare orecchie a le calde e affettuose preghiere de l’innamorato signore, e di tale maniera si piegò ad amarlo, che li diede speranza che averebbe l’intento suo con la prima commoditá che se le offerisce. Del che esso signore si teneva per lo piú aventuroso uomo del mondo, e una ora li sembrava uno anno a venire al tanto desiderato compimento del suo amore. Soleva Vitaliano andare molto spesso in contado a le sue possessioni, ove aveva belli e agiati casamenti, dove a la caccia dimorava tale ora a diportarsi cinque e sei giorni, ora piú ora meno, sovente menando seco la bella Dianora. Da questo andare fora del marito la buona moglie prese occasione di dare compimento agli amori del signore, di maniera che alcuna volta insieme li dui innamorati si trovarono, disfogando i loro poco onesti appetiti. Né crediate che il signore Francesco punto per questi congiungimenti scemasse le sue ardentissime fiamme; anzi parve che divenissero maggiori, tanto de la gentilezza e dolcissima prattica e soavissimi baci de la bella Dianora appagato si teneva. Né meno di lui la donna si contentava, non perché il signore fosse piú bello né piú aggraziato di Vitaliano, ché parangone non ci era, ma perché era il signore de la cittá, e ella troppo apprezzava il favore del prencipe e si teneva da molto piú di avere cosí fatto innamorato, cui le sue bellezze cotanto fossero accette. E cosí ogni volta che il marito andava fora a la caccia o per altri affari, ella dava il solito segnale e faceva venire il signore, col quale cacciava di una altra maniera, facendosi turare il mal foro de l’inferno con vie assai piú di piacere che non si prendeva Vitaliano in contado dietro a le bestie, al sole, al vento, e sovente a la pioggia e a la neve, perché ella al buio e al caldo de le lenzuola si trastullava e si dava il miglior tempo del mondo. E cosí andò la bisogna, usando questi loro amori meno che discretamente, che molti chiaramente se ne avidero, ma per téma del signore nessuno ardiva farne motto. Ora tra gli altri che di questi congiungimenti si accorsero, la moglie del signore, non so come avertita fosse, conobbe troppo certo il dispettoso torto che il marito le faceva. E certificata di questo con chiari ed evidenti segni, fu da tanto dolore assalita e da tanto cordoglio presa, che quasi fu per morire di rabbia. E non potendo né sapendo moderatamente sopportare il fiero conceputo sdegno, la appassionata signora infermò di una acutissima febre colerica, che miseramente la coceva e tormentava. Il signore Francesco, fatti venire li suoi medici, non mancava a la cura de la moglie in conto alcuno. Li medici usavano tutti quelli rimedii che Ippocrate e Galeno e la scola greca e anco l’arabica loro insegnava. Ma poco giovamento a l’inferma recavano; non giá che li rimedii non fossero salutiferi, ma perché lo sdegno e la còlera che la donna aveva erano cosí forti e velenosi, che tutto il corpo di lei di mortalissimi umori avevano infetto e guasto. Ella, inteso il periglio nel quale era, dato luoco a la ragione, disse fra sé: – Adunque sarò io sí sciocca che per questo ingrato adultero di mio marito vorrò morire? Cessi Iddio e togliami di capo questo pensiero, che io sí pazza sia che ami chi me non ama! – Su questo pensiero prese ella meraviglioso miglioramento, e come saggia la sua passione dissimulava, avendo il fervente e maritale amore convertito in fierissimo odio. Ella notte e dí in altro non pensava che de la ricevuta ingiuria altamente vendicarsi e de le medesime armi ferire il marito, che egli ferita lei aveva. Conchiuse adunque fare il marito, stando in Padova, marchese di Cornovaglia. Andava dunque considerando chi fosse piú al proposito, acciò che, eleggendo uno di costumi e vertú qualificato, facesse conoscere al mondo, se mai si risapeva, che non appetito di libidine ma sdegno e disio di giusta vendetta l’avessero astretta a rompere la fede maritale e per li capegli a viva forza tirata. Ma ella molto si ingannava, perché non le era lecito, ben che il marito facesse male, fare ella male e peggio. Essendo adunque guarita, le vennero gli occhi gettati adosso a Vitaliano, e pensò quello devere essere atto a fare la sua e di lei vendetta. Era egli assai seco dimestico, perché ella si prendeva assai piacere del gioco degli scacchi e sovente con Vitaliano giocava. Onde cominciò dargli il giambo e dirli che non credeva che volesse tanto bene a la moglie come egli in apparenza mostrava. Non poteva Vitaliano sofferire che se li desse la baia e se li dicesse che non amasse ardentissimamente la moglie, e che fosse uomo per amare altra donna che Dianora. Come la signora si avide che egli niente de lo scorno sapeva che da la moglie gli era fatto, deliberò del tutto avertirlo e tentare ciò che di lui poteva sperare. Giocando adunque a scacchi con lui, e di uno in altro ragionamento intrando, con bello modo gli scoperse l’adulterio de la moglie e l’ingiuria che a lui e a lei il signor Francesco faceva. Il buono Vitaliano, udendo questo e l’amore considerato che a la moglie ingrata portava, fu per morire di estrema doglia e quasi isvenne. Del che accortasi la signora, li disse tante ragioni che molto l’acquetò e levò fora de la fiera passione che sofferiva. Lamentandosi poi del marito, che sí poco anzi niuno conto teneva di lei, e dicendo che assai sovente lo sdegno vie piú che l’amore è potente e induce le donne che hanno il core generoso a fare di quelle cose che non deveriano, sí bene e accommodatamente seppe adornare il caso suo, che il dolente Vitaliano le disse che ella avea gran ragione se al signore rendeva pane per fogaccia. Adunque soggiunse la signora che, se egli aveva intelletto, che devea disporsi a trattar Dianora come ella trattava lui, ed essendo tutti offesi, rendere la pareglia agli offensori. In fine, essendo la donna assai bella e leggiadra, tutti dui si accordarono insieme di fare la vendetta, con le arme de la sorte che senza ispargimento di sangue in uno letto amorosamente si usano. E cosí, messo ordine che celatamente insieme si potessero trovare, con piacer grandissimo de l’una e l’altra parte, lungo tempo insieme, col mezzo di una cameriera de la donna, goderono de li loro fortunati amori.


Il Bandello al magnifico e valoroso cavaliere


il signor Benedetto Mondolfo salute


Era questi dí la incomparabile eroina, la signora Elisabetta Gonzaga, giá consorte de la buona memoria del duca Guido Ubaldo di Urbino, alquanto del corpo indisposta; onde, essendo io andato a visitarla, trovai seco la individua sua cognata e compagna, la signora Emilia Pia. E di varie cose insieme ragionando, sovvraveniste voi con il dotto e nobilissimo messer Gian Giorgio Trissino, patrizio vicentino, che portò una lettera de la signora Margarita Pia e Sanseverina a la detta signora Emilia sua sorella. Fu il Trissino da la signora duchessa graziosamente raccolto. Indi si intrò a ragionare, non so come, de le tirannie e sconcie cose che Cesare Borgia usò in quel tempo che soggiogò la Romagna e la Marca; e si disse di tante morti quante egli col mezzo del suo crudele ministro Michelotto facea fare, strangolando tanti signori, ben che a la fine esso Michelotto spagnuolo fu in Milano in certa mischia morto, dicendosi che lo scelerato manigoldo avea fatto troppo bella morte, meritando publicamente per mano di boia par suo essere smembrato a brano a brano e dato per cibo a’ cani. La signora duchessa allora, non potendo a grande pena le lagrime contenere, rammemorò, quando tra Arimini e Cesena esso Borgia fece rapire una sua criata, che ella mandava a marito al capitano Carrazio, cui maritata l’avea, come esso Michelotto era capo de la cavalcata e fu cagione di fare morire molte persone di quelle che la sposa a Ravenna, ove il Carrazio avea le stanze, accompagnavano. Molte cose si dissero de le enormi e fierissime crudeltati di esso Cesare Borgia, nominato il duca Valentino, il quale non solamente negli stranieri ma nel proprio fratello fu fratricida immanissimo. E tuttavia de le sue infami sceleratezze ragionandosi, messere Gioan Giorgio, in conformitá di quanto si diceva, narrò uno altro simile caso da uno perfidissimo tiranno perpetrato, il quale tutti empí di stupore e insieme di pietá. La signora Emilia, come il Trissino fu de la sua novella deliberato, rivoltata a me, mi disse: – Bandello, in vero questo tirannico e abominabile caso punto non disconverrá tra le tue novelle. – Onde, avendolo descritto, in testimonio de la mutua amicizia che tra noi è, ve lo dono e al nome vostro consacro, pregandovi a farlo vedere al nostro gentilissimo signore Angelo dal Bufalo. State sano, e ricordatevi spesso che, come dicevamo questi dí a proposito di quello amico, che cosí come nostro signore Iddio guiderdona le buone e sante opere, parimente anco gastiga coloro che operano le sconcie cose. Di novo state sano.