Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella IX
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Novella IX
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Un geloso ode la confessione de la moglie per mezzo d’un frate, e quella ammazza.
Milano, come tutti sapete e ogni dí si può vedere, è una di quelle cittá che in Italia ha pochissime pari in qual si voglia cosa che a rendere nobile, populosa e grassa una cittá si ricerchi, perciò che dove la natura è mancata, l’industria degli uomini ha supplito, che non lascia che di tutto ciò che a la vita degli uomini è necessario cosa alcuna si desideri, anzi di piú v’ha aggiunto la insaziabil natura dei mortali tutte le delicature e morbidezze orientali con le meravigliose e prezzate cose che la nostra etá, ne l’incognito agli altri secoli mondo, ha con inestimabil fatica e pericoli gravissimi investigato. Per questo i nostri milanesi ne l’abbondanza e delicatezza dei cibi sono singolarissimi, e splendidissimi in tutti i lor conviti, e par loro di non saper vivere se non viveno e mangiano sempre in compagnia. Che diremo de la pompa de le donne nei loro abbigliamenti, con tanti ori battuti, tanti fregi, ricami, trapunti e gioie preziosissime? che quando una gentil donna viene talora in porta, par che si veggia l’Ascensa ne la cittá di Vinegia. E in qual cittá si sa che oggidí siano tante superbe carrette tutte innorate d’oro finissimo, con tanti ricchi intagli, tirate da quattro bravissimi corsieri come in Milano ognora si vede? ove piú di sessanta da quattro cavalli, e da dui infinite se ne troveranno, con le ricchissime coperte di seta e d’oro frastagliate e di tanta varietá distinte, che, quando le donne carreggiano per le contrade, par che si meni un trionfo per la cittá, come giá fu costume de’ romani quando con vittoria da le domite provincie e regi debellati e vinti a Roma tornavano. Sovviemmi ora ciò che l’anno passato io udii in Borgonuovo dire a l’illustrissima signora Isabella da Este, marchesana di Mantova, la quale andava in Monferrato, essendo alora morto il marchese Guglielmo, per condolersi con quella marchesana. Ella fu onoratamente visitata da le nostre gentildonne come sempre è stata tutte le volte che ella è venuta a Milano. E veggendo insieme tante ricche carrette cosí pomposamente adornate, disse a quelle signore che le erano venute a far riverenza che non credeva che nel resto di tutta Italia fossero altretante sí belle carrette. In queste adunque delicatezze, in queste pompe e in tanti piaceri e domestichezze essendo le donne di Milano avvezze, sono ordinariamente domestiche, umane, piacevoli e naturalmente inclinate ad amare e ad essere amate e star di continovo su l’amorosa vita. E a me, per dirne ciò ch’io ne sento, pare che niente manchi loro a farle del tutto compite, se non che la natura le ha negato uno idioma conveniente a la beltá, ai costumi e a le gentilezze loro. Ché in effetto il parlar milanese ha una certa pronunzia che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende. Tuttavia elle non mancano con l’industria al natural diffetto supplire, perciò che poche ce ne sono che non si sforzino con la lezione dei buon libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte, e limando la lingua apparare uno accomodato e piacevole linguaggio, il che molto piú amabili le rende a chi pratica con loro. Ma per venire a la novella che io intendo di dirvi e che l’anno passato di quaresima avvenne, vi dico che era qui in Milano un gentiluomo d’una cittá non molto di qui lontana, il quale, per certe liti che aveva di confini d’un suo castello, aveva condotto una agiata casa, ove egli con onorata famiglia dimorava. Questo essendo giovine e ricco, quando aveva due e tre volte la settimana, e piú e meno secondo le occorrenze, parlato con i suoi procuratori ed avvocati, lasciava la cura ad un suo cancegliero, che era molto pratico ed essercitato nel piatire, ed egli attendeva tutto il dí a darsi buon tempo, e ora dietro a la carretta di questa donna ora dietro a quell’altra a passare il giorno. Ora facendo il conte Antonio Crivello, come è di suo costume, recitar una commedia, fece un suntuoso convito a molti gentiluomini e gentildonne, tra i quali fu il giovine che litigava, il quale da qui innanzi chiameremo Lattanzio, non volendo io per ora valermi del suo proprio nome, come anco mi par dever far del nome de la donna de la quale mi converrá parlare, che Caterina sará nomata. Essendo adunque Lattanzio a cena assettato, s’abbatté a caso a seder a canto a Caterina, la quale piú non gli pareva aver veduta, e, se pur veduta l’aveva, non gli era altrimente entrata in fantasia. Sogliono i conviti partorire gran domestichezza tra quelli che vicini l’uno a l’altro mangiando si trovano. Il che tra Lattanzio e la donna avvenne, perciò che egli si mise di varie cose seco a ragionare, e a servirla tagliandole innanzi e simili servigi facendo che sogliono i gentiluomini a le tavole fare. Era Caterina molto avvenente e gentile e bella parlatrice, e, se non era de le piú belle, poteva perciò con le piú belle dimorare senza esser biasimata. Ragionando adunque insieme, e Lattanzio assai fiso rimirandola, cominciò a poco a poco, piacendogli la pratica e la leggiadria de la donna, non se ne accorgendo, a bere per gli occhi l’amoroso veleno, di tal maniera che, prima che si levassero le tavole, egli s’avvide molto bene che il colpo d’amore aveva troppo innanzi ricevuto. Onde, dato fine al mangiare e cominciatosi a danzare, Lattanzio invitò la donna a ballare, la quale cortesemente accettò l’invito. E cosí presala per mano e lentamente danzando, cominciò ad entrar con lei in ragionamenti di cose amorose. E non si mostrando ella punto schifevole di simil ragionamenti, Lattanzio spinse la pedina un poco piú avanti, e molto affettuosamente le scoperse quanto ella gli fosse piacciuta, lodando le sue belle maniere, gli atti, i costumi, la leggiadria e la beltá. Dicendole poi come per quella fuocosamente ardeva, con accomodate preghiere la supplicò che si degnasse tenerlo per servidore e volesse di lui aver pietá. La donna gli rispose molto saggiamente con dirgli che aveva caro d’esser da lui amata, come da quel gentiluomo che le pareva conoscere discreto, costumato e gentile, e che da lei non vorrebbe se non la salvezza de l’onor suo. E con questi e simili ragionamenti finito il ballo si misero a sedere l’uno a canto a l’altra, tuttavia ragionando d’amore. Ma per tanto quanto durò la festa, che fu fin passata mezza notte, sempre Lattanzio attese a ragionar dei casi suoi, riportandone di continuo le medesime risposte, tutte fondate in questo, che volesse aver risguardo a l’amore che ella era obligata a portar al suo marito, e a l’onor de l’uno e de l’altra, che a lei deveva esser piú caro che la vita, e che da fratello, conoscendolo cosí gentile e galante, l’amava. Lattanzio, che vide la donna non s’esser mostrata ritrosa a parlar d’amore, e che seco giá aveva preso molta domestichezza, si contentò per la prima volta di questo, e quella di brigata di molti altri uomini e donne fin a la casa accompagnò. Ed essendo in effetto veramente di lei innamorato, imparata la casa, attese a conoscere ove ella andava a messa, e trovò che quasi per l’ordinario andava a messa in san Francesco. Il perché egli cominciò assai a frequentar quella chiesa, e in compagnia di gentiluomini che quivi solevano praticare intertenersi, vagheggiando la sua Caterina, la quale gli faceva buon viso e mostrava di vederlo molto volentieri. Era venuto il tempo licenzioso del carnevale, nel quale un dí essendo Lattanzio mascherato, suso un bravissimo giannetto passò dinanzi a la casa de la donna, la quale alora era in porta, e quivi fermatosi e fattole segno chi fosse, si mise a ragionar con lei, e vi stette buona pezza sempre del suo amor ragionando. Ella se gli mostrò piú del solito graziosa, e motteggiò e scherzò con lui assai domesticamente, avendo di giá mezzo tra sé deliberato di prendersi Lattanzio per amante, ma voleva prima praticarlo e conoscer, se poteva, di che natura e costumi egli era. Lattanzio, parendogli aver trovata la donna molto domestica e piacevole, dopo averla infinitamente supplicata che di lui avesse pietá e gli comandasse, ché lo trovarebbe prontissimo ad ogni suo servigio, se le raccomandò umilmente e si partí. La donna, come egli si fu partito, se n’andò in camera, e pensando a l’amore di messer Lattanzio e a le affettuose preghiere che egli fatte le aveva, cominciò alquanto piú del solito de l’amor di lui ad infiammarsi. Era il marito de la donna molto fastidioso in casa, e quantunque lasciasse che ella andasse ove si volesse e che pomposamente vestisse, nondimeno spesso le diceva villania. Oltr’a questo, egli era forte innamorato, ne la contrada di san Rafaele per riscontro a la chiesa maggiore, d’una bella giovane, che teneva cuffie, balzi, cordelle, gorgiere ed altri ornamenti da donna, da vendere. Il che la donna aveva inteso da una sua commare. Per il che divenutane fieramente sdegnata, deliberava render il contracambio al suo marito. Onde, parendole che Lattanzio fosse a proposito, gli faceva di giorno in giorno meglior viso. Di che l’amante si teneva per sodisfatto assai. La commare, che de l’amore del marito aveva avvertita la donna, era d’albergo assai vicina a quella, e non aveva in casa altra famiglia che un picciolo figliuolo di dui anni ed una fanticella. Perseverando adunque Lattanzio in vagheggiar Caterina ed avendole piú volte sopra le feste parlato, ella, un dí che il marito era a desinare altrove, fece chiamar la sua commare e volle che seco desinasse come molte fiate era solita di fare. Poi che si fu desinato e che le maschere cominciarono per la contrada passare, Caterina con la compagna si mise a una finestra a ragionare. Non erano dimorate quivi molto, che passarono molte maschere, con una de le quali ragionando, passò Lattanzio suso una mula, ma senza maschera, il quale veggendo la sua donna a la finestra le fece onestamente con la berretta in mano riverenza. Come egli fu passato, cosí subito disse Caterina: – Commare, conoscete voi quel giovine che passa parlando con quella maschera? – Non io, – le rispose la commare; – ma perché me ne chiedete voi? – Io ve lo dirò, – soggiunse quella, – essendo certissima che voi mi crederete, e che quanto vi manifesterò terrete secreto appo voi, come vederete che il caso mio ricerca. Devete ricordarvi che molte fiate vosco mi sono domesticamente lamentata de la strana vita che tiene il mio marito, ché essendo circa a sette anni che io venni in questa sua casa, dal primo anno in fuori che io non ci poneva mente, egli mai non è stato che non abbia avuto qualche innamorata con la quale egli spende gran parte de le sue rendite. Ora egli è tutto il dí ne la contrada di santo Rafaele con Isabella, che so che conoscete, a la quale questo passato Natale donò di buona mano trentasette braccia di raso morello veneziano. Egli ed io ne abbiamo avuto insieme piú volte di sconcie parole, ma niente m’è giovato, di modo che io mi trovo bene spesso di malissima voglia, veggendo questa sua cattiva vita che tiene. Misera me, ché io poteva esser maritata in un conte dei Languschi in Pavia, e i miei fratelli volsero pure che io fossi di questo reo uomo. Quanto egli ha di buono, è che mi dá gran libertá del vestire e d’andare ove io voglio, e del governo de la casa e di spender come mi piace. Tuttavia in casa è piú fastidioso che il fastidio, ché non si cuoce mai vivanda che sia a suo modo, né giá mai egli ordinarebbe in cucina cosa che sia. Egli sempre ha a mangiar seco questi e quelli, e quanto piú ci è gente tanto piú grida e fa romore, e sempre d’ogni cosa dá la colpa a me, di modo che egli è, come si suol dire, il diavolo di casa e la festa de la contrada. Ma quello che piú mi preme e mi sta su lo stomaco, è che il malvagio uomo non si giace meco tre volte il mese, come s’io fossi assiderata o qualche stroppiataccia o di sessanta anni, che ancora non veggio il ventesimo terzo, e son pur morbida e fresca e, s’io non sono la piú bella di Milano, posso perciò comparir fra l’altre, e s’io volessi non mi mancheria chi mi farebbe la corte. Io so bene quanti amanti, e de’ primi di questa cittá, m’hanno vagheggiata e con ambasciate e lettere sollecitata, e a tutti sempre ho dato repulsa, seguendo il conseglio di quella benedetta anima di mia madre, che sempre mi predicava che io mettessi tutto il mio amore e tutti i miei pensieri in quello ch’io prenderei per marito, come la buona donna aveva fatto in mio padre. E cosí certamente ho fatto io, sperando pure che mio marito si devesse rimovere da questa sua malvagia vita. Ma egli va di male in peggio, di modo che io mi sono determinata proveder a’ casi miei, perdonimi Iddio, ché io non posso piú vivere a questo modo. Ché s’io avessi voluto viver senza uomo, mi sarei fatta monaca con una mia sorella maggiore, che si fece religiosa nel monastero di santa Radegonda. Ora, commar mia, v’ho io fatto questo breve discorso per aver da voi aita e conseglio, portando ferma openione che voi farete per me tutto quello che conoscerete che mi possa recar gioia e profitto. – A questo la commare s’offerse molto liberamente. Soggiunse alora Caterina: – Voi avete poco fa veduto passar qui dinanzi quel giovine su la mula, che voi mi diceste non conoscere, il qual mi par molto discreto e gentile. Egli piú volte ha questo carnevale parlato meco richiedendomi d’amore; ma io mai non gli ho risposto troppo buone parole. È ben vero che da qualche dí in qua gli ho fatto meglior viso del solito. Ora io mi sono ne l’animo mio risoluta che egli sia quello che supplisca ai diffetti del mio marito, o sia di giorno o sia di notte, con quel piú secreto e facil modo che sará possibile. Ma perché credo che noi due sole non poteremo al desiato fine condurre questo mio desiderio, penso che sará ben fatto che io mi discopra con la mia vecchia, la quale, quando mio marito non viene la notte a casa, si dorme ne la mia camera; ché de le giovani donzelle io non me ne fidarei giá mai. Che ne dite voi, commar mia cara? – Alora la buona donna cosí a Caterina rispose: – Veramente, madonna, io vi ho sempre avuto una gran compassione, veggendovi bella, giovane e delicatamente nodrita, e sapendo la pessima vita del compare. Ciò che detto m’avete resterá sempre sepolto in me. E poi che deliberate di non perder in tutto la vostra giovanezza, voi fate molto bene. Ora io sarei di parere che voi mi lasciassi parlar con la vecchia e tentar l’animo suo per veder come si muove, e lasciate guidar la cosa a me, perché io spero condurla a buon porto. – Restarono adunque in questa conchiusione, che la commare parlasse con la vecchia, e che trovandola disposta ai casi loro, che non si desse indugio a far che Lattanzio entrasse in possessione dei beni tanto desiderati, avendo di giá previsto il modo con il quale, tutte le notti che il marito a casa non veniva, egli assai leggermente si poteva con la donna trovare. Era una certa viottola che non aveva uscita, la quale terminava una de le parti de la casa di Caterina, ove rispondeva un uscio che dava adito in una stanza terrena assai grande, ove erano alcuni antichissimi tinacci da far vino che piú non erano in uso. Questo uscio, perciò che erano molti anni che non s’era aperto e lá tra quei vasi da vino nessuno praticava, e quasi nessuno mai era che andasse in quella vietta, non era in memoria d’uomo di casa né di donna, e tanto piú che dinanzi a quello stava un gran tinaccio che la vista de la porta in tutto occupava. Ma amore che ha piú occhi che non aveva Argo, poi che la donna si deliberò introdur in casa Lattanzio, le prestò un occhio dei suoi, con il quale ella vide la porta, e il tutto bene considerato pensò non v’essere piú sicura via di quella a dar compimento agli appetiti suoi. Parlò poi la commare con la vecchia, e la trovò dispostissima a tutto quello che la padrona voleva. Onde, dato l’ordine tra loro di quanto a far s’aveva, Caterina tanto cercò che a le mani le vennero certe chiavi vecchie, ne le quali la vecchia, ora una or un’altra provando, trovò quella che l’uscio apriva. Il che fatto, e stando un dí ne l’ultimo di carnevale Caterina suso la porta presso la sera, passò Lattanzio a cavallo mascherato, e a quella s’accostò dandole riverentemente la buona sera. La donna con amorevoli accoglienze lo raccolse, ed entrando Lattanzio nel solito ragionare dei suoi amori, e domandando comoditá di poterle parlare in luogo segreto, ella, poi che due o tre volte s’ebbe fatto pregare, non potendo piú stare su ’l duro ed avendo non minor voglia di trovarsi segretamente con Lattanzio di quella che egli avesse d’esser con lei, cosí gli disse: – Io vo’, Lattanzio mio, crederti tutto quello che tu ora e tante altre volte del tuo amore che mi porti detto m’hai, e metter ne le tue mani la mia vita e l’onor mio. Fa ora che tu ne sia cosí buon guardiano, e che in modo e te e me governi, che danno alcuno e meno vergogna non ne segua. Tu vedi quella viottola lá al fine de la mia casa: quella sará, che ti dará adito di venir a me ogni volta che mio marito non ci sia. E per non aver cagione di mandar messi innanzi e indietro, la mia commare che sta lá in quella casa, – e mostrolli la porta, – la quale di tutto l’animo mio è consapevole, ti avvertirá del tutto. Mio marito questa sera non ci sará né a cena né a dormire, se non sono errata. Ella cenerá meco tra le due e le tre ore di notte, e a le quattro io farò che la famiglia mia tutta sará a letto, e alora la mia commare si troverá in casa. Sonate le quattro ore, ella t’attenderá, e da lei saperai se mio marito sará per tornare o no, e secondo lei ti governarai. D’una cosa ti vo ben pregare, che tu in questo caso ti fidi meno de’ tuoi servidori che sia possibile, a ciò che partendosi poi da te, come spesso avviene, non sia qualcuno di loro cagione di metterci in bocca del volgo. – Lattanzio, udito questo non creduto ragionamento, ed accortosi a lo sfavillare degli occhi de la sua donna che ella tutta d’amore ardeva, si tenne il piú contento ed avventuroso uomo del mondo, e restò sí pieno d’ammirazione e d’allegrezza, che non capeva ne la pelle e non sapeva che dirsi. Pure, raccolti gli spiriti, rese quelle grazie a la donna che puoté le maggiori, promettendole che tutto solo a trovar la commare se ne verrebbe, celando a tutti i suoi servidori il suo amore. E cosí, con il core che gli notava in un mar di zucchero, se ne partí e andò a casa. Quella sera egli poco cenò, essendo ebro d’inusitata gioia ed anco pensando che gli conveniva correr la posta. Al suono poi de le quattro ore tutto solo se ne partí, e diritto andò a trovar la commare, che con la porta non fermata l’attendeva. Da lei seppe che il marito non era stato a cena e che anco non ci sarebbe per quella notte, e che v’era bene stato un fratello de la donna con un altro gentiluomo che ella non conosceva, e che tutti erano partiti innanzi a lei. E molte altre cose tra loro ragionate, Lattanzio si partí ed entrò dentro la picciola via, e dato il segno che la commare detto gli aveva, la vecchia che a la posta era aperse tanto pianamente l’uscio che a pena egli dentro poteva entrare, perciò che il tinaccio impediva che tutto l’uscio s’aprisse. Entrato dentro, fu da la vecchia chetamente a la camera de la madonna condotto, ove quali fossero l’accoglienze, le carezze e gli amorosi abbracciamenti che i novelli amanti si fecero, e quali i diletti e i piaceri che, entrati nel letto, si presero godendosi amorosamente insieme, sarebbe troppo lunga istoria a raccontare. Tanto è che Caterina il dí seguente giurò a la commare che assai piú di piacer aveva avuto quella notte, ch’ella non aveva avuto in tutto il tempo ch’ella era stata col marito. Ora, prima che il giorno albeggiasse, Lattanzio contentissimo e stracco si partí, dati sul partir piú di mille basci a la sua innamorata. Come egli fu per uscir fuor de la porta, diede diece ducati d’oro a la buona vecchia essortandola a servir fedelmente la sua padrona, e che mai egli a lei non mancarebbe. La vecchia, che tanti mai non ne aveva tenuti in suo potere, lo ringraziò molto e si riputò ottimamente sodisfatta. Lattanzio, tornato a casa, si mise a dormire, avendo tutta la notte cavalcato. Ora la bisogna andò di sí fatto modo, che per tutto un anno Lattanzio si trovò pur assai volte a giacersi con la sua donna e si davano tutti dui il meglior tempo del mondo. Fra questo mezzo la commare ebbe molti ducati da Lattanzio il quale le promise che, come il suo picciolo figliuolo fosse grandicello, lo piglierebbe per paggio. Godendosi adunque insieme questi dui amanti e, come ho detto, avendo durato circa un anno, di modo che, avendo avuto principio il lor godimento di carnevale, è durato fin a l’altro carnevale, il marito di Caterina, non saperei dire per qual cagione, entrò in questo pensiero, che cosí di rado giaccendosi egli con la moglie, ella non avesse qualcuno che invece di lui, quando non c’era, coltivasse il giardino de la moglie e lo inaffiasse piú che egli non averia voluto. Onde, entrato in gelosia, né sapendo di che, cominciò a star piú a casa che non era consueto, massimamente la notte; il che agli amanti non piaceva molto. Ora, venuta la quadragesima, deliberò il marito, se possibile era, udir la confessione de la moglie. Ed entrato in questo umore andò a santo Angelo a trovar il frate, al quale sapeva che Caterina era usa di confessarsi, e seco cominciò di varie cose a ragionare e farsegli assai domestico, e tanto continuò questa sua pratica, che avendo il frate venduto il pesce, si lasciò da le favole di costui in tal maniera pigliare ed abbagliare, che gli promise tenerlo appresso di sé dentro il luogo ove soleva confessare alora che egli udirebbe la confessione de la sua moglie. Ordinato questo, e dato il geloso molti danari al frate, che ne la cappa gli prese per non toccargli con mano, attendeva il giorno che la moglie andasse a confessarsi. La donna era consueta mandar sempre un giorno avanti ad avvisar il suo padre spirituale. Il che dal geloso saputo, informò benissimo il frate di ciò che deveva domandarla. Venuto il dí assegnato, dopo desinare la donna montò in carretta e andò a santo Angelo, ove di giá il marito era andato. Come la donna fu giunta, fece chiamar il suo padre ed entrò in un di quei camerini che sono a posta fatti per confessarsi. Da l’altra banda, pigliata la oportunitá che da nessuno furono veduti, entrarono il ribaldo frate ed il matto geloso che andava cercando ciò che non averebbe voluto trovare, entrarono, dico, dentro il contracamerino. Quivi, cominciata la confessione e venutosi al parlamento dei peccati de la lussuria, la donna confessò il peccato suo che con l’amante faceva. – Oimè, figliuola mia, – disse lo scelerato frate, – non te ne ripresi io agramente l’anno passato, e tu mi dicesti che nol faresti mai piú? È questo ciò che m’hai promesso? – Padre, – disse la donna, – io non ho saputo né potuto far altrimenti, e di tutto questo n’è cagione la malvagia vita del mio marito che come sapete mi tratta, ché altre volte il tutto v’ho detto. Io son donna di carne e d’ossa come le altre, e veggendo che mio marito non si è mai di me curato, mi son proveduta a la meglio che ho potuto. E almeno fo io tanto che le cose mie sono secrete, ove quelle di mio marito sono favola del volgo, e non che in broletto se ne parli, ma non è barberia né luogo ove non se ne canzoni. Il che dei fatti miei non avviene, anzi tutti m’hanno compassione e dicono che egli non merita cosí buona moglie com’io sono. Hollo io sopportato circa sette anni con speranza ch’egli devesse emendarsi e lasciar l’altrui femine, ma la cosa va di mal in peggio. A me duole di far ciò ch’io faccio, e so che offendo nostro signore Iddio; ma altro far non ne posso. – Figliuola mia, – soggiunse il frate, – egli non si vuol far cosí, perciò che queste scuse non vagliono. Tu non dei far male perch’altra il faccia, ma conviene che tu sopporti ogni cosa pazientemente e che aspetti che Dio tocchi il core a tuo marito. E forse anco tuo marito non fa tutto quello che dici. Ma chi è questo tuo innamorato? – Egli è, padre – disse la donna, – un giovine gentiluomo, che mi ama piú che la vita sua. – Io dico, – rispose il frate, – com’egli si chiama. – La donna sentendo questo e avendo giá udito predicare che ne le confessioni non si deveno nomar quelli con cui si commette il peccato per non infamargli, disse alquanto ammirativa: – Oh, padre, che mi domandate voi? cotesto io non son per dirvi. Bastivi che io confessi i miei peccati e non quelli del compagno. – Ora vi furono assai parole; ma, non volendo la giovane prometter di lasciar l’amante, il frate non la volle assolvere. Onde ella si levò del camerino ed entrò in chiesa e disse sue orazioni, e poi se n’andò per montar in carretta. Il beccone del marito, con animo fellone e pieno di mal talento uscito del camerino e de la porta del convento, ne venne diritto verso la carretta de la moglie, la quale veggendolo l’attese. Come egli le fu appresso, sfoderando un pugnale che a lato aveva, le disse: – Ahi puttana sfacciata! – e le diede del pugnale nel petto, e subito ella cadde in terra morta. Il romore si levò grande, e gente assai quivi si raccolse. Egli se n’andò non so dove, e indi a pochi dí si salvò su quello de’ veneziani, ove cercando d’aver la pace dai cognati, fu da quelli fatto, non dopo molto, essendo ito a caccia, tagliar a pezzi. Eccovi adunque ciò che causò il mal regolato appetito d’un marito volendo saper per vie non convenienti ciò che non deveva sapere, e che fine ebbe la sceleratezza del malvagio frate, il quale, per quanto mi affermò uno che lo poteva sapere, fu mandato in pace, da la qual pace ci guardi tutti nostro signor Iddio.
Il Bandello al magnifico e vertuoso
messer Giovanni Battista Schiaffenato
Quanto s’ingannino, Schiaffenato mio gentilissimo, tutti quelli i quali, come vedeno che un uomo vagheggia qualche donna, che per lei sospira o fa di quelle pazzie che communemente fanno quelli che paiono innamorati, dicono: «Costui ama la tal donna», e chiamano l’appetito amore, assai è noto appo quelli che conoscono le differenze che i savii e dottrinati uomini ragionevolmente hanno messe ne le potenze de l’anima nostra. Ed ancor che amore sia affetto de l’appetito concupiscibile, bisogna divider questo amore in molte specie per venire al vero e perfetto amore; ma questa sarebbe troppo lunga disputa e cosa da filosofo. Tuttavia, per venir a quello che mosso mi ha a scrivervi, vi dico che ne le cose naturali, per conservar l’esser loro, è ordinato da la natura, non solamente per un istinto naturale, che debbiano seguir ciò che giova e fuggir ciò che nuoce, ma ancor fa germogliare in loro una inclinazione di resister con ogni sforzo a tutto quello che tal seguimento o fuga gli impedisce. Il medesimo è in noi, a cui la natura ha donato un appetito di bramar ogni cosa che buona ci paia, e per il contrario di schifar ciò che giudichiamo esserci nocivo, il che è che, secondo i peripatetici, l’appetito concupiscibile ha anco a noi fatto cortese dono d’un appetito, col quale ci sforziamo di far contesa a chi vietar ci volesse il conseguimento del bene, o vero impedirci che schermo non facessimo al male, che appetito irascibile vien detto. Devete poi sapere che gli affetti che in questi appetiti sono, ancor che siano atti a sottoporsi a la ragione, nondimeno, quanto in loro è, contrastano volentieri con quella e come nemici se le oppongono tuttavia. Il che chiaro si comprende in quelli i quali, ancor che la ragione mostri loro il bene, nondimeno invitati da l’appetito lasciano il bene e s’appigliano al male, massimamente ne le cose de l’amore, ove l’uomo, sprezzata la ragione, vive da bestia ed opera senza ragione, perché cacciato da l’appetito sensitivo non regolato da la ragione passa da la vera specie de l’amore a l’amor ferino e bestiale, come non è molto che il nostro piacevole e dotto messer Francesco Appiano, medico e filosofo dottissimo, ci mostrò quando a la presenza d’una bellissima compagnia narrò il modo che tenne Maometto figliuolo d’Amorato imperador de’ turchi in un suo amore, che piú tosto furore si può chiamare. Il che avendo io scritto, al nome vostro dedico e consacro. In questa novella vederete quanto s’ingannino coloro che ogni lor disordinato appetito chiamano amore. State sano.