Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella LI
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Novella LI
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Il cavalier Spada per gelosia ammazza se stesso
ed anco la moglie perché non restasse viva dopo lui.
Giá sono, illustrissima madama, circa dicesette anni passati che Paiazete imperadore de’ turchi bandí l’oste a dosso ai veneziani e tolse loro nel Peloponesso, che oggi la Morea si chiama, la cittá di Modone per forza; ove tante e sí varie crudeltá usò che per memoria d’uomini mai da barbari non furono usate le maggiori. Il perché tutti quelli che ebbero il modo di levarsi da le mani dei turchi, lasciata l’amata patria, abbandonati i lor beni, a la meglio che puotero se ne vennero in Italia. Di questi adunque da le mani de’ turchi fuggiti se ne condusse uno qui in Mantova ai servigi del magnanimo e liberal signor marchese vostro consorte, il quale si chiamava Pietro Barza, uomo ne le guerre molto essercitato e prode de la persona, che poi il signor vostro consorte, conosciuto il suo valore, fece capo di molti stradiotti. Prese costui per moglie una gentildonna che anco ella era di Grecia, venuta pure de la cittá di Modone, e si chiamava Regina, giovane di tanta e sí incredibil bellezza dotata, che da tutti era detta «la greca Elena». Era poi oltra l’estrema beltá in modo costumata e gentile e di tanta onestá di quanta altra donna si ritrovasse. Il perché dal marito sommamente amata ed accarezzata, se ne viveva molto contenta. Abitavano nel borgo di San Giorgio, ove il signor marchese a messer Pietro, de la Regina marito, aveva una agiata casa donato, e stando insieme ebbero una figliuola, senza piú. Né guari stette che messer Pietro morí. Onde essendo la Regina giovane di ventitrè in ventiquattro anni rimasta vedova, si condusse con la picciola figliuola in casa d’un suo fratello abitante nel medesimo borgo, e quivi con somma onestá se ne viveva. Avvenne che non essendo ancora l’anno che ella era vedova, il cavaliero Spada albanese, uomo tra la nazion sua assai stimato, di lei fieramente s’accese. E veggendo che cosa che egli facesse per acquistar l’amor di quella nulla gli giovava, tolse per espediente di ricercarla per moglie. Era esso cavaliero Spada insieme col fratello de la donna ritrovatosi su molte guerre, essendo tutti dui cavalli leggeri, talmente che seco aveva contratta molta domestichezza e somma benevolenza. Il perché presa un giorno la comoditá, dopo molti ragionamenti gli domandò la sorella per moglie. Egli che conosceva il cavalier Spada valente e da’ capitani di cavalli leggeri amato, gli promise che con la sorella farebbe ogn’opera a ciò che avesse l’intento suo. Né diede guari d’indugio a la cosa, ma quello stesso giorno parlò con la sorella, a la quale seppe tanto dir e fare e sí bene persuaderla che ella consentí di rimaritarsi. Onde non dopo molto il cavalier Spada sposò la Regina, con la quale, amandola assai piú che la vita, cominciò a darsi il meglior tempo del mondo, e si riputava meglio maritato che uomo de la sua nazione. Veggendola adunque bellissima, e d’ogni mosca che per l’aria volava temendo, egli oltra ogni credenza geloso di lei divenne, di tal sorte che pensava ch’ognora gli fosse da le braccia rapita. Né altra cagione a ciò lo sospingeva se non che com’egli molto l’amava e molto bella la vedeva, e conosceva che ella con tutto il suo studio s’ingegnava di piacerli, cosí da malinconico umore avvelenato s’imaginava che ciascuno l’amasse e che ella ad ogni uomo piacesse, ed ancora che cosí cercasse di piacer altrui come a lui faceva. Ingelosito adunque, tanta cura e sí strema guardia ne pigliava e sí stretta la teneva che forse ci sono assai di quelli che, a capital pena condannati, non sono dai guardiani de le prigioni con sí diligente guardia tenuti. Ella che onestissima era e il marito unicamente amava, ancora che vita dura e fuor di misura dispiacevole ed amara vivesse, per non conturbarlo il tutto pazientemente sofferiva e quanto egli comandava metteva ad effetto, né mai con atti o con parole gli volle far intendere che egli avesse torto a tenerla de la maniera che la teneva. E cosí vivendo sperava pur di levar di capo al marito questa infermitá di gelosia e abominevol morbo, non con altra medicina che essergli in ogni cosa ubidientissima, senza mai darli un minimo sospetto di cosa alcuna. Ma il tutto era indarno. Io non credo che sia nazione al mondo piú sospettosa de l’albanese; onde il cavaliere Spada ingelosiva ogni ora molto piú e pareva che d’ogni cosa avesse paura, e non sapeva dir di che. Era egli stato molti anni al servigio del signor Gian Giacomo Triulzo e da lui a Castelnuovo molta roba di ghibellini avuta possedeva; onde parendoli che a Castelnuovo starebbe meglio che in Mantova, deliberò condurvi la moglie. Ed avendo fatta questa determinazione e a la moglie dettala, che del tutto si contentava, avvenne che in quei dí per Mantova ed anco ne lo stato di Milano si divolgò non so in che modo che il re di Francia, avendo saputo come il Triulzo s’era fatto borghese di svizzeri per il castel di Musocco, gli aveva fatto mozzar il capo. E spargendosi questa fama, in quei medesimi giorni il Triulzo che era vecchio morí in via tornando da la corte di Francia a Milano. Onde per tutto la morte affermandosi, ben che variamente il modo de la morte si dicesse, il cavaliero Spada tanto se n’attristò e in sí fiera malinconia ne cascò che nessuna cosa lo poteva allegrare, di maniera che altro tutto il dí far piú non sapeva che pianger dirottamente e lamentarsi. La moglie meravigliatasi di cosí subita ed aspra malinconia, gli domandò di questo strano accidente la cagione. Egli largamente le disse nessuna cosa affligerlo se non la mala nuova che de la morte di suo padrone si diceva, di che ella seco dolcissimamente se ne condolse e pianse. A la fine veggendo ella che il marito viveva con questa nuova una dolorosa e travagliata vita, e che di mal in peggio, non mangiando né dormendo tutto il dí procedeva, e ne le lagrime tutto si distruggeva, si sforzò piú volte confortarlo con quelle parole amorevoli che sapeva dire. Ma cosa che ella li dicesse, niente gli giovava. Erano una notte in letto, e poi che ebbe la Reina un poco dormito, dal pianger e sospirare del marito destata, conoscendo quello proceder ne la sua passione piú acerbamente che a lei non pareva convenevole, con verissime ragioni ed amorevoli parole cominciò a volergli levar questo umor fantastico di capo. Ma che! ella predicava a’ sordi, ed al vento le sue parole commetteva, perciò che egli altro non rispondeva che voler morire, non gli parendo dopo la morte di cosí amato padrone dever restar in vita. Onde le diceva: – Che vuoi, moglie mia, ch’io faccia senza lui? E veramente se una sol cosa non mi ritenesse, io morrei piú volentieri che mai morisse persona. E questo è, anima mia, che troppo piú che la propria morte mi dorrebbe dopo me lasciarti, ché solo pensando ch’altri dopo me ti devesse avere, mi morrò di doglia. – A questo la semplice e buona donna gli diceva che si levasse questa fantasia, affermandoli che se per caso egli morisse, che a lui sovraviver non vorria, anzi vorrebbe ella prima morire che vedersi questo cordoglio de la morte di lui. E piú volte fecero simil ragionamento, dicendo sempre ella che dopo lui la vita non le saria cara. Avuta l’albanese questa risoluzione, finse aver bisogno di scaricar il ventre, e levato di letto se n’uscí fuor di camera, né guari stette che ritornò. Ed appresso a la moglie corcatosi, assai piú che non era solito la festeggiò e non lasciò parte del candidissimo corpo di lei che non basciasse, quell’amoroso piacer di lei prendendo che tanto gli uomini da le donne ricercano. Allegravasi la donna pensando che il marito devesse uscir di quei suoi fieri farnetichi, ed egualmente quello accarezzava. Ma egli di nuovo ritornò a le lagrime ed ai sospiri. Qui di nuovo la moglie attendeva a confortarlo; e replicando egli le parole che di giá dette le aveva, e ridicendogli ella che dopo lui viver non potrebbe, ed egli avendole due e tre volte le medesime parole fatto replicare, il crudele ed inumano albanese, preso un pugnal bolognese che nel letto aveva recato quando di camera uscí, diede a la donna su la testa una pugnalata e in quello stesso instante un’altra a sé nel petto e cosí or sé or la moglie ferendo, la poverella e mal aventurosa moglie con bassa ed interrotta voce disse: – Oimè, io son morta, non piú. – Alora il fiero moglicida dandosi del pugnale nel mezzo del core cacciò la brutta e sceleratissima anima a casa di cento milia diavoli, e la misera e disgraziata donna restò piú morta che viva. La fante di casa ch’aveva pur udito non so che romore, era ita a la camera dei padroni e sentendo il ferir che il malvagio faceva, non potendo dentro entrare, era ita ad una finestra e chiamava aita ai vicini. Vennero alcuni e gettarono in terra l’uscio de la camera, e avendo lume con loro, trovarono il perfido e disleal marito boccone, trapassato su il quasi morto corpo de l’infelice moglie. Conobbero subito che la donna non era ancor morta. Il perché levatola di peso e postola sovra un altro letto, fecero venir un cirugico, il quale veggendo le profondissime piaghe de la donna quelle medicò, ma disse che piú d’uno o dui giorni non viveria. Ella alquanto in sé ritornata, fece chiamar uno dei sacerdoti di San Giorgio e confessossi, di core perdonando al marito, non potendo sofferire che nessuno di lui dicesse male, non incolpando altro che la sua disgrazia. Fece testamento e lasciò tutto il suo a la figlia che del primo marito aveva, e volle morendo ne la chiesa di San Giorgio esser ne la sepoltura del Barza seppellita. La matina, saputasi questa nuova per Mantova, monsignor illustrissimo e reverendissimo nostro ci mandò per informarsi del caso messer Sigismondo Fanzino suo gentiluomo, al quale la buona donna tutto quello puntalmente riferí che io ora v’ho narrato. Ella divotamente ricevendo i santi sacramenti de la eucarestia e de l’estrema unzione, passò di questa vita; e come ella aveva ordinato, a lato al suo primo marito fu seppellita. Il corpo del malvagio albanese con eterno biasimo di tutte le donne mantovane fu strascinato fuor de la cittá e come meritava fu lasciato per cibo di cani e di lupi. Chi vorrá adunque dire che questo non uomo ma fiero mostro abbia mai amato sí bella, sí gentile e sí costumata donna com’era questa nobilissima greca, a cui degnamente conveniva il nome di Reina, perciò che ella è stata reina di vera onestá e di buon costumi? Veramente egli non l’amava. Il perché potrassi senza bugia dire che non era amore ma furore, non benevoglienza coniugale ma rabbia strana e barbara. Cosí guardi Iddio tutte le donne generalmente da le mani di questi mariti maledetti e bestiali, perciò che queste cosí fatte gelosie a la fine riescono in estreme pazzie, come per quello che da me è stato detto di leggero potete aver compreso. Onde io sarei d’openione che fosse men male ad ogni donna d’ingegno capitar a le mani d’un pazzo che d’un geloso, imperò che i pazzi come sono per pazzi conosciuti, si può a le lor pazzie facilmente provedere, e tenendogli in casa in una camera legati, come fanciulli governargli. Ma al mal de la gelosia né Galeno né Ippocrate né quanti mai medici furono, hanno ancor saputo ritrovar rimedio alcuno. E credo che solamente la morte sia la vera medicina del geloso. Pertanto divotamente io prego Iddio che per liberar il mondo di tanta peste mandi tutti i gelosi in paradiso. Ché se il crudelissimo e scelerato albanese fosse dui anni sono andato in cielo, egli non averebbe sí solenne e nefandissima pazzia commessa, come da fiera gelosia accecato fece, e la bella e gentilissima greca con le sue bellezze e leggiadri costumi farebbe ancor onor a questa nostra cittá. Furono molti epitaffii posti su la sua sepoltura, tra i quali uno ora m’è a la memoria sovvenuto, non perché sia il piú bello, ma perciò che per esser in versi m’è piú restato in mente. Il quale mi par di dirvi e con la recitazione di quello finir oggimai il mio parlare. Dice adunque:
La greca ch’ebbe il titol d’esser bellaper cui sossopra il mondo fu rivolto, a par di questa fu men bella molto,com’è del sol men vaga ogn’altra stella.
E se famosa di beltá fu quella,di grazia e d’onestade in sé raccoltoebbe il pregio costei, di cui sepoltoil casto corpo giace in questa cella.
Ebbe un marito, oimè, crudo e feroceche fuor di modo ingelosito s’erasenza ragion aver del suo timore;
che con man omicida orrenda e fierauccidendo se stesso, a simil crocela moglie ancise ch’innocente more.
Il Bandello a l’illustrissimo e reverendissimo
monsignor Pompeo cardinal Colonna
S’io campassi piú anni che non fece Nestore che tanto seppe e tanto visse, non mi uscirá mai di mente la cortese umanitá vostra che, venendo voi di Fiandra col signor Girolamo Adorno ed il signor Cesare Fieramosca quando foste creato cardinale, a me degnaste in Mantova usare a la presenza di monsignor illustrissimo e reverendissimo Sigismondo Gonzaga cardinale di Mantova e dei detti dui signori, la quale nel vero fu oltra ogni credenza inestimabile. Ma che dirò poi de l’accoglienza che a Roma faceste a quello sfortunato bandito Giovanfrancesco Bandello mio padre carissimo, quando egli dal Fieramosca vi fu condotto in camera a farvi riverenza? Se il signor Prospero aveva usato de la solita sua larga liberalitá con esso mio padre, voi non voleste esser in modo alcuno da lui superato. E nondimeno io stimo molto piú quelle onorate parole che a mio padre di me diceste che se mi fosse stata donata una cittá. Onde mi sento cosí fatti lacci avvinti al collo de l’obligo e riverenza ch’io debbo a la gloriosa ed immortal Colonna avere, che eternamente le resto servidore e quella chino, onoro e riverisco. Ora desiderando io di mostrarmi non dirò giá grato, perché la mia bassezza non potrebbe verso tanta altezza usar gratitudine eguale ai ricevuti beneficii, ma almeno manifestarmi ricordevole di voi e debitor perpetuo, poi che né oro né argento dar vi posso, dandone tuttavia voi a me ed agli altri, imiterò i poveri contadini, i quali non possendo sacrificar a Dio con mirra o con incenso o con altre cose preziose, gli offeriscono de l’erbe e dei fiori e ne inghirlandano gli altari. Cosí io a ciò che veggiate che io di voi sono ricordevole, v’appresento una mia novella, e non con quella adorno l’ornatissimo vostro nome, ma con la gloria del vostro nome immortale abbellisco ed inghirlando il mio picciolo e povero dono, che essendo con il vostro glorioso nome veduto, sará sempre stimato esser qualche cosa, ché senza quello sarebbe nulla. Eccovi adunque essa novella che questi dí a la presenza di madama illustrissima di Mantova narrò Cristoforo Orefice da Milano, il quale non è molto che di Levante venne ed ancor con le navi portughesi è ritornato in quel nuovo e meraviglioso mondo. State sano.